VACCINI E MODELLO CUBANO – INTERVISTA A FABRIZIO CHIODO

Abbiamo avuto il piacere di scambiare qualche battuta insieme a Fabrizio Chiodo, giovane scienziato e ricercatore, unico italiano nel team di ricercatori cubani dell’Istituto Finlay dell’Avana che stanno lavorando alla realizzazione del vaccino anti-covid.

Non abbiamo parlato solo di pandemia e vaccini, ma anche di giovani, università e ricerca. Temi centrali per comprendere le ragioni storiche e politiche per cui Cuba è stata capace di gestire efficacemente la pandemia rispondendo ai bisogni reali della popolazione, in un confronto impietoso con la situazione che stiamo invece vivendo in Italia e in tutto l’occidente.

Di fronte al fallimento del nostro modello di sviluppo, Cuba rappresenta un’alternativa forte e credibile, una visione diversa di umanità. Come abbiamo avuto modo di vedere da vicino con la solidarietà internazionalista delle brigate mediche cubane, a cominciare dall’aiuto che hanno portato proprio in Lombardia, simbolo del collasso di quella che da sempre ci raccontavano come eccellenza – brigate che nel nostro piccolo abbiamo voluto ringraziare dedicando loro dei murales a Milano, Torino, Roma e Bologna.

Ringraziamo ancora Fabrizio e rinnoviamo i nostri complimenti per il contributo che il suo lavoro ha portato alla realizzazione del vaccino.

Di seguito riportiamo la trascrizione dell’intervista:

NR: Siamo con Fabrizio Chiodo per parlare del vaccino contro il Covid-19. Fabrizio è un immunologo italiano che lavora nel team cubano che sta realizzando il vaccino. Ci troviamo in un momento in cui la pandemia ha reso evidenti contraddizioni sistemiche. In questo contesto il vaccino rappresenta un’arma per riprendere in sicurezza le attività di lavoro e di studio. Si pongono però una serie di questione rispetto ai modi in cui i vaccini vengono prodotti e distribuiti. Con Fabrizio allora vogliamo parlare di Cuba, che si è velocemente mobilitata per la produzione del vaccino e ci pone davanti il proprio modello, che ha saputo affrontare la pandemia, nella gestione come nella produzione e distribuzione del vaccino, e rappresenta per noi un esempio. Per cominciare, chiediamo intanto a Fabrizio qual è il percorso personale che l’ha portato a Cuba

FC: Innanzitutto voglio dire che è molto importante per me parlare con i giovani, con persone che fanno il vostro tipo di informazione. Io dal 2014 collaboro con l’Istituto di vaccini Finlay di Avana – Finlay era un vecchio scienziato cubano che ha scoperto il vettore della febbre gialla – un istituto che è sempre stato pioniere nel campo di ricerca dei vaccini sintetici e di cui mi sono occupato durante il dottorato. Avendo sempre avuto questa idea “malata” e testarda di una ricerca totalmente pubblica e di un prodotto che possa raggiungere il paziente totalmente attraverso il pubblico, e avendo conosciuto a una conferenza l’attuale direttore dell’Istituto Finlay Vicente Bencomo, ho iniziato una serie di collaborazioni già mentre stavo in Olanda. Con loro abbiamo fatto diversi progetti per ottimizzare una certa classe di vaccini, per esempio quello contro il meningococco, e abbiamo vinto molti progetti erasmus per cui con molti studenti che venivano da l’Avana in laboratori olandesi si è instaurato un rapporto di amicizia e collaborazione. Quando è venuto fuori il Covid-19 sono stato coinvolto nel disegno e nella parte iniziale – quella più critica, la fase 1 – con diversi candidati. Cuba adesso ha quattro candidati in clinical trial, di cui due dell’Istituto Finlay rispetto ai quali ho collaborato dal disegno fino alle attuali pubblicazioni.

NR: Prima di andare nello specifico del vaccino, visto che hai avuto esperienze nell’ambito della ricerca in contesti profondamente diversi, quali sono quello europeo e cubano, che differenze di metodo e di obiettivi hai trovato?

