Le retoriche dell’economia della conoscenza
[Settimo contributo di Terroni d’Europa, clicka qui per la pubblicazione completa]
È importante partire da una contestualizzazione storica dei fenomeni di cui stiamo parlando, che sono stati chiamati nel corso degli ultimi decenni post-fordismo, New Economy, rivoluzione digitale, economia digitale, economia della conoscenza, e ora platform capitalism o industria 4.0. Tutte queste definizioni sono anche delle retoriche, quindi sono costruzioni ideologiche che producono effetti politici.
All’origine fu la cosiddetta conoscenza. Dalla fine degli anni ’70, con la fine della fase fordista, vengono formulate teorie di lettura del capitalismo secondo cui nelle società contemporanee il valore economico non è più prodotto da merci materiali in quanto tali, ma è determinato dalla quantità di informazioni, comunicazione, conoscenza, dati e idee incorporati nelle merci. L’economia starebbe diventando economia della conoscenza, la vera competizione si farebbe su risorse immateriali, e quello che conta non è la quantità di lavoro che c’è in una merce (il tempo di lavoro), ma la quantità di idee e di simboli che la merce contiene.
Questo passaggio all’economia cognitiva, al capitalismo cognitivo, o alla società dell’informazione implicherebbe, secondo queste retoriche, una serie di trasformazioni. Il lavoro diventerebbe più leggero fisicamente e meno ripetitivo, e i lavoratori diventerebbero più autonomi, indipendenti, creativi, coinvolti nel lavoro e nei processi decisionali. Una delle fondamentali leve di critica al lavoro nelle società capitalistiche, l’alienazione, sarebbe quindi superata. Il lavoro non sarebbe più fatto sotto comando diretto di qualcuno che controlla i tempi, la performance, la produttività, ma diventerebbe per tutti i lavoratori (da quelli manuali a quelli intellettuali agli impiegati) una specie di ondata di creatività. La distanza tra lavoratore e prodotto, nelle nuove forme di produzione, si ridurrebbe. Nella critica marxiana al lavoro questo è uno dei temi fondamentali: la distanza tra lavoratore e prodotto, il fatto che il prodotto non ti appartenga. Queste retoriche invece dicono che se tu nel prodotto metti non un movimento ripetitivo, ma uno sforzo teso alla concezione e realizzazione del prodotto, la distanza tra te e il prodotto si riduce. In un certo senso il prodotto non ti è più completamente separato. Anche teorici della sinistra alternativa hanno preso in parte per buone queste retoriche.
La seconda retorica che queste teorizzazioni producono è che non solo si riduce la distanza tra lavoratore e prodotto, ma anche quella tra mezzi di produzione e lavoratore. Se i mezzi di produzione fondamentali per la società non sono più quel tipo di mezzi di produzione ai quali il lavoratore non può accedere come proprietario, ma diventano il cervello e il computer, allora il lavoratore diventa sostanzialmente proprietario dei propri mezzi di produzione. Non ci sarebbero più lavoratori subordinati che devono sottostare a una serie di comandi e a un’organizzazione aziendale verticale, ma persone almeno parzialmente proprietarie sia del prodotto che dei mezzi per produrlo. In sostanza: la divisione in classi della società sarebbe superata.
Terza retorica: in questa trasformazione vincono tutti. Gli economisti lo chiamano meccanismo win-win, in cui vincono sia gli imprenditori, perché possono fare profitti impiegando molto meno capitale fisso e velocizzando il meccanismo di produzione, sia i lavoratori, per i motivi sopra esposti. Le tradizionali strutture di distribuzione del potere e delle risorse e le gerarchie nella produzione e nel luogo di lavoro si appiattirebbero. Nel capitalismo degli ultimi 20-30 anni la gerarchia passerebbe dall’essere verticale a orizzontale. Ai lavoratori manuali sarebbe richiesto non solo di far funzionare i macchinari, ma di usare il cervello, coordinare il rapporto tra macchine e processo produttivo, fornire idee organizzative.
