DIRITTO ALL’ABITARE: LA CRISI NELLA CRISI PER I GIOVANI! RIAPRIAMO UNA STAGIONE DI LOTTA PER LA CASA!

LE PROSPETTIVE GIOVANILI ALLA LUCE DELLA PANDEMIA

L’emergenza abitativa è una vera e propria emergenza sociale, che non ha fatto che aggravarsi dopo lo scoppio della pandemia da Covid-19, e che si è inevitabilmente andata a depositare sulle spalle già cariche delle nuove generazioni.
La pandemia ha fortemente alimentato la crisi di prospettive dei giovani, allontanando ulteriormente la possibilità di avere una propria indipendenza economica e, in generale, una stabilità futura. Se già con la crisi del 2008 queste aspettative sembravano realizzabili con non poche difficoltà, adesso appaiono come uno scenario ai limiti dell’utopistico, dimostrando così il carattere ormai regressivo del sistema capitalista, fase dalla quale non può più tornare indietro.
Il 2020 ha rappresentato un vero e proprio spartiacque, evidenziando chiaramente tutte le contraddizioni del modello che veniva spacciato per normalità.

In quanto universitari e giovani lavoratori precari siamo sempre stati al centro dell’economia delle città. Siamo la fascia di mercato del business degli affitti nei quartieri universitari, e della loro vita sociale, e siamo anche gran parte dei lavoratori che fanno le consegne o lavorano nei locali.

O meglio, eravamo.

Per la nostra generazione, infatti, la parola “crisi” è stata una costante che ha accompagnato la nostra crescita e, quella che stiamo vivendo adesso, si è portata via la vita, già di per sé precaria, a cui ci eravamo abituati.
Durante la prima ondata i più giovani sono stati tra i primi a perdere il posto di lavoro, perlopiù in nero, e non sono più riusciti a permettersi il costo dell’affitto o delle tasse universitarie. Nessun provvedimento, né a livello nazionale né regionale o comunale, li ha veramente tutelati nel momento in cui non sono più stati in grado di mantenersi.
Neanche il blocco degli sfratti è servito a garantire il diritto alla casa, essendo stati vari i casi in cui questo blocco formale si è rivelato facilmente aggirabile. Sono stati per esempio esclusi i casi di “finita locazione”, scelta che porterà presto allo sfratto principalmente di studenti e giovani lavoratori. A loro, infatti, a causa della costante precarietà lavorativa, i proprietari di casa tendono ad affittare un alloggio solo con contratti di tipo transitorio e di brevissima durata.

Chi non aveva un contratto e si è ritrovato senza lavoro è stato penalizzato in quanto lavoratore in nero e non ha avuto l’appoggio del welfare. A tanti studenti sono mancati i mezzi necessari per seguire dignitosamente la didattica a distanza, e molti fuorisede si sono trovati a dover gravare ulteriormente sulle spalle delle proprie famiglie in un momento già di per sé di grande difficolta.

È stata da subito data la priorità al profitto dei privati, non prevedendo un reale blocco o sospensione del pagamento di affitti e utenze, ma delegando la questione ai liberi accordi tra privati.
Il Governo nel periodo del lockdown si è limitato a fornire dei miseri risarcimenti, senza prevedere un piano strutturale per sostenere tutte le categorie danneggiate, e ad oggi questa situazione viene ancora definita, e trattata, come “emergenziale”.

I criteri fissati per accedere ai vari bonus, già di per sé insufficienti, sono stati fin troppo stringenti per la maggior parte dei potenziali beneficiari, in particolare tantissimi giovani, che ne sono stati di conseguenza tagliati fuori, e, come se non bastasse, le pratiche avviate si sono gradualmente arrestate anche a causa dei rallentamenti dovuti alla mancanza di personale per la loro gestione.

Il governo si è rivelato completamente cieco davanti ai numerosi affitti in nero che, specialmente nelle regioni del Sud, sono una condizione che colpisce soprattutto i giovani e in particolar modo gli universitari.
Adesso, a ormai più di un anno dallo scoppio dell’emergenza, siamo rimasti intrappolati in un limbo che sembra non avere via d’uscita.

CITTÀ E METROPOLI: LE RADICI STRUTTURALI DEL PROBLEMA

Il modello di sviluppo urbano che è stato portato avanti negli ultimi decenni ha letteralmente ridisegnato le città, rimodellandole al mero scopo di attirare capitali privati.
Questo obiettivo è stato portato avanti attraverso, ad esempio, una serie di tagli all’amministrazione, alla svendita dei servizi pubblici essenziali ad aziende private o al ripensamento degli spazi della città spacciato per riqualificazione e rigenerazione urbana.

Tutto questo senza badare minimamente alle vere necessità dei territori e di chi li vive. I progetti di “rigenerazione urbana” sono diventati, infatti, vettore della gentrificazione e della turistificazione forzata dei quartieri. Questo ha condotto ad una vera e propria espulsione degli abitanti, dovuta al rincaro degli affitti, ad esempio, o per il fatto che i locatari ormai prediligono sempre di più affittare i loro immobili ai turisti.

