QUALE EMANCIPAZIONE FEMMINILE DAL VIRUS DELL’OPPRESSIONE CAPITALISTICA?

Riflessioni a margine dello sciopero dell’8 marzo su giovani, donne e crisi pandemica.

Se sei una donna, giovane e magari anche immigrata di prima o seconda o terza generazione e sei nata nel nostro Paese o, ancor di più, nel Sud Italia o nelle periferie delle città metropolitane sei oggettivamente svantaggiata e in condizione di inferiorità dal punto di vista sociale, politico ed educativo: questo è il quadro che emerge da tutte le ricerche statistiche pre-Covid e che viene aggravato notevolmente nel contesto pandemico. La condizione femminile è ancora oggi (e anche in un paese occidentale a capitalismo cosiddetto avanzato) strettamente correlata al contesto geografico, sociale e culturale di provenienza e, di conseguenza, si può quindi in primo luogo affermare che non tutte le donne sono uguali e la crisi pandemica renderà più acute le disuguaglianze strutturali, andando ancora una volta ad alimentare la competitività anche all’interno dei generi al fine di selezionare le donne “smart” e carismatiche, possibili leader nella ristrutturazione capitalistica in atto.                                                              

L’esplosione negli ultimi anni dei movimenti femministi e anti-sessisti nel nostro Paese così come a livello internazionale ha (finalmente) rimesso nel dibattito pubblico la questione femminile. Tuttavia riteniamo che per comprendere fino in fondo le disparità di genere e l’utilizzo che il Capitale fa delle strutture patriarcali occorra superare la retorica interclassista propinata dall’intero apparato mediatico e politico (atta a sussumere le proteste e gli scioperi delle donne) e leggere la realtà a partire dalla crisi pandemica in atto e dalle conseguenti modificazioni del nostro modello di sviluppo e della produzione.

La pandemia da Covid-19 continua tragicamente a mietere vittime colpendo con maggior forza nel mondo capitalistico occidentale, dove la vendetta delle classi dirigenti si è concentrata per più di un trentennio nella distruzione dei sistemi di welfare state e dei diritti sociali conquistati dal movimento di classe. E’ in questo contesto, infatti, che la crisi strutturale del nostro modello di sviluppo e produzione si palesa ed esprime le sue contraddizioni con maggiore chiarezza proprio nell’acuirsi della crisi sanitaria, dimostrando di essere veicolo di regressione economica, politica e culturale piuttosto che “il migliore dei mondi possibili” come vuole la narrazione dominante. Il peso della crisi ricade necessariamente, oggi più di ieri, sui settori sociali già vittime dello sviluppo diseguale e avrà ripercussioni drammatiche in particolare sulle giovani generazioni, sulle donne e sui migranti, cioè quelle categorie che tutti i dati statistici evidenziano come le più danneggiate dalla strategia occidentale della ‘convivenza con il virus’ e a causa di una condizione di precarietà esistenziale e lavorativa preesistente.

Il dato più lampante e più citato riguarda le conseguenze della pandemia in termini di occupazione lavorativa: dei 101mila occupati in meno registrati in numero assoluto a dicembre 2020, 99mila sono donne e anche su base annua, su 4 posti di lavoro persi nell’ultimo anno 3 erano ricoperti da donne. Se infatti il blocco dei licenziamenti e l’utilizzo della cassa integrazione hanno salvaguardato, finora, il lavoro regolare a tempo indeterminato, ad essere colpite sono state tutte le altre tipologie di contratto e i lavoratori a nero: le donne e i giovani che da tempo firmano contratti precari o sopravvivono con i cosiddetti “lavoretti” si ritrovano oggi senza alcuna prospettiva futura e pagano caro il prezzo della flessibilizzazione del mercato del lavoro imposta dalla svolta neoliberista.

I tagli ai servizi pubblici, l’impoverimento generalizzato, la precarizzazione e la mancanza di lavoro possono essere considerate tra le cause anche del progressivo calo generale delle gravidanze registrato negli ultimi anni, con una percentuale crescente di mamme sopra i 40 anni: si può quindi dedurre che nella maggior parte dei casi le ragazze non possono scegliere liberamente di avere figli e “metter su famiglia” a causa dell’incertezza esistenziale e lavorativa. Questa tendenza sembra essere accentuata dalla crisi pandemica: secondo le analisi dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo su un campione di persone tra i 18 e i 34 anni comparati tra Italia, Germania, Spagna, Francia e Regno Unito, quasi 2 giovani italiani su 3 hanno accantonato i propri progetti di vita come andare a convivere, sposarsi ed avere figli. Tuttavia, anche la tendenza generale presenta importanti differenziazioni interne: rimane alta infatti la percentuale di giovani mamme nel sud Italia e nelle periferie delle grandi metropoli, dove di fronte all’assenza totale di servizi e alla disoccupazione di massa spesso diventare madri è un destino più che una scelta.

