AMBIENTE E CAPITALISMO: LA CONVIVENZA IMPOSSIBILE

Pubblichiamo l’opuscolo “Ambiente e capitalismo: la convivenza impossibile” che abbiamo curato insieme ai compagni di Contropiano.

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L’infarto ecologico del Pianeta è ormai da qualche decennio sotto gli occhi di tutti. La conoscenza di questo fenomeno risale almeno al Rapporto sui limiti dello sviluppo, pubblicato dal Club di Roma nel 1972. Da allora le previsioni scientifiche si sono fatte sempre più precise, attendibili, verificate nella realtà. Con margini di incertezza sempre più sottili e un negazionismo sempre più radicale.

Come testimoniano decenni di accordi internazionali caduti nel vuoto ed un susseguirsi di vertici puntualmente conclusisi con un nulla di fatto (come gli ultimi G7 in Cornovaglia, il G20 su Clima, Ambiente ed Energia, la Precop26 e la Cop26), la maggior parte dei governi non fa assolutamente nulla per fermare questa corsa verso il baratro.

Anche la sortita della Commissione Europea, che pensa di proibire l’immatricolazione di nuove auto diesel o benzina a partire dal 2035, è stata immediatamente respinta da quelle case costruttrici che, ancora forti quando si costituiscono in lobby, temono l’avanzata dei colossi dell’high-tech elettrico.

La partita non si riduce nella contrapposizione tra “innovatori dai verdi propositi” e “reazionari attaccati al fossile” come molto spesso la narrativa propria di chi propugna la green economy vuole far intendere.

Andando oltre le intenzioni pubblicizzate e guardando agli interessi materiali che muovono questi gruppi ci si accorge infatti che quello tra green e carbon è un conflitto tutto interno al capitale per la supremazia sul mercato. Le grandi multinazionali che spingono per aprire con la transizione nuove fette di mercato da colonizzare con i loro prodotti e servizi si contrappongono ad altre compagnie che invece basano il loro business sul fossile e che non hanno la volontà o la forza necessaria a farsi largo in questo nuovo scenario.

In ultima analisi, le loro proposte non sono una alternativa all’altra, ma due strade per perseguire lo stesso scopo: il profitto.

Questo è il motivo per cui gli l’interessi dell’ambiente e dell’umanità tutta non solo non sono ciò che guida la loro azione, ma non possono coincidere con gli interessi di questi soggetti.

La verifica più concreta e brutale di cosa vuol dire avere il profitto come obiet- tivo della produzione si è avuto con la pandemia. Il fatto che per nessuna ra- gione al mondo la produzione, circolazione e vendita delle merci potesse esse- re messa in discussione ha reso qualsiasi costo umano “accettabile”. Oggi si parla delle decine di migliaia di morti con la stessa indifferenza con cui si con- tano i capi di bestiame destinati al macello.

La maggior parte dei governi non fa assolutamente nulla per fermare questa corsa verso il baratro, perché bisognerebbe fermare il treno dell’accumulazione capitalistica e provare ad invertire la direzione di marcia senza provocare un crollo generalizzato della possibilità di produrre e mante- nere gli standard di vita fin qui maturati.

Questo è il motivo per cui anche in campo ambientale ed energetico non cre- diamo che la soluzione sia sostituire Mercedes con Tesla o assecondare le poli- tiche ipocrite di ENI. La realtà impone piuttosto un cambiamento del modello produttivo, in primo luogo dei rapporti di proprietà, sottoponendo le imprese private al comando di una politica degli interessi collettivi, riunendo i poteri statuali più forti in una sorta di “governo mondiale” in grado di programmare questo cambio di direzione e pianificando nei dettagli i singoli passi verso un altro modello.

Utopia, certamente, finché si resta all’interno del modo di produzione capitalistico.

Salvare il capitalismo e salvare il pianeta (umanità compresa) sono compiti che si escludono a vicenda.

Ma l’umanità ed in particolare le giovani generazioni non possono certamente accettare questa constatazione terrificante. E trovare una via d’uscita realistica comporta in primo luogo comprendere esattamente la ragione strutturale per cui il capitalismo è il primo modo di produzione nella Storia che non si pone in nessun caso il problema della riproduzione/salvaguardia della Natura e delle sue risorse.

Se non si interrompe questa corsa, peraltro, rischia seriamente di essere anche l’ultima, vista la potenza distruttiva raggiunta dai suoi mezzi di produzione, dalle tecnologie, dalla capacità del sistema di mobilitare risorse.

Che significa “ragione strutturale”? Significa individuare quel rapporto sociale che è alla base del modo in cui il capitale si appropria della Natura. Un rapporto sociale che, al di là della buona o cattiva coscienza dei singoli uomini, motiva, dà forma e forza sistematica all’indifferenza del capitale per tutte le questioni “sistemiche” che non si traducono in ricchezza.

Noi pensiamo di aver individuato con qualche precisione questa “ragione strutturale” nell’analisi teorica che Marx fa del modo in cui il capitale si appropria della terra e delle risorse naturali, nella Sesta Sezione del terzo libro de Il Capitale.

Per chi non ha dimestichezza con il metodo scientifico marxiano, una premessa sembra però indispensabile.

Quel che viene individuato sul piano più astratto – facendo astrazione, come nelle leggi della fisica, dalle “condizioni a contorno” 2 – è una relazione che si stabilisce tra i diversi soggetti della produzione capitalistica. E questa relazione fa da matrice stabile nel tempo, al di là delle diversità anche profonde che si producono nei vari soggetti e nel loro modo di concepire il proprio ruolo.

Una matrice che dunque riproduce quel rapporto sociale e ne fa una caratteristica fondamentale del modo di produzione. In automatico.

Per capirne la portata, bisogna pensare alla matrice dello sfruttamento dei lavoratori. Che Marx individua nel tempo di lavoro non retribuito.

Ovvero: ammesso che la giornata sia di otto ore, in una parte di queste ore si lavora per coprire il salario e una parte (crescente con lo sviluppo delle tecniche produttive) va a costituire il profitto dell’imprenditore. Una sottrazione silenziosa sul piano contrattuale, non certo un “regalo spontaneo” del lavoratore al suo “datore” (che risulta piuttosto un “prenditore”).

Individuare questa matrice “ambientale” – così come per quella dello sfruttamento – non comporta immediatamente anche l’individuazione di un programma o un piano di azione politica. Questo è un compito che si apre davanti a noi nel prossimo periodo, ma che non potrebbe essere impostato correttamente se non avessimo prima ben chiaro il ruolo e il peso di quella matrice strutturale.

Se non sai qual è il problema, non puoi neanche trovare soluzioni efficaci. Al massimo qualche palliativo…

Per questo diciamo chiaramente che quella che viene qui proposta è una sterzata drastica rispetto a come il problema è stato storicamente impostato dai marxisti del ‘900 e, al tempo stesso, anche rispetto alle ben note impostazioni degli ambientalisti che pensano sia possibile “salvare il pianeta” senza toccare, se non incidentalmente, il modo di produzione.

È con queste premesse teoriche e politiche che, come organizzazione giovanile comunista insieme alla redazione del giornale comunista Contropiano.org, vogliamo prendere parola sulla contraddizione capitale natura. Per noi non è soltanto una querelle come tante altre ma è un problema direttamente materiale: il futuro che il modello di produzione capitalistico sta distruggendo è quello delle giovani generazioni; da qui, l’urgenza di analizzare a fondo questa contraddizione, di dare una lettura alternativa a quella del greenwashing o dell’ambientalismo compatibilista e, soprattutto, la necessità di fare di questa riflessione una bussola per le lotte concrete.