NEI NOSTRI QUARTIERI L’UNICO INTERVENTO PUBBLICO È QUELLO DELLA POLIZIA

Solidarietà contro l’accanimento repressivo. La nostra generazione vale più di una vetrina di Gucci.

Due notti fa, approfittando del coprifuoco, un ingente dispiegamento di forze dell’ordine ha eseguito 37 arresti nella periferia torinese. L’accusa è pesantissima: devastazione e saccheggio.
I ragazzi colpiti dalle misure cautelari provengono dalle periferie della metropoli torinese, per lo più giovanissimi e immigrati, figli di un storia coloniale e imperialista europea, vittime degli stessi meccanismi di emigrazione forzata che da anni coinvolgono nello stesso modo le giovani generazioni del sud e del nord Italia, attratti dalle false aspettative del centro e nord Europa.

L’attitudine repressiva messa in atto dalla questura di Torino è un elemento che ha contraddistino i governi di ogni colore, da quelli di “sinistra” a gestione democratica fino a quelli di destra.
Allo stesso modo la tendenza a trattare i problemi sociali come problemi di ordine pubblico è un elemento proprio tanto della gestione pentastellata dell’amministrazione cittadina torinese, quanto di quella passata del Partito Democratico.
Ora che si è insediato il governo Draghi possiamo benissimo notare come questa “linea dura” non sia di fatto cambiata rispetto i precedenti governi. Dato palese di quello che ci aspetterà nei prossimi mesi.

I fatti contestati dalle misure cautelari arrivate a 37 ragazzi l’altra sera, sono quelli della manifestazione del 26 ottobre scorso in piazza Castello, quando sulla scia delle proteste di Napoli, anche la metropoli torinese aveva vissuto una notte intensa di scontri tra le vie “vetrina” del centro città.
La manifestazione che si svolse a Torino, in vista del secondo lockdown che toccò la nostra regione, fu una piazza variegata e per certi versi molto contraddittoria. Quello che certamente non possiamo trascurare è che alla chiamata del concentramento di Piazza Castello, prese parte una larga componente di giovani, spesso di seconda generazione, abitanti delle periferie laddove la mancanza di aiuti, di sostegno e l’assenza dello Stato è decisamente forte.
Tra i vari protagonisti della piazza del 26 ottobre vi fu certamente la rabbia di una generazione trascurata, confinata ai margini di una città che nel  tentativo di lasciarsi indietro il suo passato industriale si appresta a diventare sempre più una città vetrina, a formato di ricchi.
Tutto questo mentre il disagio sociale delle vecchie e nuove generazioni di migranti viene marginalizzato sempre più al di fuori del centro,  verso le periferia, rappresentazione plastica del fallimento di  un modello economico e sociale classista, elitario e sempre più escludente.

Un modello di sviluppo che ha mostrato tutti i suoi limiti e le sue storture con la crisi sanitaria del Coronavirus, nel momento in cui ha abbandonato le classi popolari di questo paese, spesso recluse ai margini delle grandi metropoli, lasciandole morire di Covid e di fame, senza mai mettere in campo nessun tipo di aiuto reale e concreto, ma concedendo, neanche troppo spesso, solamente briciole e misure di comodo.
L’esplosione sociale che ha colpito Napoli e poi successivamente altre città di Italia, tra cui il 26 ottobre Torino, è  figlia di una rabbia generalizzata verso uno Stato che fa solo gli interessi delle classi dominanti.
Ci troviamo di fronte a una classe dirigente assassina che da anni porta avanti il suo progetto di sogno europeo classista e basato sullo sfruttamento, scaricando tutto il peso e i costi di questo sogno, sulle spalle delle giovani generazioni e degli immigrati e che si aggraverà solamente col governo Draghi. La rabbia generalizzata che è esplosa quel 26 ottobre non è figlia diretta della pandemia da Covid, ma di più di trent’anni di tagli della spesa pubblica e di smantellamento dello stato sociale, di privatizzazione sfrenata e di abbandono delle classi popolari, di tutti quei fenomeni che questa crisi sanitaria, economica e sociale in atto non ha fatto altro che aggravare e rendere più evidente.

L’altra sera, a Torino, abbiamo visto mettersi in moto il meccanismo repressivo. Un meccanismo che nell’ingiunzione di pene legali arriva solamente al suo ultimo stadio, ma che in realtà inizia ben prima: dalla criminale e spropositata gestione dell’ordine pubblico, fino all’attivazione della macchina del fango e della propaganda intenta a dipingere quel disagio sociale come un fenomeno gestito e diretto dalla criminalità organizzata.
Una retorica, ad esempio, che punta il dito sulla vetrina frantumata di Gucci, mentre nasconde come in tutti questi anni abbiano infranto e devastato il futuro di chi ha spaccato quella vetrina.
La repressione messa in atto dalla questura di Torino fa parte di quella strategia ben nota e sistematicamente utilizzata dalla nostra classe dirigente, di intervenire nella società “con il bastone e con la carota”.
Da una parte elargendo le briciole e rivendicando di essere dalla parte di una popolazione che vive problematiche immense, senza mai però dimostrare la volontà politica di intervenire in maniera strutturale per risolvere le numerose contraddizioni di questa società; dall’altra parte bastonando, normalizzando e reprimendo il dissenso ogni qual volta quelle vittime di un sistema loro nemico provano ad alzare la testa per ottenere condizioni di vita migliori.

Tutti questi fenomeni danno il senso di una classe dirigente allo stesso modo in crisi, con il timore di non essere più in grado di gestire una situazione che è una polveriera.
I ragazzi delle periferie che oggi si trovano a subire pene severissime fanno parte di una generazione invisibile, che esiste solamente nel momento in cui vengono scaricati su di essa tutti i costi sociali della crisi in atto. Una generazione che prova una immensa rabbia per la mancanza di futuro e di prospettive di un modello di sviluppo fallimentare che in un momento come questo non è nemmeno in grado di garantire una vaccinazione di massa che permetterebbe di arginare, dopo un anno, la nuova ondata pandemica.

Contro questo modello criminale ogni giorno dovremmo organizzarci per resistere e combattere.
Per questo non possiamo che esprimere tutta la nostra solidarietà e complicità ai destinatari delle misure.
Davanti alla repressione non ci sono distinguo, ma soltanto due lati della barricata: noi abbiamo scelto il nostro.

Noi Restiamo Torino
OSA Torino