In questo modo le vecchie critiche alla società del salario e ai processi produttivi, che insistevano sulla distribuzione del potere e delle risorse all’interno del luogo di lavoro, sono presentate come inattuali. Soprattutto negli anni ‘80-’90, molti teorici americani hanno teorizzato che la società divisa in classi fosse finita, ed esistesse soltanto una grande classe in cui ognuno può arrivare ai vertici della gerarchia sociale se ha buona volontà e buone idee. Non c’è nella società e nella produzione una gerarchia oggettiva e rigida tra i gruppi sociali, né dei vincoli oggettivi al fatto che ognuno possa crescere, emanciparsi, migliorare. Le cause del mancato successo sono individuali: la pigrizia, l’incapacità personale, la mancanza di creatività e di idee. Nasce la mitologia aristocratica del talento, dell’essere creativi, i «migliori», i «più meritevoli». Chi non fa parte di queste categorie, chi non mostra talento a capacità di produrre idee produttive e applicabili con profitto, è giusto che resti ai margini della gerarchia sociale.
Di conseguenza, il sindacato e l’organizzazione collettiva dei lavoratori perdono la loro funzione. Se il lavoratore è partecipe della vita aziendale, fornisce idee e ha la possibilità di ascendere così facilmente la scala sociale, si può difendere da solo e può rivendicare personalmente spazio, salario e diritti. Politicamente, in Italia, questa è in questo momento la posizione del Movimento 5 Stelle, che sempre di più dimostra di essere un’applicazione al campo politico delle ideologie del management industriale del capitalismo digitale.
In questo modo di rappresentare i cambiamenti del lavoro è centrale la retorica della partecipazione, secondo la quale i lavoratori sono organizzati in squadre autonome, capaci di autogestirsi. La partecipazione come assetto produttivo e come risorsa si riversa poi nella sfera del consumatore, che diventa «sovrano» e viene coinvolto nel processo partecipativo. Non ci sono, secondo questa ideologia, più barriere tra vertice e base dell’azienda, ma nemmeno più tra Zuckerberg e un qualsiasi utilizzatore di Facebook. La relazione tra proprietario e consumatore non è più rigida, perché c’è uno scambio e un flusso continuo tra di loro.
È un meccanismo che in realtà esclude le organizzazioni dei lavoratori dalle decisioni fondamentali, che vengono prese in luoghi imperscrutabili, e soprattutto non prevede nessuna forma di conflittualità, che deve essere non tanto contrastata, quanto preventivamente evitata, attraverso una serie di meccanismi.
Populismo e metafisica dell’impresa
Queste retoriche arrivano come punto finale al populismo di impresa. Secondo la mia opinione, il populismo contemporaneo nasce nella sfera del privato, e in particolare delle imprese private e dei media, invece che in quella del politico. Un libro fondamentale e che è stato importantissimo in questo settore è Wikinomics. La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo, degli americani Tapscott e Williams, che cerca di dimostrare che siamo tutti potenzialmente protagonisti dell’economia contemporanea, e contiene una sorta di appello al popolo: «popolo attivati», tra te e il potere non c’è più alcuna distanza, puoi diventare il nuovo potere, basta che tu lo voglia. Non ci sono più delle vere barriere tra chi comanda e chi non ha risorse. Questo è un tipico appello populista, un vero populismo di impresa. Credo che questo sia un passaggio fondamentale, perché sono processi che non riguardano solo come si lavora, ma anche come si è cittadini, elettori, attivisti, militanti.
Il punto di caduta è proprio l’accentuazione dell’autoimprenditorialità. Non essendoci alternativa — secondo queste retoriche — al fatto che nella società l’attore economico principale sia l’impresa, essendo ormai inattuale la contestazione dell’impresa privata, dei suoi meccanismi interni e del suo ruolo nella società, qualsiasi cosa può essere criticata tranne l’impresa privata. In questo modo si attua una forma di censura estremamente efficace, in cui non può diventare patrimonio pubblico e discorso condiviso il fatto che l’impresa privata possa presentare delle criticità, non solo per la sua esistenza in generale, ma nemmeno, ormai, per alcuni suoi aspetti particolari.
