Formazione, lavoro ed emigrazione: i giovani alle prese con i risultati della ristrutturazione neoliberista
*di Nadia Garbellini
Giovani a Sud della Crisi, lavoro collettaneo curato dai ragazzi di Noi Restiamo raccogliendo i contributi di vari collettivi universitari, è un volume importante non solo per i contenuti, ma anche – e in un certo senso soprattutto – per lo sforzo di elaborazione collettiva da cui ha avuto origine.
In una fase di grande povertà di pensiero e di frantumazione della classe lavoratrice – che inizia già durante il percorso universitario e, prima ancora, scolastico – è infatti vitale incoraggiare, sostenere e divulgare i risultati di elaborazioni collettive di questo tipo, di cui abbiamo più che mai bisogno.
In un ambiente universitario che dovrebbe incoraggiare ed alimentare – e invece ostacola e impoverisce – la capacità critica degli studenti, infatti, prendere in mano questo volume e scorrerne le pagine trasmette senza dubbio un sentimento di soddisfazione e speranza.
Sono tanti ed apparentemente eterogenei i temi trattati – dalle riforme dell’università alla modalità di finanziamento degli atenei, dal problema della disoccupazione giovanile all’analisi dei mutamenti del capitalismo europeo – ma gli autori sono stati a parere di chi scrive efficaci nel rendere un’idea: tutti questi aspetti, ben lungi dall’essere slegati gli uni dagli altri, sono parte integrante della cosiddetta ‘ristrutturazione neoliberista’, e come tali vanno analizzati e contrastati.
Per rendersene conto, è sufficiente adottare la prospettiva degli autori: quella di classe, alla luce della quale le tessere del mosaico formano un disegno estremamente chiaro.
La distruzione del sistema scolastico e universitario è senza dubbio un tassello fondamentale della cosiddetta svolta neoliberista. Essa risponde infatti alla logica dell’aziendalizzazione dell’istruzione, sotto le affascinanti etichette di efficienza e merito. Come sottolineato a più riprese nel volume curato da Bellofiore e Vertova (Ai confini della docenza. Per la critica dell’università), le tante riforme del sistema universitario che si sono susseguite negli ultimi anni hanno pian piano spogliato gli atenei del loro ruolo, di fatto privando gli studenti del diritto allo studio.
Le università infatti non sono più luogo dove formare la propria conoscenza, ma luoghi di produzione di futuri lavoratori ad uso e consumo del capitale. I percorsi universitari devono essere sempre più brevi e veloci, le competenze acquisite sempre più modellate sulle figure professionali richieste dalle aziende. Gli studenti devono abituarsi fin da subito ad un mondo del lavoro fatto, per i più fortunati che un impiego riescono a trovarlo, di contratti di brevissima durata e quindi di continui cambi di mansione, senza la possibilità di restare in un luogo abbastanza a lungo da riuscire a sviluppare, sul posto di lavoro, delle vere e proprie competenze.
Il capitale ottiene così un triplice risultato: scaricare i costi della formazione professionale sulla collettività, procurarsi lavoratori disciplinati e pronti a lavorare a condizioni inaccettabili, smantellare un luogo dove, tradizionalmente, si sviluppa il pensiero critico e quindi anche la coscienza di classe. Tutto con il plauso – e non di rado l’azione diretta – dei partiti sedicenti di (centro-)sinistra.
La medesima logica si estende non solo ai corsi di laurea, ma anche a quelli di dottorato e, successivamente, di inserimento in accademia. Tutto deve essere misurato e quantificato. Non importa la qualità delle conoscenza, ma solo la quantità di paper sfornati, ma che siano su riviste di fascia A, e a ritmi da catena di montaggio.
Fare un dottorato non significa più prendersi 3 o 4 anni per studiare, fare profondamente proprie delle conoscenze, sviluppare un proprio pensiero critico e quindi eventualmente dare dei contributi alla conoscenza collettiva. La competizione per i pochi posti disponibili in accademia impone di iniziare subito a pubblicare, passando da un argomento all’altro in maniera bulimica, senza mai potersi fermare a ragionare su ciò che si sta facendo o ad approfondire un argomento.
È ovvio che ad avere successo in questo percorso saranno i più bravi ad adattarsi a tale logica, con l’evidente conseguenza di formare ricercatori e docenti universitari la cui preparazione è sempre più deficitaria e ristretta. Non ci vuole un indovino per capire come ciò metta in moto un circolo vizioso davvero difficile da spezzare.
Come sottolineato da più di uno dei saggi contenuti nel volume, stage e tirocini curriculari diventano la norma non più solo all’università, ma già dalle scuole superiori: gli studenti si trasformano così in manodopera a bassissimo costo da sfruttare.
Ciò che più sgomenta è il fatto che tale retorica sia ormai diventata assolutamente dominante, insieme a quella del cosiddetto skills mismatch: la scuola e l’università non devono più insegnare ad imparare – e quindi formare individui capaci di acquisire nel corso della loro vita nuove conoscenze e applicarle anche sul posto di lavoro – ma sfornare lavoratori già belli e pronti per entrare in azienda, precari e sottopagati, e svolgere le mansioni loro assegnate. Ci viene detto che l’università italiana non produce le competenze richieste dal nostro sistema produttivo, dimenticando di sottolineare come un gran numero di giovani preparati e altamente qualificati lascino ogni anno il nostro paese per trovare un’occupazione all’estero, spesso in Germania o UK – altro tema trattato nel dettaglio nel volume.
L’università quindi si deve adattare, deve produrre utili, essere gestita come un’azienda e valutata in base a indicatori di performance e redditività del tutto simili a quelli padronali. Ancor meglio di privatizzare l’università è asservirla agli obiettivi del capitale lasciando l’onere della gestione allo stato, che una volta di più diventa quindi portatore degli interessi della grande impresa.
Abolire il valore legale della laurea, idea non nuova ma riportata recentemente alla ribalta da Matteo Salvini, è perfettamente funzionale alla ‘ristrutturazione neoliberista’: pochi atenei di prestigio – si legga: organici alla classe capitalista – saranno le fucine per le classi dirigenti di domani. Negli altri – prevalentemente ubicati al sud, o comunque periferici in senso sia geografico che politico – saranno relegati coloro che non si possono permettere di studiare altrove, aggravando ulteriormente tutti i problemi strutturali del nostro paese: l’immobilità sociale, il dualismo, la disuguaglianza distributiva, la precarietà e la povertà dilagante.
Menzionare tutti gli spunti di riflessione offerti da Giovani a Sud della Crisi sarebbe qui impossibile, e mi limito quindi ad un’ultima riflessione. Oggi più che mai, è necessario spezzare la dicotomia sovranismo/europeismo così come ci viene imposta. Elaborare una critica radicale all’architettura delle istituzioni europee non significa, infatti, rinchiudersi entro i confini nazionali – e quindi cercare impossibili soluzioni locali a problemi globali. Al contrario, significa adoperarsi per riunire le classi lavoratrici europee – e idealmente, non solo – pur con tutti gli ostacoli posti su questo cammino da decenni di arretramento sociale e culturale.
È quindi importantissimo il lavoro di analisi svolto in queste pagine, che ripercorre anche le tappe della ristrutturazione del capitalismo europeo operate dall’evoluzione delle istituzioni dell’UE, analizzandone le conseguenze di classe prodotte. Ed è importantissimo che a svolgere questa analisi sia stata l’intelligenza collettiva di un gruppo di studenti universitari che ci dimostrano come l’impegno e la militanza possano ancora essere elementi chiave di un cammino verso l’emancipazione.
*Ricercatrice in Scienze Economiche