A partire da Sanpa: tra lotta alla droga e lotta di classe, riflessioni per il presente
È più che mai acceso in questi giorni il dibattito sulla serie televisiva SanPa, appena uscita e che fin da subito ha destato polemiche e divergenze all’interno del dibattito pubblico. Nella convinzione che il metodo punitivo, coercitivo, non sia la via corretta nell’affrontare la questione delle tossicodipendenze, ci interessa innanzitutto inserire quell’esperienza all’interno del contesto in cui è nata, con la consapevolezza che all’epoca esistevano anche dei tentativi di risposta alternativa ai metodi aberranti di San Patrignano. Occorre dunque tornare indietro non tanto al 1978, anno in cui Vincenzo Muccioli fonda la Comunità, ma ancora qualche anno più indietro.
È il 20 marzo 1970 quando, su un barcone ormeggiato lungo il Tevere a Roma, un’operazione di polizia intercetta diversi giovani ragazzi appartenenti al movimento studentesco e li mette agli arresti. Novanta arresti, con una accusa che poi si rivelerà infondata: erano tutti drogati. “Il Tempo”, il cui capocronista era il fascista Franz Maria d’Asaro, esponente del MSI, titolerà “2000 giovani si drogavano sul barcone”. E’ l’inizio di una guerra mediatica volta a screditare la contestazione che in quegli anni imperversava proprio tra le fasce giovanili. A partire da questo episodio nel nostro paese vedremo un escalation nell’uso di droghe pesanti, nello specifico dell’eroina, una guerra sempre più marcata alla droghe leggere e una progressiva estinzione della morfina dal mercato della droga e l’individuazione mediatica strumentale del soggetto drogato, “capellone”, un individuo dal quale guardarsi in quanto pericoloso ed imprevedibile. Una operazione che, come svelato anni dopo dagli archivi CIA ed FBI, si rivelerà direttamente pilotata dai servizi segreti occidentali con la collaborazione dei fascisti, da sempre ed ancora oggi legati al mercato delle droghe pesanti (Droga e moschetto, fascista perfetto).
A fianco alla strategia della tensione inaugurata nel 1969 con la Strage di Piazza Fontana, alle bombe di Stato, ad una guerra militare repressiva crescente, viene accostata una nuova guerra, stavolta rivolta direttamente alle fasce giovanili, in prima linea nella contestazione. Inizia ad essere diffusa all’interno degli ambienti giovanili della contestazione di quegli anni, a partire dai primi anni 70, l’eroina. Una operazione (che prenderà il nome di Operazione BlueMoon) che troverà campo fertile soprattutto nelle fasce proletarie della popolazione giovanile dell’epoca, che vivevano una vita di sfruttamento in periferie abbandonate, legata a valori sociali che non riconoscevano più, una generazione che in larga parte aveva però trovato nella autodeterminazione, nella militanza politica e nel determinato impegno per una trasformazione radicale della società una via di riscatto e di collettivizzazione del disagio sociale di quegli anni.
Impaurito da un contesto politico extraparlamentare in crescente fermento e, nello specifico del nostro paese da un Partito Comunista in ascesa, l’apparato repressivo del blocco occidentale spalleggiato dai militanti fascisti e tramite l’infiltrazione di agenti si pone un obiettivo chiaro, riassumibile citando il documentario Operazione Blue Moon – Eroina di Stato (Operazione Bluemoon. Eroina di Stato): “la droga come arma contro gli oppositori”. Proprio in questo documentario troviamo le dichiarazioni di Roberto Cavallaro, fascista arrestato ed inquisito dalla magistratura durante le indagini sul golpe Borghese del dicembre 1970, ex collaboratore del SID e presente ad un campo di addestramento tenutosi in Francia sui monti Vosgi nel 1972, durante il quale ebbe modo di entrare a contatto con la cosiddetta operazione bluemoon: “l’opposizione andava regolata e disciplinata in maniera diversa. Uno dei metodi di cui si è parlato è stato quello del cosiddetto piano Bluemoon, vale a dire l’introduzione regolata, da accordi di intelligence, di sostanze stupefacenti da destinare ad un pubblico giovane per diminuire la capacità di resistenza psicologica nei confronti di chi deteneva la gestione del paese, o in questo caso dei paesi.” A partire da questi episodi dei primi anni 70, per arrivare fino al 1978, l’anno di fondazione della Comunità di recupero di San Patrignano, si vedrà in Italia una costante, massiccia e sempre più allarmante crescita dell’uso di eroina tra i giovani.
