Patria, famiglia e il sostegno ideologico allo sfruttamento
La nuova guida di Confindustria, Carlo Bonomi, al primo consiglio generale da presidente dell’organizzazione padronale, ha marcato la linea dura di Confindustria per la fase 2, con dichiarazioni poi rimbalzate su diverse testate giornalistiche.
Da una parte l’organizzazione padronale, mentre continua a demonizzare le nazionalizzazioni, richiede finanziamenti statali a fondo perduto per le imprese – non è difficile leggere in questo senso i 6,3 miliardi di garanzia che FCA richiede allo Stato, per un prestito su cui si sta accordando con Intesa Sanpaolo. Dall’altra parte spinge per un rinnovato attacco ai diritti dei lavoratori, invocando la sospensione dei contratti nazionali, per una ridefinizione individuale dei rapporti tra lavoratori e singole aziende: frammentazione individuale del lavoro, e supporto statale alle imprese.
Il fatto che Confindustria da qualche settimana abbia eletto alla sua guida un falco, dai modi guerreschi, che vanta il “merito” di aver tenuto aperte le fabbriche durante l’emergenza, e che il governo negli stessi toni militareschi ci parli da tre mesi a questa parte di patria, famiglia ed eroi, non è certamente un caso. Giusto per citare qualche esempio più evidente basti pensare alle parate con le frecce tricolore, le mascherine con i colori della bandiera italiana, il dibattito sui congiunti che ha caratterizzato i primi momenti della riapertura, la campagna per l’esposizione delle bandiere sui balconi promossa anche dal PD e infine le manifestazioni istituzionali in occasione del 2 Giugno.
La recessione economica che si prospetta severissima per l’Italia e per il mondo, in un contesto di crisi strutturale del capitalismo lunga ormai diverse decadi, che si manifesta in shock sempre più duri e ravvicinati, da cui il nostro paese non riesce mai a risollevarsi – ripone in maniera più stringente che mai la competizione globale su un piano di giochi a somma zero, dove il mercato da spartirsi va riducendosi e l’aggressività dei soggetti in campo raggiunge nuove vette.
I rapporti di forza tra le parti sociali in un contesto come questo diventano centrali nella definizione di chi pagherà i costi della crisi, ed è in questa ottica che dobbiamo comprendere la recente esposizione mediatica di patria e famiglia, intesi come dispositivi ideologici e categorie sociali.
La ritrovata centralità di patria e famiglia, infatti, in questo contesto assume una duplice funzione. Una più classica, in quanto il capitalismo, messo alle strette, è costretto a mostrare la propria faccia più brutale, e a veicolare ogni tensione sociale che lui stesso alimenta su piani orizzontali e identitari, nelle forme tradizionali borghesi, perché non si sviluppi in senso verticale, come odio di classe. L’altra fa riferimento alla pratica della privatizzazione dei profitti e socializzazione dei costi, ed è tipica di questo tardo capitalismo, che non trovando né nuovi margini di crescita, né d’assorbimento della disoccupazione strutturale prodotta, ha bisogno del supporto di Stato e famiglia, come stampelle e bastoni, per sostenersi e intensificare lo sfruttamento,
Patria e famiglia non sono mai scomparse dal frasario borghese nel nostro paese, ma sono state l’altra faccia della medaglia – quella celata – dello sviluppo del capitalismo di questo millennio. Da una parte la narrativa egemone in funzione individualista, flessibile, smart e transnazionale formava i giovani lavoratori e adattava i vecchi alla nuove catene di produzione del valore, legittimando la precarizzazione, l’atomizzazione, la liberalizzazione, l’aggressione allo stato sociale, la disoccupazione strutturale, le migrazioni forzate di un sistema che dallo sfruttamento del lavoro aveva necessità di estrarre sempre più profitto, trovandosi incapace di crearne tramite l’incremento della produttività. Dall’altra parte questa ristrutturazione, se vedeva la famiglia frammentata per esigenze di mercato, aveva bisogno comunque della sua funzione di tenuta sociale e psicologica di fronte all’atomizzazione e fragilizzazione dell’individuo e all’arretramento dello stato sociale; se vedeva lo stato defilarsi come attore economico, aveva bisogno comunque della sua azione continua per garantire i profitti di un capitalismo in crisi, sia tramite le concessioni statali, le partecipazioni e le commesse, sia nel ruolo che Bonomi dà per scontato, quello di garante del rischio d’impresa, chiamato a salvare a più riprese tramite fondi pubblici un sistema incapace di sorreggersi.