FC: La ricerca accademica in Europa, ma in generale nel mondo, è molto spesso fine a se stessa, a cercare un finanziamento da determinati enti per rispondere a certe logiche di mercato. Che va benissimo, è un gioco che devo fare in quanto ricercatore. A Cuba invece ogni progetto è del popolo e per il popolo, dev’essere ben disegnato fin dall’inizio, bisogna immediatamente capirne gli impatti sulla società: raramente quindi a Cuba esiste la ricerca fine a se stessa. In più, come professore di chimica all’università dell’Avana – per cui ho il piacere di avere molti studenti sia in Olanda, dove faccio il corso, che a Cuba – quello che ho notato è un livello altissimo di cultura di base, ragazzi preparatissimi. L’alto livello di educazione e delle biotecnologie sono proprio quello che Fidel Castro aveva in mente dopo la rivoluzione, lo vediamo ogni giorno anche nelle trasmissioni televisive, a livello proprio di egemonia culturale, come direbbe Gramsci.

NR: Da quello che dici emerge l’importanza del ruolo della ricerca finalizzata al popolo. Nelle nostre università vediamo invece spesso la ricerca nelle mani dei privati, che hanno la possibilità di determinare i piani accademici e dirottare la formazione sulla base degli interessi delle aziende che andranno ad assorbire i nuovi laureati in un mondo di sfruttamento che ha già le sue radici in quello accademico. Rimaniamo ancora un attimo allora sulla ricerca: in Italia l’accesso a questo mondo per un laureato non è facile, e anche una volta dentro, siamo condannati a una condizione di precarietà strutturale. Qual è stata la tua esperienza in questo senso in Italia e che paragone puoi fare con la situazione cubana?

FC: Io sono un meridionale che dopo la laurea è dovuto andare via, tra Spagna e Olanda, per poter continuare a fare ricerca. In Italia si investe pochissimo sulla ricerca in percentuale al PIL, a Cuba si investe dieci volte di più, inoltre è totalmente pubblica. Questo fa una grandissima differenza, soprattutto in questo modello economico per cui Marx si rivolterebbe nella tomba, dove non solo chi è stato formato dallo stato viene sfruttato poi da una compagnia privata, ma dove lo stesso stato deve poi pagare i privati per riavere indietro il prodotto biotecnologico. A Cuba questo ovviamente non succede grazie a un forte finanziamento nella ricerca da parte dello stato. Poi certo a livello di cultura di base e accesso alla cultura ammetto che noi italiani manteniamo comunque un altissimo livello, anche agli occhi dei paesi del nord-Europa. Poi ovviamente l’ingresso nel mondo del lavoro per il ricercatore è veramente straziante, semplicemente perché non ci sono soldi. O meglio, non ci sono soldi investiti in ricerca pubblica, i soldi ci sarebbero.

NR: Un sistema che poi chiaramente crea una competizione anche tra gli stessi laureati

FC: Una competizione insana!

NR: Andando allora nello specifico del vaccino cubano, a che punto è? E ancora, che differenze ci sono tra i quattro candidati cubani, in particolare i due a cui hai lavorato personalmente, e quelli invece delle multinazionali dei paesi a capitalismo avanzato? Sia riguardo la produzione che soprattutto la distribuzione, che in Europa già è cominciata e rispetto alla quale stanno già emergendo profonde contraddizioni.

FC: Inizio da quest’ultimo punto portando dei numeri: sembra che nove persone su dieci su settantadue paesi del mondo riceveranno il vaccino nel 2023 o alla fine del 2022. Partendo da questo punto di vista, raccontiamo allora il resto. Era ben prevedibile che i primi vaccini a disposizione sarebbero stati quelli a materiale genetico, quindi i vaccini mRNA e quelli adenovirali, che introducono nell’uomo l’informazione genetica perché il corpo possa produrre pezzettini di virus contro cui poi sviluppare una risposta immune che protegge dall’infezione. Era ovvio che venivano fuori per primi perché tecnologicamente si tratta solo di dare le informazioni e presentarle nel modo giusto. Di contro, ci sono i vaccini disattivati, attenuati, per cui si prende il virus “bruciato” e lo si inietta, tra cui il vaccino cinese che ha quasi concluso il clinical trial. Tra questi – non se ne parla – ci sono il 30% dei vaccini in clinical trial, al momento 60 nel mondo. Di questi il 30% si chiamano a subunità, per cui, invece di dare l’informazione genetica o prendere tutto il virus attenuato, si preparano in laboratorio pezzi di virus che poi si somministrano con degli adiuvanti: sono i vaccini a subunità. Questi da sempre hanno costi bassi, stabilità a temperatura ambiente, produzione altamente scalabile – se ne possono produrre cioè tante dosi – e hanno inoltre un’altissima sicurezza. Di questi il 20% sono i quattro disegnati e sviluppati a Cuba. I due più avanti sono quelli a cui stiamo lavorando all’Istituto Finlay, che si chiamano Soberana 1 e Soberana 2. Soberana vuol dire sovrana, in spagnolo vaccino è femminile per cui l’aggettivo è sovrana, com’è Cuba. Il Soberana 1 è in un clinical trial combinato 1-2, mentre il Soberana 2 sta iniziando ora la fase 2. Queste sono le fasi più importanti, in cui si misurano gli anticorpi, la sicurezza, l’effettiva capacità di neutralizzare il virus. Nella fase 3, invece, si descrive semplicemente l’efficacia e per questi due candidati dovrebbe finire verso marzo. La cosa interessante è che delle ricette complesse che compongono questi due vaccini abbiamo cambiato soltanto un ingrediente, cioè un pezzettino della proteina del virus utilizzando formulazioni e piattaforme che Cuba da 15\20 anni usa anche e soprattutto in pediatria. Questo fa intuire che con grande probabilità questi vaccini avranno una sicurezza elevatissima, costi bassi e se in futuro gli epidemiologi ci diranno che anche i bambini dovranno essere vaccinati probabilmente si utilizzeranno questi.

