DA CRISI SANITARIA A CRISI FINANZIARIA: LA FINE DI UN MONDO

Da una crisi sanitaria di questa portata non ci si poteva che aspettare una crisi economica della stessa misura. Una percezione che veniva confermata anche da diversi studi recenti, ultimi su tutti quello della Bundesbank, in cui l’istituto parla di recessione profonda per l’economia tedesca. A seguire la Banca centrale di Madrid, che ha previsto un crollo del Pil spagnolo fino ad un massimo del -13,6% nel 2020. Anche per l’Ufficio Parlamentare del Bilancio italiano si prefigura un calo dell’attività economica di intensità eccezionale con una perdita di 15 punti di PIL nel primo semestre, un calo mai registrato nella storia della Repubblica.

In che modo e quando sarebbe partita la crisi, invece, rimaneva un dibattito aperto. Lunedì 20 aprile alle 20:30 (ora italiana) la spia si è accesa e si è registrato il primo chiaro episodio di recessione che segna di fatto l’inizio dello spostamento dalla crisi sanitaria alla crisi economica, attraverso una crisi finanziaria. L’evento in parte non ci deve sorprendere, ma assume un valore simbolico e storico epocale.

Nello specifico, la quotazione dei contratti a maggio del Wti, ossia il greggio di riferimento per il mercato statunitense, ha chiuso con una diminuzione del –305% e il prezzo del barile è sceso sotto lo zero, addirittura a -37 dollari. Avvenimento mai successo da quando hanno aperto le negoziazioni di futures sul petrolio. Tecnicamente, un future è uno strumento finanziario che impegna l’acquirente ad acquistare alla scadenza ed al prezzo prefissati l’oggetto dello scambio, in questo caso il petrolio. Quindi, coloro che devono consegnare il petrolio Wti a maggio sono arrivati a “pagare” il compratore purché glielo togliesse dalle mani (e non poco, ma ben 37 dollari al barile!). Un crollo gigantesco se consideriamo che solo tre mesi fa il prezzo era di 60 dollari al barile.

Questa situazione straordinaria è legata al fatto che la domanda di petrolio è precipitata perché sono bloccate tutte le attività a causa della pandemia e che l’offerta invece non si è fermata per motivi di scontro geopolitico, arrivando così a saturare i magazzini degli USA. È probabile che qualcosa di simile avverrà in Europa e all’indicatore finanziario di riferimento, il Brent, che da giorni sta registrando cali drastici. L’evento di lunedì sera, registrato sul mercato finanziario, avrà pesanti ripercussioni sull’economia reale, a partire dal mercato del petrolio e a seguire su tutta l’economia mondiale e sui fragilissimi equilibri su cui si basava.

Il mercato del petrolio, infatti, non è un mercato qualsiasi e negli ultimi 50 anni è stato il simbolo di un modello di capitalismo basato sul dollaro e sull’egemonia statunitense. Tuttavia, il fatto che sia il primo a cedere non è casuale, diversi analisti avevano previsto il possibile declino dell’egemonia del petrolio USA. Questo perché negli Stati Uniti negli ultimi 10 anni si è deciso di iniziare a sfruttare dei giacimenti di combustibili (i c.d. shale fields) che erano già conosciuti ma non sfruttati per via dell’enorme costo di estrazione. Dalla presidenza di Barack Obama, invece, hanno deciso di utilizzarli per ridurre la dipendenza energetica dal resto del mondo e mettere in difficoltà il cartello dell’Opec. Raggiunti questi obiettivi, il governo Usa ha potuto così perseguire scelte geopolitiche più aggressive contro regimi ostili, in primis quello iraniano e venezuelano, senza dover sopportare i rischi di una crisi petrolifera stile anni ’70.

Tutto ciò però è stato possibile solo grazie alla presenza di enormi quantitativi di liquidità sui mercati finanziari per via delle espansioni monetarie delle banche centrali. In questo modo, le aziende del settore hanno potuto ottenere credito a costi nulli e sostenere la crescita produttiva nonostante la maggioranza delle imprese non riuscisse ad ottenere profitti dall’attività. Basti pensare che negli ultimi 10 anni i principali 40 produttori hanno speso oltre 200 miliardi di dollari in più di quanto abbiano incassato. Qualcosa che non poteva durare a lungo.

