GIOVANI NEL MIRINO DEL GOVERNO DRAGHI E DELL’UNIONE EUROPEA Ognuno scelga da che parte stare, la nostra è la lotta!

L’appena nato governo Draghi ha già messo in chiaro che una delle priorità saranno i giovani. Addirittura, una delle parole più ripetute da Draghi nel famoso discorso del meeting di Comunione e Liberazione a Rimini è stato proprio “giovani”, così come nel discorso al Senato per chiedere la fiducia. Ma non illudiamoci, questo interesse non è legato alla necessità di pensare un futuro migliore per una generazione nata e vissuta nelle crisi, ma piuttosto alla necessità di ristrutturare tutto il comparto formazione e ricerca per tentare di rilanciare il settore privato in funzione europea, nonché per spostare i costi della ristrutturazione su noi giovani.

Se analizziamo chi sono i ministri dell’istruzione e della ricerca, questo obiettivo diventa evidente. Come Ministro dell’istruzione troviamo Patrizio Bianchi, economista allievo di Romano Prodi (colui che ha svenduto il patrimonio economico italiano come presidente dell’IRI e protagonista della nascita dell’Unione Europea); collega di Draghi nel comitato di privatizzazione dell’IRI; rettore dell’Università di Ferrara; presidente della Fondazione CRUI (braccio operativo della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane); assessore alla Scuola, Formazione professionale, Università, Ricerca e Lavoro per 10 anni in Emilia-Romagna con i presidenti Errani e Bonaccini; coordinatore della task-force dell’ex ministro Azzolina. L’idea di Bianchi sull’istruzione è chiara e l’ha anche esposta in un suo recente libro, Nello specchio della scuola: rilancio della autonomia delle istituzioni scolastiche con ruolo sempre più preminente dei presidi-manager, incremento della funzione di valutazione del sistema utilizzando soprattutto i test Invalsi, aumento dell’investimento nelle scuole tecniche e professionali con conseguente polarizzazione dell’offerta formativa, istruzione piegata alle necessità delle aziende private e che deve fornire competenze flessibili e trasversali (che lui chiama collaborative problem solving skills) anche attraverso il superamento dell’alternanza scuola-lavoro (ora ridenominata PCTO, Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) verso una stretta e continua integrazione tra scuola e lavoro. Un progetto che non ha solo teorizzato ma che ha anche praticato da anni in Emilia-Romagna, avanguardia di questo tipo di politiche educative, e all’Università di Ferrara, dove ha lanciato i Programmi di inserimento lavorativo, ossia percorsi di transizione istruzione – lavoro a livello universitario.

Come Ministra dell’Università e della ricerca è stata invece nominata Maria Cristina Messa, medico e professoressa universitaria alla Bicocca di Milano, dove è stata anche rettrice; legata a Comunione e Liberazione; membro del Comitato di Coordinamento di Human Technopole (centro di ricerca voluto da Matteo Renzi che benché sia interamente finanziato dallo Stato con più di 800 milioni di euro ha natura giuridica di fondazione privata); delegata italiana MIUR nel programma Horizon 2020; membro della squadra che ha affiancato Roberto Maroni nella trattativa con il governo per l’autonomia della Lombardia; ex membro della Giunta della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. Anche la sua visione su Università e ricerca è chiara: l’università deve diventare una “fabbrica della conoscenza”, in cui anche qui sono centrali le competenze trasversali e personali (le cosiddette soft skills), le lezioni di imprenditorialità, lo “stile da campus americano”, il legame con le aziende private alle cui esigenze piegare la didattica e la ricerca, il rafforzamento delle differenze tra università di Serie A e università di Serie B, nonché il rafforzamento di poli di eccellenza pubblico/privati nella ricerca.