Quindi si crea una metafisica dell’impresa, un appello populista secondo il quale per modificare la tua condizione sociale non è l’impresa che deve essere modificata, ma deve essere l’individuo a modificare se stesso avvicinandosi alla forma di impresa, ovvero considerandosi come un imprenditore o un aspirante imprenditore, oppure facendo tutto ciò che è necessario nell’ottica di una costante auto-valorizzazione, come se l’impresa fosse lui stesso. Non si deve più essere solo imprenditori di sé stessi, ma di più: l’impresa di sé stessi. Valorizzarsi, quotarsi, accrescere il proprio capitale.
Per esempio anche nell’università, che non è un’azienda privata, l’auto-valorizzazione passa attraverso la continua produzione di articoli, puntando a farli pubblicare nelle riviste migliori. Il curriculum diventa una specie di titolo azionario da quotare e da vendere nella Borsa del mercato accademico internazionale.
I processi reali al di là delle retoriche
Tutte queste retoriche sono costruzioni ideologiche che hanno per avversario l’organizzazione collettiva dei lavoratori. Però nascondono meccanismi e processi che sono parzialmente reali e che chi vuole difendere e ricostruire la capacità di organizzazione collettiva del lavoro deve tenere presenti.
È dalla fine degli anni ’70 che il sistema economico internazionale è più o meno stabilmente in crisi, soprattutto nel mondo occidentale. I mercati occidentali erano diventati saturi per il tipo di produzione di massa che si è fatta nei 30 anni successivi alla seconda guerra mondiale. Attualmente, se un’impresa vuole sopravvivere in un ambiente economico sempre più competitivo e sempre più saturo, in cui vendere merci è sempre più difficile, ha bisogno di una dose massiccia di partecipazione, cioè che lavoratori e consumatori non siano semplici agenti esterni e spettatori, ma siano coinvolti attivamente nel mondo interno dell’impresa, che aderiscano a questo mondo, ai suoi valori e alle sue pratiche. Questo processo può essere definito anche come fidelizzazione, cioè stabilire un rapporto più diretto di quanto avveniva nei cicli economici passati.
Alla base c’è una crisi del mercato e di una forma di impresa. La definizione che si sta usando per definire questo nuovo processo è capitalismo delle piattaforme. È oggettivamente vero che le imprese contemporanee non sono più dei mondi chiusi, in cui tutto avviene all’interno, dal punto di vista di progettazione, produzione, ideazione. Sono diventati mondi liquidi, in cui c’è un centro, il cervello dell’azienda, e poi una pluralità di figure di lavoro, i dipendenti, che soprattutto nelle grandi imprese sono sempre di meno, e reti sconfinate di collaboratori occasionali, individuali o collettivi. In Apple le applicazioni vengono fatte da una quantità immensa di ricercatori sparsi per il mondo, su cui quindi ricade il rischio d’impresa. Delle ricerche sui lavoratori proprio di Apple testimoniano come i lavoratori arrivino a lavorare fino anche a 60 ore la settimana con ritmi elevatissimi e distruttivi, guadagnando soltanto una volta che il prodotto è in commercio e a condizione che venda abbastanza.
Di fatto è vero che in queste forme organizzative di cui si parla anche in politica, a forma di rete, l’organizzazione per certi versi è parzialmente «orizzontalizzata», nel senso che l’impresa diventa una linea che parte dal luogo fisico e può arrivare dall’altra parte del mondo. Questa retorica sull’appiattimento delle gerarchie dice qualcosa di vero, non nel senso che ciò avvenga realmente, ma nel senso che indica la necessità di avvicinare il consumatore e di attrarre il lavoro più fantasioso e creativo a livello globale. Siccome non è possibile rendere tutti dipendenti, vengono costruite delle piattaforme: per esempio in IBM accade che vengano lanciati concorsi a livello mondiale per ricercatori specializzati. L’impresa va dunque a cercare non solo consumatori nei 4 angoli del globo, ma anche lavoratori: cerca di accaparrarsi i «talenti», «i migliori», i «top» del settore. Queste reti lunghe che collegano mondo interno e mondo esterno dell’impresa sia sul lato del lavoro che sul lato del consumo, costituiscono un oggettivo allentamento delle barriere tra impresa e società, che però non va nella direzione che indicano le retoriche dominanti, cioè verso una progressiva riappropriazione da parte di lavoratori e consumatori del potere decisionale, ma in quella della capacità crescente dell’impresa di modellare la società.
