Furto di cervelli: oltre la retorica una dura realtà
Negli ultimi anni la questione dell’emigrazione, sia interna che verso l’estero, è ritornata ad essere centrale nel nostro paese, arrivando a raggiungere livelli simili a quelli del secondo dopoguerra.
Il fenomeno migratorio odierno però presenta analogie e differenze rispetto a quello che hanno vissuto le generazioni dei nostri genitori e dei nostri nonni e pertanto, per essere compreso, va inquadrato all’interno della situazione attuale, facendo particolare riferimento a quelle che sono le politiche e le scelte strategiche dell’Unione Europea.
Negli ultimi dieci anni infatti il numero degli iscritti all’AIRE, Anagrafe Italiani Residenti all’Estero, è aumentato di più del 50%, arrivando a raggiungere nel 2016 la cifra di 4.811.163, pari al 7,9% della popolazione totale di allora. Questa cifra può fornire a grandi linee un’immagine del numero di Italiani residenti all’estero, però bisogna sempre tenere a mente che non tutti coloro che lasciano il paese si iscrivono all’Aire.
Se tra il 1997 e il 2010 in media lasciavano l’Italia 42 mila persone l’anno e rimpatriavano in 35 mila, in seguito agli effetti della crisi l’emigrazione ha ricominciato ad aumentare vertiginosamente arrivando dagli 82 mila espatriati del 2011 ai 147 mila del 2015. Dal 2015 in poi le cancellazioni dall’anagrafe sono state sempre più di 100 mila all’anno tanto che nel 2017 ammontavano a 155 mila con una diminuzione del 1,2% rispetto al 2016. Per dare un’idea del fenomeno, anche in relazione alle cifre relative all’immigrazione, il saldo migratorio nel 2015 era in positivo di circa 100.000 unità il che non bastava a coprire il calo demografico che ammontava a 162.000 unità, ciò nonostante la fantomatica invasione di immigrati tanto sbandierata dalle destre nostrane.[3]
La maggior parte di coloro che emigrano sono uomini, il 55%, giovani, infatti il 49,5% ha tra i 15 e i 39 anni, ed ha qualche tipo di qualifica, il 50% ha una laurea o un diploma (in particolare nel 2014 il 32% aveva ricevuto un’istruzione terziaria). L’età media per i maschi è di 33 anni e per le donne di 30.
Le mete maggiormente gettonate, secondo i dati del 2017, sono i paesi del centro dell’Europa, come il Regno Unito con 21 mila Italiani – dove i nostri connazionali sono la terza più grande comunità di stranieri residenti nel paese -, la Germania con 19 mila, la Francia con 12 mila, e la Svizzera con 10 mila, mentre tra le mete extraeuropee le più importanti sono Brasile, USA, Canada, Australia e Emirati Arabi Uniti.
Avendo presente questi dati, a cui andrebbero aggiunti anche quelli della mobilità interna dal Sud Italia al Nord Italia che nel 2017 ha visto 1.335.000 trasferimenti, appare evidente come in seguito alla crisi economica un numero sempre crescente di giovani abbiano deciso di lasciare la propria città o il loro paese alla ricerca di maggiori possibilità e di un futuro dignitoso.
L’esodo dei giovani italiani è del tutto analogo a quello che vivono i loro coetanei degli altri paesi della periferia sud dell’Unione Europea, i così detti PIGS, che, a causa della mancanza di prospettive imposta loro dalle politiche di austerità con cui l’UE in prima battuta ha reagito alla crisi, si riversano in massa nei paesi del core produttivo dell’Europa, come Francia e Germania.
Queste politiche infatti non hanno fatto altro che accelerare il sistema di accentramento della capacità produttiva – sia in termini di capitali che di forza lavoro – verso il centro produttivo, che deve in tutti i modi essere il più competitivo possibile nelle dinamiche dello scontro con gli altri blocchi economici, a discapito dei paesi periferici a cui è stato imposto un lento e straziante declino.
Ciò è ancora più rimarcato dal fatto che buona parte di coloro che sono costretti a lasciare il proprio paese sono altamente qualificati, essendo ormai stati relegati ai paesi periferici solo ed esclusivamente i settori produttivi a basso livello tecnologico, lasciando di fatto al centro tutto il capitale umano e le risorse per mandare avanti i settori dell’alta tecnologia e della ricerca e sviluppo, fondamentali affinché l’Unione Europea rimanga competitiva sui mercati internazionali odierni.