Possiamo dire quindi che si tratta di due Ministri tutt’altro che tecnici, come i giornali cercano di rappresentarli in questi giorni, ma fortemente politici, con legami accademici e politici forti, con visioni precise e con interessi chiari. Due Ministri che non avranno alcuna opposizione in Parlamento, visto che il governo Draghi si appresta ad incassare una maggioranza ampissima, forse tra le più ampie mai avute in Italia, e che non avranno nessuna opposizione neanche dentro il Consiglio dei ministri, dove ci sono altri soggetti chiave allineati sulle stesse posizioni di Bianchi e Messa.

Tra questi troviamo Maria Stella Gelmini e Renato Brunetta, autori nel 2008-2011 di tagli lineari all’istruzione e di riforme che hanno distrutto la scuola e le università pubbliche (tra cui ricordiamo tagli per 10 miliardi di euro, riduzione dell’organico per 100 mila unità tra insegnanti e personale ATA, premi di produttività ai docenti, disprezzo per i dipendenti pubblici considerati “fannulloni”, rafforzamento della valutazione tramite Invalsi e ANVUR, ridimensionamento scolastico e di corsi di laurea con diverse migliaia di istituti fusi in altri o cancellati, esternalizzazione dei servizi, innalzamento del numero di alunni per classe, blocco del turn-over, riforma della governance universitaria con ingresso dei privati nei Consigli di amministrazione delle Università, ecc.). Riforme contro le quali si sono mobilitati migliaia di giovani con manifestazioni di massa ed occupazioni di scuole ed università. 

Nel Consiglio dei ministri troviamo anche Vittorio Colao, altro finto tecnico che ha ricoperto numerosi incarichi come amministratore delegato (tra gli ultimi quello di Vodafone), designato dal governo Conte per guidare la task force necessaria a delineare i modi attraverso cui “sfruttare l’opportunità della crisi” e accelerare su processi che avrebbero richiesto molto più tempo. Il Piano Colao su Scuola, università e ricerca aveva come obiettivo preciso quello di passare dal garantire il diritto allo studio a garantire il “diritto alle competenze”, aumentare l’ingresso di privati sia nel finanziamento delle scuole che nella formazione dei docenti, nonché piegare la didattica e la ricerca alle necessità delle aziende a partire dal differenziare le funzioni delle università (tra serie A e B),  al potenziare l’istruzione terziaria professionalizzante, ai dottorati industriali fino ad arrivare a rafforzare i poli di eccellenza della ricerca.

Una visione sposata anche da Roberto Cingolani, fondatore ed ex-direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova, ossia del centro di ricerca voluto da Tremonti e finanziato con 100 milioni di euro ogni anno, cioè più dei 92 milioni di euro dei Progetti PRIN 2015 la cui durata è però triennale (meno di 31 milioni all’anno) e che devono far fronte ai progetti di ricerca di tutte le aree scientifiche. Una dimostrazione palese di cosa significano i centri di eccellenza della ricerca: accentramento in pochi poli della maggior parte dei finanziamenti pubblici (con una gestione anche opaca) e trasferimento ai privati dei risultati. Ma Roberto Cingolani è anche responsabile dell’innovazione tecnologica in Leonardo (ex Finmeccanica, la società pubblica specializzata in armamenti), ha partecipato alla Leopolda di Renzi, ai meeting di Comunione e Liberazione e agli incontri pubblici con Casaleggio, nonché è stato membro della task-force di Colao nella quale si è occupato proprio di ambiente. Dal documento finale del lavoro della task-force possiamo vedere qual è la visione che ha sulla transizione ecologica: un “volano del rilancio” dell’economia, che punti quasi esclusivamente su innovazioni tecnologiche e semplificazione delle procedure amministrative per velocizzare ancor di più proprio quel modello di sviluppo che è all’origine dell’attuale crisi, scaricando i costi di questa ristrutturazione sul pubblico ed “escludendo opponibilità locale”. Insomma, un progetto che sfrutti i movimenti giovanili ambientalisti per costruire consenso attorno al green washing dell’Unione Europea ma che in realtà serve per rilanciare i profitti, anche a costo di guerre (interne ed esterne) e distruzione ambientale.

