Next generation EU, i soldi non fanno la felicità
Con il prolungarsi dell’emergenza pandemica e l’aggravarsi delle condizioni di crisi sociale ed economica, si fanno sempre più insistenti le voci che, da tutto l’arco parlamentare e specialmente da parte dei partiti di governo, invocano l’utilizzo del fondo Next Generation EU (meglio noto come Recovery Fund) alla stregua di una panacea per tutti i mali che affliggono il nostro paese. Sfogliando la bozza di documento elaborata dal governo per l’utilizzo dei fondi, infatti, non si può fare a meno di notare l’atteggiamento di attesa messianica del “salvataggio” europeo che dovrebbe liberarci da ogni male e proiettarci in un miracoloso futuro “green” e “smart”.
Come generazione su cui grava il pesante fardello di questa nuova ondata di crisi economica e sociale, pensiamo che non possa esistere soluzione alla condizione attuale senza un ripensamento alla radice dei processi che governano la nostra società.
Non è questa la sede per un’analisi approfondita dei meccanismi che questo strumento porta con sé, ovvero quella condizionalità rispetto alle riforme lacrime e sangue su cui è costruita tutta l’architettura europea, di cui la Grecia è solo il più drammatico degli esempi. La scelta di perpetuare questi meccanismi come risposta alla più grande crisi del dopoguerra – con oltre 200.000 morti nel nostro continente – dimostra il reale volto dell’Europa dei popoli e della sua classe dirigente… Quello che ci preme sottolineare con questo contributo è un altro aspetto, ovvero: in che direzione vanno le misure che, con questi fondi, si andrebbe (il condizionale è d’obbligo) ad applicare?
Sfogliando le pagine del documento, si può riscontrare subito come non ci sia stato nessun ripensamento delle priorità che sono state perseguite fino a questo momento. Da un lato si accenna ad una non bene specificata “sostenibilità”, dall’altro si dà un implicito via libera ad opere faraoniche e pesantemente impattanti (oltre che inutili) come la TAV Torino-Lione. Si parla, con sprezzo del ridicolo, di digitalizzazione e cablaggio in fibra ottica delle scuole, tema importante e necessario, ma in un paese dove meno della metà degli istituti scolastici possiede i requisiti antisismici e antincendio minimi. Si prosegue con la politica degli incentivi alle imprese, con annesso taglio della contribuzione, che in questi anni ha trasferito miliardi nelle tasche delle imprese senza alcun effetto sulla disoccupazione.
La conclusione che se ne ricava è che se, e sottolineiamo se, questi soldi verranno concessi (non dimentichiamo che il trasferimento avverrà in “tranches”, ognuna vincolata ad un attento esame da parte della Commissione che si riserva il potere di interrompere il flusso a propria discrezione) i beneficiari principali saranno le grandi multinazionali per i maxi appalti e qualche briciola per dare ossigeno a quella imprenditoria stracciona. Proprio quella borghesia italiana che continua a chiedere fondi a pioggia e tagli del cuneo fiscale, continuando a dimostrarsi incapace di proteggere i posti di lavoro e di creare ricchezza.
Intanto, nel dibattito intorno al mondo della formazione si diffonde tra le rappresentanze studentesche più organicamente vicine al governo in carica il leitmotiv ricorrente di chiedere che questi fondi vengano stanziati per l’istruzione e la ricerca, rimuovendo (volutamente?) il centro della questione, ossia per quale tipo di istruzione e ricerca dovrebbero essere stanziati. Si evita accuratamente di mettere a critica radicale il modello di istruzione che negli anni si è andato affermando, che fa della competizione, dell’autonomia e dell’élitarizzazione i suoi cardini, perché questo implicherebbe mettere a critica non solo il governo, ma l’intero sistema politico (Unione Europea in primis) entro cui viviamo, con il quale sono compatibili e anzi attivi collaboratori. Per questa ragione non possono far altro che elemosinare, siano essi programmi di ricerca o assunzioni, spacciandole per “grandi vittorie”, magari infine beneficiando pure di qualche rendita di posizione dentro le istituzioni o nelle nomenklature di partiti e sindacati.
Quello che
invece è totalmente – e colpevolmente – assente dalla loro critica è la presa
d’atto che la direzione intrapresa dall’istruzione, a livello nazionale come
sovranazionale, venga modellata sulla base delle necessità del modo di
produzione capitalista, che vede nella ricerca e nell’università un elemento
strategico di rafforzamento del proprio imperialismo. Come abbiamo più volte
denunciato in questi anni, il fatto che l’Italia sia in fondo alle classifiche
europee per numero di giovani laureati non dipende solo dal cronico
sottofinanziamento del sistema universitario, che al contrario nei suoi poli di
eccellenza continua a investire risorse sempre maggiori, ma da una scelta
strutturale, che ha portato alla creazione di un sistema universitario sempre
più elitario ed escludente, che divide gli atenei in poli di serie A e di serie
B. Un sistema che concentra sempre più risorse nella “terza
missione”, ovvero nell’utilizzare la ricerca per creare valore per le
imprese, che in questo modo possono scaricare i costi dell’innovazione sul
sistema pubblico, mentre i campi meno “appetibili”, come le materie
umanistiche o la ricerca di base, vengono abbandonati a se stessi o, al
contrario, gradualmente sussunti e deformati in base alle necessità del sistema
produttivo – si pensi ai master in “Filosofia per il Management”, o
all’utilizzo delle tecniche sociologiche per lo studio dei target di mercato.
Se, e sottolineiamo se, ci sarà un rifinanziamento del sistema dell’istruzione
e della ricerca, sarà più che mai necessario aprire una battaglia per un
ripensamento totale del sistema stesso, nel senso di accessibilità per tutti e
di svincolamento dall’obiettivo del profitto e della competizione, che alla
prova della pandemia hanno dimostrato di essere assolutamente incapaci di
garantire il benessere collettivo, e anzi assolutamente incompatibili con esso.
Questa è la lezione che ci viene da quei paesi che hanno potuto e saputo, a
partire dalla scelta politica della pianificazione come a Cuba, dare un senso
completamente opposto al sapere: quello di essere uno strumento per
l’avanzamento collettivo, per il benessere di tutta l’Umanità. Questa è la
battaglia che abbiamo intenzione di combattere, con la ferma convinzione della
sua necessità e soprattutto della sua urgenza. Se non sapremo imprimere un
netto cambiamento di rotta all’università, e attraverso di essa a tutta la
società, saremo inevitabilmente schiacciati da un sistema che, mai come oggi,
ha dimostrato di essere una reale minaccia per l’Umanità stessa.