Ci sono sempre delle dialettiche. Questi non sono processi di puro dominio unilaterale, ma possono sempre provocare delle reazioni e dei conflitti: se certi meccanismi di mercificazione e di centralità dello scambio di denaro investono la vita nella sua complessità, organizzare delle forme di protesta e di reazione a questo può implicare che non sia necessario aver già accumulato una forza sociale spaventosa, ma che sia possibile puntare su una questione simbolica, percepita come centrale, e da lì costruire una mobilitazione amplia.
L’uscita della logica economica dalla stretta dimensione economicistica, che va a investire tutte le dimensioni della vita, fa sì che una mobilitazione che parta da un aspetto locale e specifico possa costituirsi, forse più facilmente che in passato, e poi allargarsi. Molti dei movimenti contemporanei contestano infatti proprio su questa questione, cioè sull’abbattimento delle barriere tra impresa privata (è indifferente che siano le banche, il settore immobiliare, la finanza o altro) e società.
Un altro aspetto reale è ciò che viene sostenuto da teorici e interpreti neoliberisti di questi processi, teorici della competizione sfrenata, dell’assenza di monopolio, dell’assenza totale di intervento statale in economia, quasi sempre statunitensi. Essi invitano le grandi imprese ad essere più trasparenti sulla proprietà intellettuale e a diffonderla, perché l’economia si accresce attraverso la diffusione e la condivisione. Si tratta dell’individuazione di una contraddizione fondamentale tra la centralità della conoscenza e la società della merce, sottolineata sia da parte di liberali sia da parte di teorici della sinistra alternativa, per esempio i post-operaisti (Negri, Fumagalli, e altri). Secondo me quello che è più interessante è Andrè Gorz, che fa un’analisi della possibilità che questi meccanismi conducano ad una società post-capitalistica. Anche se non sono personalmente convinto che di per sé facilitino realmente questo processo, il suo libro l’«Immateriale» di Andrè Gorz sottolinea delle contraddizioni molto interessanti.
La facilità di produrre conoscenza è cosi elevata che la conoscenza non è riducibile alla forma di merce, perché è riproducibile gratuitamente e non è rivale rispetto alla merce, nel senso che l’uso da parte di una persona non lo impedisce ad altri. La conoscenza si accresce proprio attraverso la diffusione. Ciò condurrà al contraccolpo in senso contrario, ovvero le conoscenze strategiche fondamentali saranno blindate in barriere oggettivamente inviolabili. È oggettivamente vero che esista una contraddizione tra la centralità della conoscenza e la forma della merce, proprio per la maggiore facilità di produrre e riprodurre la conoscenza e di imitare le idee. Infatti basta avere delle competenze ed è possibile riprodurle allo stesso modo, difficilmente rischiando l’accusa di plagio, tant’è che i settori più esposti a questo meccanismo (per esempio discografia e cinematografica) sono stati tra i più colpiti dalla crisi, continuano ovviamente a esistere, ma concentrati in poche gigantesche imprese. Ciò accade anche nel campo dei nuovi media: le imprese sono pochissime, perché soltanto immensi conglomerati possono resistere e sopravvivere in un ambiente così difficile.
La conoscenza è di difficile gestione capitalistica, cioè è difficilmente trasformabile in merce; questo vuol dire che bisogna essere, dal punto di vista economico, quasi un apparato militarizzato, nel senso di presidiare il territorio, i consumatori, i lavoratori della proprietà intellettuale, le risorse naturali ecc.. È un processo reale che non sappiamo a cosa porterà, per ora sta portando a questa contraddizione, la cui retorica è: fatevi tutti imprenditori, fate la vostra start-up.