A lavorare nella task-force di Colao troviamo anche il ministro Enrico Giovannini, ex capo statistico dell’Ocse, ministro del lavoro e delle politiche sociali del governo Letta, ideatore del progetto Garanzia giovani, voluto dalla Commissione europea e realizzato dal suo successore Giuliano Poletti sotto il governo Renzi. Un progetto che si è rivelato essere un totale fallimento per i giovani e un successo per le aziende che hanno potuto beneficiare di importanti sgravi fiscali. L’ultima proposta di Giovannini sui giovani è quella di formare una nuova generazione di imprenditori che si devono reinventare sfruttando l’occasione della crisi.

Una visione che non avrà problemi a portare avanti Andrea Orlando, nuovo ministro del lavoro, che era ministro nei governi che hanno varato il Jobs act, la Buona Scuola, Garanzia giovani, nonché è stato protagonista del decreto Minniti-Orlando.

A questi personaggi si affiancano Daniele Franco, ministro dell’economia, uomo di Draghi e “manina” che scrisse la famosa lettera Trichet-Draghi del 2011 che commissariava di fatto il governo Berlusconi; Giancarlo Giorgetti, ministro dello sviluppo economico, primo firmatario della legge che ha introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione, l’inventore dell’autonomia differenziata, che farà di tutto per salvare le aziende del Nord Italia, a cui non opporrà resistenze la ministra del Sud, Mara Carfagna, che tra le altre cose propone di sostituire il Reddito di cittadinanza con più fondi alle forze dell’ordine, ma neanche Erika Stefani che si era battuta per far approvare l’autonomia differenziata come ministro durante il governo Conti I, oltre ad essersi schierata contro lo ius soli; anche Marta Cartabia, ciellina, è nemica dei diritti civili (contraria ad aborto, matrimoni gay, testamento biologico); Luciana Lamorgese, è espressione sostanzialmente immutata della linea Orlando-Minniti-Salvini sia sulla questione immigrazione che su quella della repressione; Roberto Speranza, la cui gestione della pandemia ha già causato 100 mila morti e ci ha reso ricattabili dalle multinazionali farmaceutiche; Dario Franceschini (al quarto governo), che continuerà nel processo di messa a profitto della cultura.

Infine, per comprendere quali sono gli interessi rappresentati dal nuovo governo, dobbiamo considerare che: 3 ministri su 4 vengono dal Nord (in particolare 9 vengono dalla Lombardia e 4 dal Veneto); 7 ministri sono vicini a Comunione e Liberazione (Cartabia, Giorgetti, Giovannini, Brunetta, Gelmini, Carfagna, Messa); 5 ministri sono collegati alla Bocconi (Cartabia, Colao, Cingolani, Garavaglia, Giorgetti).

Tutto ciò ci fa comprendere che la designazione di Fabiana Dadone a Ministra senza portafoglio alle politiche giovanili è solo uno specchietto per le allodole e che la poca presenza delle donne nel governo è l’ultimo dei nostri problemi.