NR: Emerge sicuramente un altissimo livello di ricerca, tra livello di sicurezza e bassi costi di produzione. Questo ci dà sicuramente, anche al di là del vaccino, un esempio molto forte di un diverso modello che fin dall’inizio abbiamo evidenziato come modello più efficace, volto alla tutela delle persone. Parlando di questo, come pensi abbia influito questo modello nella gestione della pandemia?

FC: Le varie componenti – sanità pubblica di altissimo livello, con il più alto numero di medici per paziente al mondo, mondo accademico a disposizione di quello medico e alta tecnologia subordinata al mondo clinico e medico, così come medici che conoscevano il Dengue, che è stagionale a Cuba, o venivano dall’esperienza dell’ebola – hanno fatto sì che il 93% dei malati Covid escono dalla malattia, curati con l’interferone e anticorpi monoclonali, con peptidi immunomodulatori, tutti prodotti a Cuba dallo stato nonostante l’embargo. Il mondo medico e quello biotecnologico, così come una grande divulgazione scientifica in televisione, hanno quindi fatto sì che su 11 milioni e mezzo di abitanti Cuba abbia avuto solo 140 morti circa dall’inizio della pandemia.

NR: Questi numeri parlano sicuramente in modo molto chiaro. Hai centrato i fondamenti di un modello diverso di sanità pubblica, di ricerca, di biotecnologia a disposizione del mondo accademico e medico, di informazione, tutti aspetti che descrivono l’efficacia di un sistema orientato agli interessi del popolo, alla tutela delle persone in tutti gli aspetti della loro vita – diversamente da quello che abbiamo visto qui da noi nei luoghi di lavoro, come nelle scuole e nei trasporti, in un modello incentrato invece sulla ricerca del profitto.
C’è qualche aspetto che non abbiamo toccato e che vuoi invece aggiungere?

NR: Aggiungo che, come giustamente fate voi, la critica va fatta al modello economico. Io posso odiare Pfizer per tutta una serie di motivi, a cominciare dalle pressioni al WTO, però in questo caso non posso mettere in dubbio l’efficacia dei loro vaccini ed è chiaro che quello fa Pfizer lo fa perché il modello economico glielo permette, per cui dobbiamo imparare a rinominare il capitalismo, vederne i limiti e riconoscere che esiste un modello biofarmaceutico a modello socialista. Di questo Cuba è un esempio, e lo è nonostante l’embargo, un atto criminale: tutto ciò che contiene più del 10% di prodotto americano non può entrare a Cuba. Pensate solo cosa significa rispetto alle apparecchiature degli ospedali o quelle per fare ricerca. È un atto di terrorismo brutale. Eppure già Fidel Castro sapeva benissimo che il concetto stesso di vaccino era l’arma che allontanava i paesi poveri dal Big Pharma. Rispetto ai no vax allora è ovvio che le persone criticano il sistema e hanno paura, ma non va criticato il vaccino per sé, perché è il prodotto biofarmaceutico più sicuro che ci sia mai stato. Quello che va criticato è il modello economico.
E poi ho sbirciato un po’ e anche se rimango sempre uno scienziato devo dire che fate un ottimo lavoro.