Di questa tendenza
ci rendiamo conto ogni giorno nei luoghi della formazione che frequentiamo,
dalle scuole secondarie, che ormai, in seguito all’introduzione dell’alternanza
scuola lavoro (ora denominata “Percorsi per le competenze trasversali e per
l’orientamento”), sono diventate un bacino di manodopera non qualificata a
costo zero per le imprese, alle università, dove i continui tagli al FFO e alla
ricerca hanno comportato una sempre più importante presenza di finanziatori
privati che indirizzano i corsi di studio secondo le proprie esigenze e godono
dei risultati della ricerca che esce dei laboratori delle facoltà. Risulta inoltre evidente come questi tagli e
queste politiche di lacrime e sangue non siano affatto uguali per tutti, ma
vadano anzi in una direzione ben definita all’interno dei criteri utilizzati
per la valutazione della didattica e della ricerca. Tra questi criteri infatti,
utilizzati tanto dall’ANVUR, l’ente di valutazione del “merito” delle
università, quanto dai singoli atenei in un contesto di auto-disciplinamento
degli stessi, alcuni sono di particolare rilevanza per comprendere come lo
spostamento di risorse dalla componente “ordinaria” a quella “premiale” (che a
regime dovrebbe raggiungere il 30% del totale) si sia svolto secondo
linee-guida estremamente precise. Innanzitutto, tra i criteri relativi alla
didattica spiccano tanto la creazione di corsi “internazionali”- utili alla
formazione di specialisti già pronti per un reimpiego nei paesi “core”- quanto
l’attrattività rispetto ad altri atenei, che mira esplicitamente a creare una
situazione di competizione sfrenata in cui naturalmente ad essere penalizzati
sono quelli più periferici, afflitti dal cambiamento del criterio di spesa
dallo “storico” al “costo standard per studente”, che ovviamente non tiene
conto del tessuto produttivo in difficoltà nel quale alcuni atenei, come quelli
del sud, sono inseriti. . Se invece spostiamo lo sguardo sui fondi relativi
alla ricerca, è evidente come molti di questi siano riferiti alla c.d. “terza
missione” (che non a caso è accorpata alla ricerca stessa come ambito di
valutazione), ovvero alla subalternità delle università alle necessità del
mercato: numero di spin-off prodotti, fatturato conto terzi, numero di brevetti
che vengono premiati dall’allocazione dei fondi, in una spirale di
differenziazione che, ancora una volta, favorisce i pochi centri “d’élite” a
scapito di quelli periferici.
C’è poi un terzo elemento, relativo alla c.d. “sostenibilità finanziaria” degli
atenei, che emerge dall’analisi dei bilanci delle università stesse, ed è
proprio l’aumento delle entrate dovute alla contribuzione studentesca, passate
nel periodo 2000-2014 da circa 1.300 milioni di euro a più di 1.800, pur in un
contesto di riduzione delle immatricolazioni. A questo si aggiunga che, come
riconosciuto dalla stessa ANVUR “tranne alcune eccezioni (…) e solo per gli
ISEE tra i 20.000 e i 50.000 euro circa, cioè per i valori in cui la
contribuzione è “più inclinata” (e più massiccia, aggiungiamo noi), il
rapporto sia sempre decrescente, cioè la tassazione universitaria risulta
essere regressiva”.[4]
Nella tabella riportata sotto ci sono alcuni dati interessanti sul bilancio delle entrate degli atenei nel periodo 2000-2014, in mln di €, che ci fanno capire la differenza di finanziamento tra gli atenei del Sud e quelli del Nord e l’innalzamento esponenziale delle tasse pagate dagli studenti che costringe una grossa fetta dei giovani a rinunciare all’università per i costi troppo alti.
ENTRATE | Totali (2000-2014) | Di cui contr. studentesca (2000-2014) | ||
Nord | 4736,8 | 5578,9 | 617,8 | 925,7 |
Centro | 3253,3 | 3167,2 | 335,8 | 439,7 |
Mezzogiorno | 3923,8 | 3512,4 | 338,3 | 442,3 |
Gli atenei più “meritevoli” sono quelli meglio inseriti all’interno di contesti socioeconomico e tessuti produttivi favorevoli agli investimenti in ricerca e sviluppo.
Sulle diseguaglianze nel finanziamento degli atenei giocherà un ruolo importante anche la futura prospettiva dell’autonomia differenziata di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Infatti, mentre queste regioni si troveranno con maggiori risorse, ricavate da una gestione più diretta degli introiti derivanti dalla tassazione nel proprio territorio, da investire nel campo della creazione di un’istruzione terziaria maggiormente competitiva, le altre si vedranno sottratti ancora ulteriori fondi.
Questo tipo di politiche quindi crea nel nostro paese una formazione universitaria a due velocità, che rispecchia anche la geografia dei settori produttivi, in cui gli atenei del nord, meglio finanziati ed inseriti in un tessuto produttivo dinamico, tendono a diventare centri di formazione d’eccellenza per creare le nuove élite italiane perfettamente integrate negli ingranaggi della macchina europea, mentre quelli del sud, con meno fondi a disposizione e immersi in situazione sociali più svantaggiate, si trasformano ogni giorno di più in parcheggi per futuri disoccupati.