L’unità ideologica a cui ci richiama l’idea di patria non è solo importante per veicolare la coesione sociale e allentare la tensione di classe, ma pure per legittimare la nuova esposizione dell’azione statale. Questa ha per il nostro capitalismo una vitale funzione sociale ed economica come dispositivo repressivo di controllo, per cui i droni e il tracciamento si pongono in continuità con l’approvazione dei decreti sicurezza, e come strumento di sostegno economico agli interessi padronali, in un momento in cui i rapporti di forza tra le classi sono così sbilanciati a sfavore delle classi subalterne, da non metterne mai in discussione l’unilateralità dell’azione.
Conte non avrebbe potuto essere più esplicito quando, aprendo la discussa conferenza stampa del 26 aprile, chiariva che “potreste prendervela con il governo e la politica, ma non dovreste farlo per amor di patria”. I tricolori e l’inno alle finestre, il mantra dell’andrà tutto bene, le canzonette ai supermercati, le immagini del mondiale 2006 in televisione, la retorica degli eroi, producono quell’immaginario guerresco che dovrà sfornare per Confindustria gli ammaestrati soldati che questa nuova crisi ha reso necessario mandare al macello.
La famiglia non è certo meno importante per questo complesso socio-ideologico dalla doppia faccia. Siamo cresciuti in un sistema che in 15 anni ha portato 2 milioni di giovani a lasciare il sud per il nord, e prodotto, a oggi, un numero di famiglie definibili come unipersonali pari al 32% del totale. Venivano chiamati choosy e bamboccioni i giovani che, di fronte alle difficoltà materiali di sopravvivere lontani da casa – visto il tasso di sfruttamento del lavoro giovanile – erano costretti a restare in famiglia, e a inizio quarantena venivano sbeffeggiati gli emigrati che di fronte all’isolamento forzato cercavano di lasciare Milano per tornare al sud.
Ma non è schizofrenia se durante la quarantena, all’improvviso, abbiamo sentito romanticizzare il restiamo a casa – tratteggiato ignorando le pesanti difficoltà materiali della classi subalterne e le numerose violenze domestiche, che avvengono all’interno di un “accogliente nido familiare” – e se ora nelle disposizioni del governo solo le famiglie vengono ritenute degne di socialità, mentre tutte quelle relazioni sociali costruite in seguito alle migrazioni forzate e alla propulsione individualista e atomizzante vengono disconosciute.
È la medaglia che mostra la sua altra faccia, quella per cui, in vista della necessità di socializzare una mole straordinaria di costi nei prossimi mesi, il capitalismo chiede alle famiglie un supplemento di sostegno (sappiamo già che saranno quelle più povere a pagare il prezzo più alto, in quanto proprio a esse era destinato il welfare statale scomparso).
Nella crisi sempre più profonda in cui si addentra il capitalismo non può che intensificarsi lo sfruttamento. Di fronte all’inconsistenza dell’opposizione di classe, Confindustria si prepara a sferrare un nuovo attacco alle classi subalterne e ai diritti dei lavoratori, e mentre lo stato arretra dalla sua funzione sociale, la famiglia deve sostituirlo nell’alleggerire il peso delle contraddizioni materiali che i lavoratori vivono sulla propria pelle.
La famiglia, che già nella famosa frase di Margaret Thatcher, “la società non esiste, ci sono singoli uomini e donne e ci sono le famiglie”, mostrava di preservare un ruolo importante per il capitalismo liberista che andava affermandosi, non ha mai lasciato la scena. Pur mantenendosi sullo sfondo negli ultimi anni, in realtà continuava a garantire a questo modello di capitalismo rapace la possibilità di dispiegarsi e ora ritrova una centralità ideologica, in vista di una duplice funzione.