E’ in questo atroce contesto che vediamo la nascita di varie comunità di recupero, tra cui quella di Vincenzo Muccioli nel 1978, tutte gestite da privati. Vediamo dunque in quegli anni non solo la diffusione, per mano dello Stato (o degli Stati) tramite i servizi, di una enorme quantità di eroina al fine di soffocare la lotta di classe che andava progressivamente prendendo forma, ma anche una grossa incapacità da parte degli organi statali di gestire il problema delle tossicodipendenze, da loro creato ma che ben presto gli sfugge di mano andando a toccare anche i figli dell’alta borghesia. Un contesto che oggi ci sembra lontano ma che non lo è affatto, non lo è soprattutto nelle motivazioni che in quegli anni spingevano tantissimi giovani verso l’eroina, una droga di nuovo in ascesa negli ultimi anni proprio tra le fasce giovanili che vivono una nuova condizione di emarginazione non lontana da quella dei giovani degli anni 70. Come quella generazione ci ritroviamo all’interno del dibattito politico-mediatico solo sotto elezioni per propinarci qualche vuota frase di spicciola propaganda o per perpetrare una attenta narrazione criminalizzante. Un modo come un altro per nascondere sotto il tappeto decenni di politiche giovanili, portate avanti da governi di vario colore e che hanno prodotto un deserto sociale molto difficile da colmare ed una diffusa precarietà lavorativa e sociale. I giovani degli anni 2000, come quegli degli anni 70, vivono una condizione di marginalizzazione sociale che se in quegli anni trovava una efficace valvola di sfogo e riscatto nella militanza politica, nella lotta collettiva, oggi trova solo il crescente individualismo prodotto da una narrazione e da un contesto sociale, lavorativo ecc.. che porta sempre più all’autoisolamento all’interno una dinamica competitiva contro chi ci sta intorno nella quotidiana lotta per la sopravvivenza, ad essere “imprenditori di se stessi” e che vada a farsi benedire (o a bucarsi?) chi non ce la fa. Allo stesso tempo occorre sottolineare che le generazioni di oggi vivono una condizione materiale ancora più precaria di quella degli anni ’70, che si trovava ad affrontare una situazione di crisi negli anni 70 ma che era seguita al boom economico dei ’60. Una condizione precaria che fa sbattere contro le porte della realtà ogni tipo di aspettativa verso il futuro, aggravata dalla attuale crisi pandemica. Non a caso abbiamo visto proprio in questi mesi di pandemia un sostanziale aumento del consumo ed abuso di droghe pesanti.
Viviamo un contesto in cui l’endovena fortunatamente non riscontra i numeri di quegli anni ma comunque una crescita, in cui anche queste sostanze trovano terreno fertile in una generazione privata anche solo della basilare possibilità di costruirsi un futuro con delle certezze ed in cui la precarietà e la marginalità fa da padrona. In questo contesto, crediamo nella militanza politica, nell’impegno sociale e nella volontà di rovesciamento del presente e delle priorità ancora come strumenti di riscatto sociale e politico. In questo senso risultano definitive ed ancora attuali le parole della protagonista di un documentario di Antonello Branca del 1977: Storia di Filomena e Antonio: gli anni ’70 e la droga a Milano, che ripercorre la storia di due giovani tossico-dipendenti e soprattutto la storia di Filomena, giovane donna con una grande voglia di emancipazione in una famiglia di forte impronta patriarcale ed in una società fatta di sfruttamento e di zero possibilità per i giovani delle fasce popolari come lei:
Oggi è di moda parlare di recupero dei tossicomani, però bisogna intenderci sulla parola recupero. Se recupero significa che io debba accettare la mia infanzia, la mia famiglia, il fatto di essere stata venduta al miglior marito per poi essere portata in fabbrica in Germania, allora questo tipo di recupero non lo accetto. Se recupero significa lottare collettivamente per la trasformazione della società e affinché non esistano più i motivi che portano i giovani come me al buco allora io voglio essere recuperata.