Marta Fana. “Non è lavoro è sfruttamento”
A che punto è la notte dell’economia italiana? Il primo libro di Marta Fana, Non è lavoro, è sfruttamento (edito da Tempi Nuovi), è un viaggio nel disastro del mercato del lavoro italiano, uscito con le ossa rotte da una crisi che per molti versi ancora non è finita.
Fana è un’economista e ha di recente completato un dottorato all’Università Sciences Po di Parigi. Un suo articolo dell’agosto del 2015 sul Manifesto a commento dei dati sull’occupazione rivelò un clamoroso errore di calcolo (chiamiamolo così) del Ministero del Lavoro guidato da Giuliano Poletti, che aveva gonfiato le cifre dei contratti attivati senza tenere conto delle cessazioni. Da allora si è imposta molta più attenzione sulle cifre sull’occupazione fornite da INPS, ISTAT e Ministero del Lavoro, tant’è che oggi è davvero difficile negare l’effimero effetto del Jobs Act, che è servito a gonfiare le tasche del solito capitalismo straccione italiano, mentre la spinta sui nuovi contratti a tempo “indeterminato” con assai meno tutele si esauriva non appena terminati gli incentivi fiscali.
Fana intanto ha continuato a scrivere per quotidiani e riviste, proponendo oltre a valide analisi quantitative anche un’eccellente cronaca di alcune delle vicende più significative dello scontro fra capitale e lavoro in Italia negli ultimi anni, come l’omicidio padronale dell’operaio della logistica e delegato sindacale USB Abd Elsalam.
In Non è lavoro è sfruttamento, Fana analizza alcune delle evoluzioni più recenti del mercato del lavoro italiano, che hanno contributo se possibile a renderlo ancora più precario e frammentato. In rapida successione, i primi capitoli del libro descrivono così l’invenzione dei famigerati voucher (aboliti ma poi essenzialmente reintrodotti dalla porta posteriore), il lavoro nella cosiddetta “gig economy” (che dietro la patina “smart” cela un mondo di precarietà), l’ipersfruttamento dei lavoratori della logistica e la rilevanza delle loro lotte, ma anche la crescente precarizzazione del lavoro nel settore pubblico e il definitivo sdoganamento del lavoro gratuito, ora istituzionalizzato dall’alternanza scuola-lavoro. Sono tematiche e battaglie che affrontiamo da tempo anche noi, e che abbiamo avuto occasione di dibattere insieme a Fana in iniziative a Bologna e a Torino.
Gli ultimi capitoli del testo vanno oltre la cronaca, offrendo una cornice interpretativa delle “riforme” del mercato del lavoro italiano e del grande inganno della retorica della flessibilità, che non aumenta l’occupazione ma semmai produce precarietà e lavoro povero, ridefinendo i rapporti di forza a favore delle imprese.
La flessibilità, scrive Fana, è di destra, e chissà che ne pensano quelli che vorrebbero allearsi con i reduci dell’esperienza del centro-sinistra, lo stesso centro sinistra che con l’approvazione del pacchetto Treu nel 1997 ha iniziato una lunga tradizione di cambiamenti legislativi culminata con l’abolizione dell’articolo 18 ad opera di Fornero e Poletti.
Nelle conclusioni, Fana propone una serie di misure da prendere nel contingente per cominciare a reagire allo stato di cose presenti: abolire le “riforme” del mercato del lavoro (dal Pacchetto Treu al Jobs Act), ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, invertire il processo di privatizzazione in settori essenziali come sanità, trasporti e acqua, aumentare l’impiego tramite un piano del lavoro, tassare i grandi patrimoni.
Al di là di tutte queste proposte condivisibili, manca però nelle conclusioni un qualsiasi riferimento al piano sovranazionale ed in particolare europeo, se si esclude un riferimento all’introduzione di “dazi sociali nei confronti di quei paesi che non rispettano gli standard minimi di dignità del lavoro”. Eppure nei precedenti capitoli, Fana rileva correttamente il processo di mezzogiornificazione europeo, dove l’economia italiana insieme a quella degli altri paesi mediterranei assume una posizione sempre più bassa nella catena del valore europeo.
Analizzando le riforme del mercato del lavoro, Fana nota anche che su di esse si aggira lo “spettro dell’Unione Europea, dei suoi capisaldi: la lotta contro l’inflazione, la competizione interna, la disoccupazione come variabile dipendente, il mercantilismo e più moderne forme di imperialismo che dal centro aggrediscono i paesi dell’Europa del Sud (…)”. La nuova governance economica europea – con il fiscal compact, il six pack e il semestre europeo – ha aumentato il grado di interferenza degli attori europei nelle politiche nazionali (anche quelle cui i trattati europei attribuiscono competenza statale e non europea). Questa governance rende una serie di provvedimenti come quelli proposti nelle conclusioni sostanzialmente irrealizzabili. Se si vuole affrontare, anche nel contingente, la questione del lavoro, non si può dunque non porsi la questione europea. Ciò nonostante, il testo di Fana rimane un ottimo punto di partenza per rimettere al centro del dibattito il conflitto, mai sopito, fra capitale e lavoro.