La composizione del governo Draghi rende chiaro il progetto su scuola, università e ricerca, così come è chiaro il progetto sul lavoro, sullo sviluppo economico e sulla transizione ambientale. Un progetto condiviso dall’intero arco parlamentare che va da Leu alla Lega, con la totale normalizzazione del Movimento 5 Stelle e la finta contrapposizione in pura visione elettoralistica di Fratelli d’Italia e alcuni componenti di Sinistra Italiana. Nella famosa intervista al Financial Times è Draghi stesso ad esporre il programma: bisogna salvare il settore privato cancellandone il debito o scaricandolo sui bilanci pubblici attraverso il “debito buono” (che prima o poi dovrà essere ripagato dalla collettività). Un concetto che ribadisce nel rapporto del G30 sulle politiche post-Covid in cui sottolinea che nel fare ciò vanno abbandonate le imprese zombie (piccole e medie imprese che non potrebbero reggere lo scontro interimperialista) e bisogna puntare sui campioni europei (come ad esempio Stellantis, fusione di FCA e Peugeot). Questo significa scaricare nuovamente la crisi sui lavoratori autonomi e dipendenti, sui giovani e sulle donne, acuendo la polarizzazione del mercato del lavoro, le differenze tra aree geografiche e la disoccupazione. Il nuovo mantra è “più Stato per il mercato”, ossia socializzazione dei costi e privatizzazioni dei profitti, e l’obiettivo finale è quello di accelerare il processo di costruzione del Polo imperialista europeo, in cui il mondo della formazione e della ricerca sono elementi strategici. Lo stesso Recovery Plan, per quanto possa essere modificato, conferma questa necessità. Il ruolo dello Stato, quindi, rimane centrale nel senso di indirizzo e supporto dell’attività privata per permettere il rilancio dei profitti e il rafforzamento dell’impero europeo. Un ruolo che si conferma nella crisi in corso, la quale sta venendo sfruttata dalla classe dominante per rafforzare il processo di integrazione europeo consolidando le gerarchie interne e soprattutto le sottostanti catene del valore economico-produttivo. In Italia, questo significa promuovere la competitività delle aree già più forti del paese e valorizzare maggiormente il capitale privato del Nord-Est che fa parte, in posizione secondaria, della filiera produttiva europea a guida tedesca. Lo scontro nel mondo della formazione assume quindi un carattere centrale anche nella necessità di utilizzare la formazione e la ricerca come strumento strategico per predominare nella competizione globale. Per questo motivo il mondo della formazione e della ricerca deve sempre più essere piegato alle esigenze del privato locale rafforzando una cornice istituzionale che favorisce scuole/atenei di serie A rispetto a quelli di serie B (differenziati a seconda della collocazione del territorio nelle catene del valore) e i cui contenuti e obiettivi devono essere sempre più piegati all’obiettivo finale del rilancio del profitto privato. Un rafforzamento quindi di un sistema contraddistinto da una centralizzazione del capitale, caratterizzata dalla progressiva scomparsa di medie e piccole imprese a favore di sempre più forti concentrazioni monopolistiche, e una polarizzazione del mercato del lavoro in cui pochissime persone accedono a lavori altamente qualificati e remunerati (principalmente nel Nord-Est), mentre la maggioranza si deve accontentare di lavori non qualificati, poco tutelati e poco remunerati, con una fascia sempre più ampia della popolazione che viene espulsa dal processo produttivo. 

Davanti a questo tragico presente che stanno disegnando per noi, non si può tentennare nell’opporsi fermamente al nuovo governo. Le strategie di entrismo – qualora abbiano mai sortito qualche effetto nella storia – rivelano la totale incapacità di chi lo pratica in buona fede e, al tempo stesso, palesano la subalternità complice delle strutture politiche che hanno assunto la funzione di foglia di fico abdicando al conflitto, agendo come pacificatore sociale e portando avanti rivendicazioni al ribasso (spesso per tornaconto personale dei dirigenti locali e nazionali, in cambio di lavoro in partiti e sindacati o prestigio da social o in libreria).

Riteniamo oggettivamente esauriti i margini di manovra di chi si rifugia in letture arcaiche “di base” rimuovendo completamente la complessità della realtà circostante arrivando quasi a negare il ruolo dell’Unione Europea e il suo progetto imperialista o, peggio ancora, fantasticando su inesistenti “altre europe” i cui risultati in Grecia sono sotto gli occhi di tutti. 

Ci troviamo davanti un passaggio storico centrale in cui sta venendo definito il nostro futuro e sul quale stanno mettendo una pesantissima ipoteca per le giovani generazioni. Organizziamo l’opposizione, il tempo di agire è ora. 

Noi Restiamo / Cravos / OSA / Comestudio Genova