I dati però ci dicono che solo il 5% delle start-up sopravvive, e di queste il 90% sostanzialmente viene comprato da altre grandissime imprese. Questo appello populistico all’autocostruzione di noi stessi come imprenditori, questa forte sottolineatura della competizione e della concorrenza come valore fondamentale, di fatto ha portato nella realtà al suo opposto, un capitalismo che non è mai stato così concentrato, soprattutto nei settori più avanzati (l’informatica, le biotecnologie, l’intelligenza artificiale, ecc…), in cui il numero reale di attori economici si riduce sempre di più. La competizione è solo per i poveri. Le imprese ne stanno al riparo.
Sono 30 anni che viene teorizzato che lo stato debba ritirarsi dal mercato, ma senza il ruolo fondamentale dello stato (stati nazionali ma anche macro-stati come Unione Europea istituzioni che ricoprono funzioni di statualità, come il Fondo Monetario Internazionale) questi monopoli non sarebbero possibili. Infatti sono gli stati che scrivono le regole che rendono possibile che la competizione si possa ridurre a quattro o cinque attori oligopolistici.
Cosa succede dunque dentro al lavoro? Dentro la produzione all’interno di questi mondi (dai settori innovativi alla logistica) succedono due cose fondamentali.
Primo, nella catena produttiva si trovano tutte le forme di lavoro esistite e succedutesi dall’origine del capitalismo: il semi-schiavismo, il caporalato, il cottimo, forme di lavoro settecentesche senza garanzie, è come se fosse una sfilata storica e geografica. Da un lato, alcune lavori manuali diventano un po’ meno meccanici e più relazionati con la conoscenza del processi informatici; dall’altra, però, i posti di lavoro creati negli ultimi anni non riguardano affatto le funzioni più alte, creative e interessanti, ma quelle più basse, in particolare il terziario arretrato. La previsione delle retoriche sull’economia della conoscenza, secondo la quale verrebbero eliminati i lavori pesanti e contemporaneamente si espanderebbero i settori più creativi e interessanti, statisticamente non sta avvenendo. Anzi sta accadendo l’opposto: si sta di nuovo espandendo il lavoro pesante (di cui Amazon è un esempio perfetto, perché si lavora molto e in modo estenuante, a basso salario e poche garanzie), mentre il lavoro a qualificazione medio-alta è messo sotto pressione dai processi di automazione che sempre di più eliminano lavoro intellettuale.
Se le rivoluzioni industriali precedenti avevano cancellato i lavori manuali, compensando con la creazione di una classe media e quindi col settore impiegatizio, servizi, ecc…, questo non succederà con la cosiddetta quarta rivoluzione industriale, perché i lavori distrutti nella fascia dei colletti bianchi non verranno compensati dalla crescita di una nuova classe produttiva. Un sociologo serio come Collins prevede che tra 20 anni il tasso di disoccupazione medio nei paesi occidentali sarà del 50%. Se sarà così, come farà una società a riprodursi nel momento in cui la metà è fuori?
I sociologi pessimisti di 30 anni fa parlavano di società dei 2/3, in cui 2/3 sono inclusi mentre il restante terzo è relegato nella marginalità economica, sociale, culturale e politica. C’è la possibilità che quelle considerazioni pessimistiche in realtà fossero quasi ottimistiche. È possibile che ci stiamo muovendo verso una società del 1/2, in un cui una metà è inclusa e l’altra è lasciata a sé stessa, con qualche mezzo di pura sopravvivenza o di reddito minimo. Poche grandi aziende manterranno il proprio tasso di profitto, ma non più vendendo a poco prezzo a molti, bensì vendendo la stessa cosa ad alto prezzo a pochi. Trenitalia è in questo senso un modello rappresentativo: prima era un servizio pubblico che serviva a garantire alle persone di spostarsi; ora che è una società di diritto privato, può tagliare fuori la metà dei pendolari e concentrare i guadagni sull’Alta Velocità, cioè sul «lusso». Questo potrebbe essere il modello di mercato della società del 1/2.
[Di Loris Caruso]