Qui sème la misère, récolte la colère! La generalizzazione del conflitto in Francia e il ruolo delle giovani generazioni
Oggi in Francia si svolge il terzo sciopero generale in meno di due settimane, il terzo momento di culmine della protesta che è andata montando all’annuncio di una nuova riforma pensionistica da parte dell’Alto Commissario alle pensioni e dirigente di En Marche! Jean-Paul Delevoye. L’opposizione a questo provvedimento sembra pronta a durare a lungo, nonostante la dura repressione da parte del governo; il tentativo di divedere il movimento giocando su un ricatto generazionale è stato rispedito al mittente, mostrando la forza di un blocco sociale ricompostosi sul terreno delle lotte reali. È importante dunque seguire da vicino queste mobilitazioni, nelle quali la nostra generazione ricopre un ruolo centrale, anche perché la loro portata oltrepassa i confini francesi e investe anche alcuni pilastri del progetto UE.
La prima giornata di sciopero interprofessionale, il 5 dicembre, ha bloccato il paese e, al di là di ogni aspettativa, è riuscita a portare in piazza 1,5 milioni di persone, alcune delle quali hanno scioperato per la prima volta. Già dalle linee guida rese note il 10 ottobre appariva chiaro che dietro la retorica dell’avanzamento verso un sistema universalistico si nascondeva un progetto di livellamento verso il basso delle prestazioni: aumento di fatto dell’età pensionabile da 62 a 64 anni se si vuole godere della pensione piena, introduzione di un sistema di calcolo a punti che scollega i contributi versati da un valore fisso, colpendo soprattutto le donne e i lavoratori con carriere precarie e discontinue, incentivi al prolungamento dell’attività lavorativa e al passaggio a fondi pensionistici privati.
Come ha scritto l’economista Henri Stedyniak l’obiettivo è quello di passare a “un sistema flessibile che consente di utilizzare le pensioni come variabile per l’aggiustamento delle finanze pubbliche”, mentre il risparmio previdenziale viene dato in pasto alla speculazione finanziaria. Sindacati e manifestanti si sono opposti con decisione a questo attacco, chiedendo il ritiro immediato della riforma nonché l’innalzamento di salari e pensioni. Dopo l’ottima riuscita della giornata del 5 dicembre, inoltre, le organizzazioni dei lavoratori hanno spinto per generalizzare lo sciopero e molte di queste hanno fatto appello alla grève reconductible, ovvero allo sciopero a oltranza. Gli eventi di queste settimane sembrano dunque porre le basi per una mobilitazione durevole con momenti di varia intensità; al 5 dicembre è seguita infatti un’ulteriore giornata di sciopero interprofessionale, inframezzata dall’atto 56 dei gilets jaunes, svoltasi il 10 dicembre con lo slogan “non sono gli scioperanti a tenerci in ostaggio ma la finanza”.
Questo slogan apre una necessaria riflessione sul consenso che le proteste hanno prodotto nell’opinione pubblica e sul salto di qualità del movimento francese, un salto che si è concretizzato sull’onda di lotte che vengono da lontano. L’opposizione al provvedimento sulle pensioni ha in realtà coagulato la collera di settori sociali che da mesi lottano contro il modello che Macron vuole imporre nell’Esagono. Gli scioperi dei postini nelle Hauts-de-Seine che dalla difesa dell’attività sindacale di Gaël Quirante sono passati a criticare l’insostenibile aumento dei carichi di lavoro a causa della mancanza di personale e i disagi denunciati dai lavoratori delle ferrovie per gli stessi motivi; la richiesta da parte dei pompieri del riconoscimento del loro mestiere come mansione usurante e le rivendicazioni dovute alla mancanza di operatori e di risorse da parte del personale dei pronto soccorso, rivendicazioni che nel corso degli ultimi otto mesi si sono pian piano estese all’intero personale medico con il coordinamento autonomo di varie strutture ospedaliere.
Tutte queste situazioni di conflittualità profonda e diffusa, come ha detto la storica dei movimenti sociali Danielle Tarkowsky, hanno trovato nella messa in discussione di ciò che rimane del welfare uno spazio comune in cui cristallizzare una serie di esigenze e richieste, che oltrepassano la tematica previdenziale e vanno generalizzandosi. La riforma delle pensioni è infatti solamente l’ultimo passo di quello “Stato sociale del XXI secolo” che “le président des riches et des patrons” promuove e che è parte del sistema della Macronie, il modello Macron che ha portato ad un veloce deterioramento delle condizioni di lavoro e di vita. Nell’arco di due anni e mezzo è stata abolita la patrimoniale e sono state aumentate le tasse ai lavoratori, è stato ridotto l’equivalente francese del contributo affitto nonché l’indennità di disoccupazione, è stata portata a compimento la riforma dei centri per l’impiego e del Code du travail, cominciata con la Loi travail del governo Hollande; il 10 settembre l’INSEE, cioè l’ISTAT francese, ha pubblicato una nota nella quale riporta che 9 milioni di persone, il 14% della popolazione, vive al di sotto della soglia di povertà, e che il numero dei lavoratori poveri sta aumentando mentre il loro tenore di vita peggiora.