A causa quindi delle difficili prospettive ad un giovane italiano laureato che vorrebbe inserirsi nel mondo della ricerca fanno molta più gola le prospettive di stabilità, opportunità di carriera e di realizzazione personale che gli offrono i paesi del centro produttivo europeo rispetto a quelle che gli propone il suo paese natio, ovvero un futuro di precarietà, sfruttamento e carenza di fondi e risorse, causati proprio da quelle nazioni che lo attraggono con la speranza di un avvenire più roseo. Sorge così il fenomeno, tanto caro alla stampa italiana, della così detta fuga di cervelli, che si rivela però un fenomeno generato da un intero sistema invece che una semplice scelta individuale di un singolo, come ci viene spesso presentato.
L’alta formazione italiana e, più in generale, dei paesi del sud Europa è infatti diventata un bacino di forza lavoro altamente qualificata e a basso prezzo da cui i paesi core europei possono attingere a loro piacimento per mandare avanti le loro economie. Un’ulteriore dimostrazione di questa trasformazione sono, ad esempio, le Marie Curie Actions[5], una forma di finanziamenti alla ricerca elargito dall’UE, che, con la scusa di fornire ai ricercatori l’abilità e l’esperienza internazionale necessarie per avere una carriera di successo, mira invece a mandare i ricercatori all’estero durante la loro formazione e ad inserirli nelle reti di relazioni internazionali dell’economia dei paesi a capitalismo forte dell’Unione Europea.
Le maggiori destinazioni dell’emigrazione qualificata italiana in Europa sono infatti il Regno Unito, con il 44,7%, l’Austria con il 40,6%, la Francia, con il 36%, e la Germania con il 24%.
A differenza dei paesi sopra citati, dove il saldo tra i ricercatori che entrano e quelli che se ne vanno è o positivo o tutt’al più in pari, in Italia perdiamo il 13,2% dei nostri ricercatori, mentre ne riusciamo ad attrarre solo il 3%.
In conclusione, sebbene negli ultimi anni siamo stati bombardati da parte delle destre e delle fonti di informazione a loro vicine con la propaganda di una supposta invasione del nostro paese da parte di migranti africani, tanto preoccupante da poter persino minare la sopravvivenza della cultura italiana, la realtà delle cose è ben diversa. Dopo decenni di blocco dei flussi di emigrazione, il nostro paese è di recente tornato ad essere un paese di emigranti. Le etichette che sono state appiccicate alle generazioni nate e cresciute nel periodo della crisi, come le supposte accuse di essere choosy, fannulloni e poco inclini a trovare un lavoro, servono a deresponsabilizzare le élite dominanti del loro operato andando paradossalmente a far ricadere su di noi la responsabilità della nostra attuale situazione di precarietà, sfruttamento e mancanza di prospettive future. Nonostante tutto, le nostre istituzioni continuano a proporci il miraggio della fantomatica generazione Erasmus, di cui noi faremmo parte, i figli di una nuova Europa pacificata, senza più confini, all’insegna dello scambio libero di idee e di persone, quando invece tutto ciò è solo una misera farsa per farci credere che lasciare il nostro paese a causa delle infami condizioni che ci sono state imposte sia un qualcosa di bello, dinamico e trendy. Noi non sottostiamo a questo ricatto e continueremo a lottare e a denunciare e smascherare le mosse del padrone europeo, a creare un’opposizione organizzata contro chi sembra offrire meravigliose prospettive di un lavoro e una vita migliore altrove ma è anche lo stesso che poi le nega nel nostro paese.
[1] Vedi https://www.ilsole24ore.com/art/in-10-anni-l-italia-ha-perso-250mila-giovani-fuga-all-estero-costa-16-miliardi-AC0kqkp oppure https://www.repubblica.it/cronaca/2019/10/25/news/italiani_nel_mondo_sono_i_piu_giovani_a_scegliere_di_andare_all_estero-239433727/
[2] https://cambiare-rotta.org/2018/10/07/giovani-sud-della-crisi-libro-introduzione-sommario/
3 Per la maggior parte dei dati relativi alla situazione del 2017 si faccia riferimento a questo report dell’ISTAT: https://www.istat.it/it/files/2018/12/Report-Migrazioni-Anno-2017.pdf
[4] Cit rapporto ANVUR 200-2014, pg 350, https://www.anvur.it/wp-content/uploads/2016/07/ANVUR_Rapporto_INTEGRALE_%7E.pdf
[5] Vd http://ec.europa.eu/assets/eac/msca/documents/documentation/msca-factsheet_en.pdf