La situazione è tragica anche dal punto di vista del rapporto tra la carriera universitaria e l’accesso al mondo del lavoro, dal quale emergono le disuguaglianze di genere ma anche territoriali, a riconferma che il mondo della formazione, costruito sulla base delle esigenze produttive dei privati e delle necessità del nascente polo imperialista europeo, non solo pone barriere all’ingresso ma riproduce e amplifica le disparità interne alla società. Infatti, secondo l’ultimo Report Istat sui livelli di istruzione durante il 2019 l’Italia conta un numero maggiore di donne laureate (22,4%) rispetto agli uomini (16,8%) e una quota di donne con un diploma di circa cinque punti percentuali superiore a quella degli uomini. Da questi dati sembrano indicare come l’istruzione venga percepito come il principale fattore protettivo per le giovani ragazze rispetto all’ingresso nel mondo del lavoro, una percezione che le spinga a studiare più dei coetanei uomini. Significativo in questo senso è anche il fatto che sia maggiore tra le donne, la percentuale di chi ha usufruito di borse di studio: il 24% contro il 20% dei maschi (secondo il rapporto Almalaurea del 2017 sul Profilo dei Diplomati). Tuttavia il tasso di occupazione femminile è solo del 56,1% contro il 76,8% degli uomini: questo divario, superiore di gran lunga alla media europea, si riduce all’aumentare del livello di istruzione senza mai scomparire del tutto, a riprova non solo della disparità di genere nell’accesso al lavoro ma anche delle disuguaglianze interne alla componente giovanile e femminile della nostra società. Non a caso, infatti, la situazione si fa più critica se restringiamo il campo di analisi alla differenza tra le neolaureate con o senza figli: secondo i dati di Almalaurea riferiti al 2017, il tasso di occupazione delle laureate senza prole è pari all’80%, con un differenziale di 19 punti percentuali rispetto alle donne con figli e il divario rimane ampio anche in termine di qualità contrattuale e di retribuzione. I dati raccolti da Almalaurea sul 2020 certificano infine la diminuzione del tasso di occupazione tra i neolaureati rispetto alle cifre del 2019 come effetto della crisi pandemica e rispettivamente del -9% per i laureati di primo livello e -1,6% per i laureati di secondo livello, con differenziali di genere e territoriali molto accentuati. Sempre a un anno dal conseguimento del titolo di studio, le retribuzioni mensili nette risultano in diminuzione sia per gli uomini sia per le donne, sia al Nord sia al Sud, con donne e Sud comunque più svantaggiati: gli uomini mostrano rispetto alle loro colleghe un +19,1% per il primo livello e +18,3% per il secondo livello, mentre tra gli occupati del Nord, rispetto a quelli del Sud, si rileva un +17,9% per il primo livello e +23,1% per il secondo livello.

La pandemia continua ad avere ripercussioni drammatiche anche dal punto di vista psicologico e culturale: la crisi sistemica, che attraversa il capitalismo occidentale sin da metà degli anni ’70, si manifesta in ogni ambito della vita sociale e, grazie alle accelerazioni prodotte dalla pandemia, assume le forme di una crisi di valori senza precedenti, dell’acuirsi dell’imbarbarimento diffuso e delle strutture sociali di dominio, della crisi di prospettive che investe in particolar modo le categorie più danneggiate dal punto di vista economico. I dati disponibili confermano anche in questo caso che le conseguenze della crisi pandemica non si riversano in maniera uguale nella società ma anzi ‘i sintomi depressivi mostrano punteggi più alti nuovamente nelle donne, nei giovani, nelle persone che incontrano incertezze professionali e negli individui con status economico meno agiato’. Inoltre, le lunghe permanenze in casa dovute all’emergenza sanitaria hanno aumentato esponenzialmente i casi di violenza domestica, specialmente nei confronti delle molte donne che hanno perso le entrate proveniente dai lavori informali e sono risultate maggiormente esposte perché economicamente più dipendenti dai loro compagni. Secondo i dati raccolti dall’Istat, infatti, il numero delle chiamate al 1522 nel periodo compreso tra marzo e ottobre 2020 è notevolmente cresciuto rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+71,7%) e la crescita delle richieste di aiuto tramite chat è triplicata.

Abbiamo voluto evidenziare alcuni dati esemplificativi perché riteniamo che per comprendere la complessità della ‘questione femminile’ occorra inserire questa all’interno delle dinamiche di sviluppo (e sottosviluppo) del modo di produzione capitalistico occidentale. Non dobbiamo ricadere in analisi meccanicistiche o semplificazioni economiciste, ma è chiaro che la condizione e il ruolo delle donne sono subordinate innanzitutto alle relazioni sociali determinate nella produzione e riproduzione della vita umana in ogni suo aspetto e al contesto sociale ed economico in cui viviamo. Sappiamo bene che il ruolo della donna all’interno del processo storico e dei contesti produttivi, sociali ed economici del paese è mutato nel tempo, dovendosi adattare a diverse fasi economiche e politiche. Perciò in questo momento, in cui siamo di fronte a una profonda crisi sistemica del modo di produzione capitalista, ci chiediamo: quale sarà il ruolo che la ristrutturazione del capitale proverà ad assegnare alle giovani donne?