L’attacco governativo che punta al livellamento verso il basso di tutti i diritti sociali è il vero nemico del movimento, che va dunque generalizzando le sue richieste, trovando pieno consenso in larghi settori sociali che vivono sulla propria pelle gli effetti della Macronie: un sondaggio pubblicato su un giornale di provata fede macroniana come Le Journal Du Dimanche mostra che il 53% della popolazione è favorevole allo sciopero, mentre un’altra indagine conferma che il 43% dei francesi crede che lo sciopero sia innanzitutto una mobilitazione contro le politiche del Capo dello Stato nel suo complesso.
Sembra quindi che con l’accelerazione voluta da Macron della trasformazione in senso neoliberale della società francese e con la conseguente esplosione delle contraddizioni di un sistema economico messo sotto stress si sia potuto ricomporre, sul campo concreto dell’intersezione e dell’incontro delle lotte, un blocco popolare che ha individuato con chiarezza il responsabile della propria condizione di precarietà nella lotta di classe dall’alto, in questo fase condotta da En Marche! e dal suo leader.
Questo processo trova le sue origini già negli atti dei Gilets Jaunes, quando questi ribadivano con forza lo slogan Fin du monde, fin du mois / Mêmes coupables, même combat; del resto la Macronie è consistita innanzitutto nella marginalizzazione dei sindacati, che nonostante il peso nelle relazioni industriali locali sono stati via via allontanati da qualsiasi possibilità di intervento sugli orientamenti strategici riguardo le politiche del lavoro. Ma le piazze dei gilet gialli hanno creato uno spazio sociale e politico di mobilitazione che, costringendo il governo ad alcuni passi indietro, ha mostrato la validità dell’opzione dell’azione diretta e collettiva per ribaltare la propria condizione.
La componente giovanile assume un ruolo dirimente nella protesta, perché su di essa il governo ha cercato di scaricare il peso maggiore della riforma, sperando di poter così dividere il movimento e contenere la rabbia dei sindacati. Ma le dichiarazioni del Primo Ministro Édouard Philippe, il quale l’11 dicembre ha specificato i contenuti della riforma, non solo hanno trovato il netto rifiuto delle centrali sindacali che già erano scese in piazza, ma anche di quelle come la CFDT, di matrice cristiana, che fino adesso si era detta più o meno aperta al dialogo con l’esecutivo.
Le giovani generazioni sono inoltre considerate, come scritto su un articolo comparso su Le Parisien il 15 novembre, la possibile scintilla che può portare a un’ulteriore diffusione della mobilitazione. Infatti, la riforma pensionistica avrà un impatto ancor più pesante su coloro che sono nati dopo il 1990 e, magari per studio, cominciano a lavorare a 25 anni: non potranno godere della pensione piena se non lavorando fino ai 69 anni, sempre che nel corso della loro vita lavorativa non affrontino periodi di disoccupazione o di precarietà in genere. Ma la questione non si esaurisce nell’ambito di questa riforma, come del resto per tutte le altre categorie coinvolte negli scioperi.
Uno studio dell’INSEE uscito l’anno scorso riporta che il 20,8% degli studenti universitari vive sotto la soglia di povertà, e più di un terzo di loro deve lavorare per mantenersi agli studi. Il 37,5% degli studenti è borsista ma gli importi non sono sufficienti a sopravvivere, tanto che molti studenti dichiarano di saltare alcuni pasti e il 13,5% ha rinunciato a vedere un medico per motivi economici; nonostante questo, è previsto un ulteriore taglio di 322 milioni all’istruzione superiore.