Garantisce innanzitutto l’estrazione intensificata di quel valore, non tutelato socialmente, prodotto dal lavoro di cura principalmente delle donne. L’Italia è un paese in cui, secondo l’Istat, le donne sono il 51,3% della popolazione, ma solo il 42,1% degli occupati, in cui l’11% delle donne che hanno avuto almeno un figlio, il 17% di quelle che ne hanno avuti due e il 19% di quelle che ne hanno avuti tre non ha mai lavorato (contro una media europea sotto al 4%), in cui il 97% delle donne provvede alla cura quotidiana dei figli, e l’81% ai lavori domestici, in cui dunque le donne garantiscono più che in altre realtà la tenuta del sistema produttivo. In questo contesto stringere e rafforzare i nuclei famigliari, mentre i bambini sono lasciati a casa da scuola, gli anziani in pericolo nelle case di cura, e gli uomini, come lavoratori, soffrono la crescente disoccupazione e subiscono nuovi attacchi padronali, ha lo scopo di chiedere alle donne un extra supporto non remunerato materiale e psicologico, a copertura di uno stato sociale in continuo arretramento. Tutto questo in una situazione in cui le donne, come lavoratrici, subiscono, quanto e più degli uomini, l’erosione diretta dei loro diritti sul lavoro e l’intensificarsi dello sfruttamento, e sono costrette sempre più spesso al part-time o all’abbandono del lavoro e delle ambizioni per cui hanno studiato.
La famiglia funge altresì da dispositivo classico di controllo, veicolando le forme di aggregazione e resistenza verso un piano che lo stato può gestire e che difficilmente può svilupparsi in senso esplosivo. Questo a differenza di quello che potrebbero fare, se rafforzate, le reti solidaristiche dal carattere sociale che gli individui atomizzati potrebbero alimentare e sviluppare di fronte alla crisi.
La fase 2 ci mostra esplicitamente quanto ormai il sistema capitalista abbia esclusivamente una funzione storica regressiva. Dove questo è più sviluppato e regola quasi tutte le relazioni sociali e dove le possibilità di vita sociale al di fuori di quella produttiva e consumistica sono ridotte all’osso, le famiglie sono composte da singoli individui e gli spazi pubblici di incontro sociale tendono a scomparire. Qui il mantra di governo e Confindustria, “patria, lavoro, casa e famiglia”, si percepisce in tutta la propria portata contraddittoria e reazionaria, come morte, isolamento e sfruttamento.
Non riuscendo a produrre ricchezza sull’aumento della produttività, sulla base della dinamica consumistico-individualista che ha spacciato negli ultimi decenni, la borghesia dirigente mette senza difficoltà da parte la retorica compulsiva, colorata e frizzante che descriveva, ad esempio, la Milano non si ferma di febbraio, per sostituirla nelle parole del sindaco Sala, con il lavorare, lavorare, lavorare ripetuto a più riprese e intervallato da minacce di repressione.
Questo capitalismo, a prescindere da come tenti di vendersi, continua si può dire coerentemente, per necessità strutturali, a regredire verso i caratteri militareschi di ordine e disciplina del capitalismo ottocentesco, che come quello di oggi estraeva i propri profitti sull’intensificazione dello sfruttamento dei lavoratori, con il supporto e l’inquadramento dello stato e della famiglia.
Laddove dunque la narrazione borghese si stringe attorno ai suoi capisaldi classici, investiti di funzioni tradizionali e nuovi compiti, allo scopo di preservare e tutelare ideologicamente e materialmente la propria tenuta, di fronte a margini di sfruttamento sempre più risicati, per noi è sempre più forte e impellente l’urgenza di organizzarci.
La costruzione di una prospettiva alternativa allo scenario sempre più arido e desolante che questo sistema prospetta a precari, giovani, donne, persone di colore e a tutte le classi più deboli di questo paese passa dall’organizzazione di un’opposizione cosciente alla retorica mistificatoria della classe dominante, per non permettere che la narrativa patriottica rinforzi uno stato che si manifesta in questa fase come servile stampella della classe padronale a spese di tutte le classi popolari, e per smascherare una propaganda familistica, che si risolve in una lacrimosa supplica di sacrifici verso chi da questo sistema viene dissanguato ormai da decenni.