Non abbiamo la sfera di cristallo ma possiamo iniziare a tracciare alcune tendenze.

La prima riguarda il peso decisivo che stanno assumendo le competenze digitali e tecnologiche nella competizione internazionale e il conseguente interesse per ridurre le differenze di genere proprio in questi settori. Lo vediamo ad esempio nei vari progetti, seminari e corsi di formazione che si sono tenuti al Politecnico di Milano, per promuovere le materie tecnico-scientifiche e diffondere la cultura digitale, incentivando lo studio STEM fra le ragazze, (dato che una bassissima percentuale di giovani donne nel nostro paese frequenta facoltà scientifiche, tecnologiche, d’ingegneria o matematica, precisamente il 18%) a partire da progetti interattivi per bambini fino ad arrivare al progetto “inspiringirls”, che ha l’obiettivo di creare nelle ragazze consapevolezza del proprio “talento”, fornendogli dei modelli a cui ispirarsi. Un interesse che possiamo verificare anche dalle parole della rettrice della Sapienza, che ha esposto la sua opinione sull’importanza di indirizzare le ragazze sin dalle scuole medie alle lauree STEM e dunque in quelle materie che “faranno la differenza nel progresso e nell’innovazione economica del futuro” come ha sottolineato, non a caso, Mario Draghi.

Se poi guardiamo alle tendenze inerenti al mondo del lavoro, la parole d’ordine predominante è auto-imprenditorialità declinata al femminile. Un esempio lampante è il fondo da 500.000€ lanciato da Amazon a sostegno dell’imprenditoria femminile, più nello specifico di tutte le donne che vogliono creare la propria azienda di consegne; ma non solo. O pensiamo anche alla retorica sottostante le piattaforme online di Network Marketing per la promozione di prodotti cosmetici, nelle quali il 76% sono donne di cui al 94% tra il 25 e i 50 anni, la maggior parte con la sola licenza superiore e che vengono vendute come possibilità di emancipazione economica ma che in realtà scaricano sull’individuo il rischio di impresa.

La retorica borghese delle pari opportunità propinata tramite proclami di ministri, accademici, intellettuali e personaggi dello spettacolo si scontra duramente con quella che invece è la realtà dei fatti, che parla di una crisi economica che sta colpendo più duramente proprio le donne e i giovani, una realtà in cui il sessismo e il ricatto economico è più pesante proprio in quei settori, come la ristorazione e il turismo, che sono tra i più precari: basti pensare alla quantità di annunci che si basano sulla “bella presenza”. La condizione oggettiva delle ragazze cozza quindi profondamente con la retorica sull’empowerment femminile portato avanti dalle classi dominanti, che nelle forme proposte non ha a che fare con un processo reale di emancipazione ma che si concretizza con una polarizzazione tra determinate donne con caratteristiche utili alla ristrutturazione del modo di produzione capitalista (utili per difendere determinati interessi) e una fetta enorme di giovani donne che vedrà un netto peggioramento delle proprie condizioni materiali e di possibilità di costruirsi un futuro.

Dentro questo sistema non può esistere l’equazione tra la posizione di potere da parte di una donna e la lotta contro lo sfruttamento delle donne: non riconoscerlo e assecondare la retorica interclassista dominante significa fare gli interessi degli sfruttatori e voler pacificare il potenziale rivoluzionario delle lotte delle donne. L’alternativa deve essere di sistema, cioè la costruzione di un altro modello di sviluppo basato su un’uguaglianza sostanziale, un’inversione di rotta sui temi del lavoro e del modello di formazione e ricerca, smontando pezzo per pezzo la narrazione dominante: il tema dell’alternativa sociale diventa oggi una necessità urgente per noi giovani generazioni su cui pesa come un macigno la crisi economica, culturale e di prospettive. Un crisi che ha prodotto un imbarbarimento sociale senza precedenti e che moltiplica pericolosamente la violenza all’interno dei rapporti sociali.

Come comuniste rifiutiamo il modello di finta emancipazione borghese che si basa sulla polarizzazione, sulla competizione e sull’uscita individuale dalla crisi così come rifiutiamo anche il tentativo da parte della sinistra compatibilista di depotenziare gli scioperi e le battaglie femminili con una visione interclassista e che relega la donna al ruolo di vittima. Non siamo né vittime inoffensive né vogliamo essere costrette a competere tra di noi per salvarci.  Per questo crediamo nella costruzione dell’organizzazione come elemento concreto di emancipazione e di lotta contro lo sfruttamento.