Gli analisti però immaginavano che il declino dell’egemonia USA nel mercato del petrolio sarebbe stato legato ad un inevitabile calo della produzione o ad uno scontro geopolitico, visto che Cina e Russia avevano deciso di iniziare a scambiare petrolio con valute diverse dal dollaro. Invece, è stato il cigno nero del Coronavirus a innestare la crisi. Influisce anche la guerra sotterranea fra USA, Arabia Saudita e Russia. Nonostante l’accordo per tagliare la propria produzione, Riad e Mosca sono ancora impegnate a strapparsi quote di mercato a colpi di sconti, e così deprimono i prezzi. Dalla loro hanno le più basse spese di estrazione al mondo, appena 3 dollari per i sauditi contro i 18 dei russi. Il costo di estrazione per lo “shale oil” americano è molto più alto, fra i 43 e i 53 dollari. Per questo motivo ora tremano molti produttori americani che rischiano un’ondata di bancarotte e il crollo di un settore che ha contribuito all’elezione di Donald Trump. Questa volta, a differenza del passato, non è detto che il solito ricorso al credito sia sufficiente.

L’evento di lunedì segna così anche l’ennesima disfatta dei mercati finanziari. Nella storia non si era mai registrato un valore negativo di una merce perché non possono esistere prezzi negativi, da un punto di vista economico non hanno alcun significato. Nei mercati per definizione i prezzi devono essere maggiori o uguali a zero. Si infrange così la favola della superiorità dell’autoregolamento del mercato, che per decenni è stata usata per piegare le scelte politiche e che si mostra nuovamente del tutto incapace di saper gestire la situazione. Ad oggi, infatti, tutti i parametri di riferimento sono fuori mercato: tassi di interesse negativi, prezzi negativi, crescita negativa. Il problema principale però è che il fallimento dei mercati finanziari si ripercuoterà poi a cascata sull’economia reale con ingenti costi che verranno scaricati su lavoratori e cittadini.

L’episodio di lunedì può essere così considerato come un punto simbolico di caduta di tutti i tentativi politici di risoluzione della crisi sistemica iniziata negli anni ’70 e che va trascinandosi con crisi economiche sempre più ravvicinate e violente alla quale il capitalismo cerca di porre da decenni delle pezze senza riuscirci. Alle ultime crisi, quella finanziaria del 2007-2008 e quella dei debiti del 2012, aveva risposto con una maggiore finanziarizzazione neoliberista e un intervento straordinario della politica monetaria, le quali oggi potrebbero non bastare più. A questo punto il sistema economico-finanziario si sta dirigendo nuovamente in un territorio inesplorato e guarda a un altro salvataggio illimitato da parte delle banche centrali e dello Stato.

Oro nero, energie fossili, petrodollari, interessi geostrategici, derivati finanziari, guerre, sono alcuni aspetti legati al petrolio che hanno riempito le pagine della nostra recente storia e hanno orientato non solo i rapporti internazionali e le politiche di tanti Paesi ma anche cambiamenti climatici e modi di vivere. L’arrivo improvviso del coronavirus ha scombussolato questo enorme castello che si pensava solido e incrollabile e una merce-simbolo di tale sistema, come l’oro nero, si è tramutata in un vettore della crisi sistemica e dei rapporti geo-politici tradizionali. È la fine di un mondo.

Questa accelerazione, però, dobbiamo stare attenti a saperla descrivere come la fine di UN mondo, ma non la fine DEL mondo, tanto meno di quello capitalista. Dobbiamo, infatti, assolutamente evitare di pensare che questa crisi non possa essere risolta in qualche modo da parte del sistema e quindi aspettare che il capitalismo crolli da solo sulla spinta dell’esplosione delle sue contraddizioni. La storia ci insegna che non è così. In questa accelerazione, la nostra funzione di saper delineare un’alternativa sistemica e di sviluppare strumenti di analisi adeguati diventa ancor più fondamentale. Come ci ricorda Lenin, di cui ieri ricorreva l’anniversario della nascita, non sono possibili cambiamenti reali a meno che non vi sia una forza sociale e politica pronta ad attuarli.