L’aumento delle tasse di iscrizione (di ben 10 volte per gli extra-comunitari) e la riduzione della spesa pubblica per studente intorno al 10% negli ultimi 10 anni, la diminuzione del numero di alloggi nelle residenze universitarie e la soppressione di una serie di servizi sociali legati alla vita studentesca sono stati accompagnati da altre misure che hanno portato alla progressiva precarizzazione di dottorandi e ricercatori, dalla riforma Parcours SuP e dalla Loi ORE che, dietro la retorica dell’orientamento, hanno sostanzialmente introdotto una sorta di selezione all’ingresso nell’istruzione superiore; si è accelerato sulla privatizzazione dell’istruzione e sul piegarla alle esigenze del mercato al punto che all’approvazione dalla riforma Blanquer, la Buona Scuola francese che istituzionalizza istituti di serie A e di serie B, una deputata del PCF ha dichiarato che così si poneva fine al quadro dell’educazione nazionale e della Funzione Pubblica.
Dalle scuole e dalle università monta la critica del carattere strutturale della precarietà studentesca, che si palesa però come un lato della precarietà a cui sono condannate le fasce subalterne nell’orizzonte della Macronie. In questo progetto politico la riorganizzazione del mondo della formazione secondo gli indirizzi elitari dell’Unione Europea assume difatti un ruolo centrale. Per contrastare questo tentativo di cristallizzazione e approfondimento delle disuguaglianze sociali attraverso la riforma del diritto all’istruzione i movimenti studenteschi francesi chiedono l’aumento del 20% delle borse di studio, l’aumento del numero di alloggi nelle città universitarie, l’immediato congelamento e poi la riduzione degli affitti, l’incremento dei fondi e del personale per i servizi sociali universitari, l’impegno da parte dello stato per più del 50% del costo del ticket delle mense universitarie, maggiori investimenti nella ricerca pubblica e la concessione automatica di un titolo di soggiorno per chiunque si iscriva all’università.
La portata di queste rivendicazioni mostra la consapevolezza di come la problematica vada oltre la precarietà studentesca e assuma una portata politica più generale. Di questo sono consapevoli gli stessi universitari: in un’intervista apparsa il 25 novembre sulla rivista indipendente online Mediapart, il giorno prima di una mobilitazione nazionale sulla precarietà studentesca, uno studente, commentando il tentato suicidio per motivi economici di un compagno di Solidaires Étudiant-e-s, afferma che un gesto del genere testimonia di un contrasto insanabile di tanti giovani della nostra generazione con le persone più ricche.
Il fantasma del naufragio della riforma Juppé delle pensioni, ultima grande vittoria del movimento dei lavoratori risalente al 1995, si affaccia sul quadro politico francese, conducendo a una certa insofferenza anche alcuni esponenti di En Marche! Il tentativo di far fallire i blocchi sindacali con bus privati e car sharing non è andato a buon fine, così come le accuse di corporativismo e di difesa dei privilegi non hanno fatto altro che gettare benzina sul fuoco della protesta, cementando ancor di più la consapevolezza della necessità di mantenere unita la lotta e di non cedere ai tentativi governativi di dividere il fronte dell’opposizione sociale, che combatte una lotta non settoriale ma per tutte le fasce subalterne.
Gli unici soggetti che ad oggi sostengono il provvedimento sono la MEDEF, ovvero la Confindustria francese, e l’Unione Europea. Il Commissario al Mercato Unico Thierry Breton ha dichiarato che “la Commissione Europea giudica necessarie tutte le riforme che bisogna portare avanti in tutto il continente, e in particolare questa”, caricando egli stesso gli esiti di questo scontro tra la piazza e il governo di una valenza che va oltre la tematica pensionistica e i confini dell’Hexagone. La resilienza garantita a Macron dal sistema politico francese e la repressione poliziesca sempre più feroce sono le uniche difese di questo progetto reazionario, e in un certo senso anche gli unici strumenti rimasti all’Unione Europea nella sua corsa ad affermarsi come polo imperialista. L’economista Jean-Paul Fitoussi ha parlato delle manifestazioni di questi giorni come di una risposta alla paura di perdere diritti storici consolidati, ottenuti grazie alla lotta, in virtù della promessa di seguire ossequiosamente i diktat di Bruxelles.
Ma l’acuirsi delle disuguaglianze ha rinfocolato una contrapposizione di classe che, seppur in modi e forme differenti, ha minato il terreno del consenso all’Unione Europea; molte contraddizioni sono esplose al suo interno, dalla Catalogna alla Gran Bretagna, mostrando delle crepe nell’imposizione del pensiero unico europeista. Su queste crepe martella la protesta francese e anche noi dobbiamo continuare a colpire lì dove il nemico è più debole. Un’importante vittoria può essere conquistata contro la precarietà e l’establishment europeo che la vuole imporre, ma solo se i settori di classe e popolari continueranno ad essere uniti contro il proprio nemico comune, la gabbia dell’Unione Europea e le sue espressioni particolari, come lo è la Macronie.
La storia non è finita, spetta a noi scriverla.