ll ministro Manfredi redivivo… solo per gli interessi del profitto

Il ministro Manfredi ha fatto un’altra uscita sull’università, dopo un lungo silenzio, riguardo a quello che per antonomasia è diventato uno dei settori più discussi durante questo anno di emergenza: la ricerca. Ha dichiarato che il “dottorato di ricerca sia un vivaio da dove estrarre i potenziali imprenditori dell’innovazione”, mettendo in chiaro la visione del governo per questo settore. Se già la ricerca è stata improntata a favorire la trasmissione dei brevetti alle aziende private, mettendo a profitto la ricerca pubblica, con questa crisi si vuole accelerare ulteriormente il processo.

Già dai piani del Recovery plan si vede come gli investimenti saranno mirati a stringere la relazione fra Università e impresa: quest’ultima, in seguito alla profonda crisi economica e alla marcata competizione internazionale, sta cercando tutti i modi possibili per ristrutturarsi e centralizzarsi, per aumentare i profitti. L’università e la ricerca devono quindi seguire sommessamente.


Si vuole agire però anche in un senso ideologico profondo: si vogliono rendere i dottorandi degli “imprenditori dell’innovazione”, sull’onda di quel mito delle start-up fatte dai giovani, quelli che arrivano e ce la fanno da soli. Sappiamo bene però che le cose non stanno così: i dottorati, come anche gli altri livelli della cosiddetta ricerca pubblica, sono già da tempo manodopera sfruttata dalle imprese private. Spesso vengono fatti dottorati direttamente ad uso e consumo dell’interesse del tessuto imprenditoriale in cui si ritrova l’ateneo. Inoltre, più l’ateneo risulta “eccellente” più i rapporti con l’impresa sono stretti, arrivando alla svendita di brevetti e alla collaborazione, fornendo quindi il lavoro e gli strumenti alle imprese.

I ricercatori risultano quindi dei veri e propri lavoratori sfruttati, a cui viene quasi totalmente alienato il brevetto finale che realizzano. Vivono inoltre condizioni materiali molto dure, sia per i salari ricevuti sia per le profonde patologie psicologiche che subiscono (il dottorando è la categoria lavorativa con la più alta percentuale di burnout). I tempi di lavoro non hanno il classico confine delle otto ore, non sono quindi previsti straordinari, e sono costretti ad una competizione all’ultimo sangue per accedere al livello successivo della ricerca.

In tutto questo percorso la stabilità non la vedono mai, rimanendo condannati alla precarietà. La narrazione secondo cui sarebbero degli “imprenditori dell’innovazione” non fa che nascondere la completa subalternità dei ricercatori ai profitti dell’impresa, il loro sfruttamento e la loro precarietà.


Anni di studio, di formazione, di sacrifici personali e delle famiglie si mostrano per quello che sono realmente: insoddisfazione, lavoro continuo e sfruttato, precarietà e impossibilità di soddisfare le aspettative che tutti noi ci siamo costruiti. Come l’università è fatta per creare competenze e lavoratori precari, questo non fa altro che realizzarsi nella ricerca. La condizione dei ricercatori è perfettamente inquadrabile in una condizione generazionale più profonda, che sta vedendo noi giovani vivere le condizioni più dure (economicamente e psicologicamente) in questo anno di emergenza.

Subiamo un impoverimento costante, frutto degli attacchi ai nostri diritti e nello studio e nel lavoro. Tutte le nostre aspettative sono disattese per lasciare spazio allo sfruttamento e alla precarietà.
Questo ordine di cose, però, è frutto di ministri come Manfredi, di governi come questo che inscenano litigate e crisi ma che continuano indifferentemente verso la stessa direzione: la messa a profitto dell’università pubblica. E non sarà un governo “più umano” a risolvere tutto questo, ma solo la lotta organizzata, il riscatto della nostra generazione attraverso lo strumento più forte che abbiamo a disposizione: l’organizzazione per costruire un’alternativa necessario allo stato di cose presenti.