A causa di questo processo la disparità tra le diverse zone è diventata sempre più evidente.

Quando il privato si impone nell’economia, gli investimenti riguardano solo determinate parti della città. Le periferie sono letteralmente lasciate a loro stesse e mancano le basi per permettere a chi ci abita di avere una vita sociale, di lavorare e di studiare. Vengono lasciate a quello che viene definito “degrado”, tra criminalità, povertà dilagante e senso di abbandono generalizzato, per non parlare dell’inquinamento sempre più diffuso che mette a serio rischio la salute degli abitanti. È importante sottolineare però come questa non sia una condizione culturale, ma una diretta conseguenza di costrizioni materiali.

La periferia non è solamente un’area geografica, ma rappresenta parte integrante di un nuovo processo di urbanizzazione. Svolge ormai una funzione contenitiva delle fasce sociali più povere e non strategiche per il ciclo economico attuale, rivelandosi dunque una gabbia, soprattutto per i giovani, da cui uscire diventa sempre più difficile. Una gabbia fatta di precarietà lavorativa e di disoccupazione, conseguenze dovute alla flessibilizzazione del mondo del lavoro, che hanno portato ad un aumento esponenziale dei Neet.

Le condizioni delle giovani generazioni nel nostro paese sono, inoltre, strettamente connesse al luogo di nascita e proprio da queste disuguaglianze nasce il fenomeno della “fuga di cervelli”, un’emigrazione forzata di massa verso i paesi cardine dello sviluppo europeo, o dal Sud al Nord Italia. Ma i processi di emigrazione sono estendibili anche a quelli che avvengono all’interno delle stesse città, principalmente verso il “centro” produttivo.


Questo è possibile proprio perché le colonne portanti di quello che viene definito “ascensore sociale”, quali il lavoro e i titoli di studio, per chi vive in periferia vengono il più delle volte a mancare, privando così le giovani generazioni di qualsiasi prospettiva futura.

In questa chiave possiamo leggere le trasformazioni a cui le città dagli anni ‘90 vanno sempre più velocemente incontro: una sempre maggiore preponderanza dell’economia finanziaria, che ha individuato nello spazio della città un’opportunità di valorizzazione, a discapito di quella reale, una ricchezza sempre meno indirizzata al fattore lavoro e sempre più concentrata nelle mani dell’élite finanziaria, accentuando ancora di più le disuguaglianze.
Questa trasformazione dell’economia che ha portato ad un ripensamento delle città e del loro ruolo ha altresì creato un’alterazione delle condizioni in cui vivono gli studenti e i giovani lavoratori.

Questa trasformazione è ovviamente promossa e incoraggiata dall’Unione Europea, in quanto rappresentante degli interessi del capitale finanziario e delle grandi multinazionali, tramite pacchetti di riforme ben precise che sembrano riconfermare alcune tendenze. Si punta sempre di più a delle “città-vetrine”, svuotate dei loro abitanti e ripopolate da attori dinamici e più appetibili, come l’archetipo dello “studente-turista”. Questo processo, specialmente dopo lo scoppio della pandemia, è stato inevitabilmente accelerato dal maggiore spazio occupato dallo smartworking nel mercato del lavoro e delle varie trasformazioni digitali a cui abbiamo assistito nell’ultimo anno.

Viene spontaneo quindi chiedersi quanto terreno fertile stia trovando la speculazione immobiliare, una volta che molti uffici sono stati fisicamente “spostati”, e di conseguenza sono spariti dal centro delle città. Per non parlare di come il subentrare della didattica a distanza stia non solo modificando il mondo della formazione, ma venga anche sfoggiata come una “soluzione” alla mancanza di posti all’interno degli Studentati. Questo nuovo modello urbano viene definito intelligente, inclusivo e sostenibile. Anche il Recovery Fund, infatti, prevederà un piano nazionale dell’abitare e un fondo di investimenti per l’abitare basato sulla rigenerazione urbana, la ristrutturazione degli edifici in modo ecologico, e la ricerca di un equilibrio tra le zone edificate e le zone verdi; il tutto in conformità con il Green Deal EU.

Sul piano nazionale il governo nell’ultimo anno si è mosso in questa direzione, approvando il decreto interministeriale (Mit, Mibac) n. 395 del 16 settembre 2020 per l’attuazione del Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare (PINQUA). Tramite questo programma vengono assegnati 853,81 milioni di euro per riqualificare e incrementare il patrimonio pubblico, attraverso interventi congrui con gli obiettivi dell’Unione europea, ovvero quello di ricreare le cosiddette “Smart city”.

Questo disegno politico, voluto da tutto l’arco parlamentare, getta però le sue radici in tempi meno recenti, e che precedono lo scoppio dell’emergenza. Negli ultimi tempi abbiamo visto il patrimonio immobiliare soccombere sotto i soffocanti interessi del mercato speculativo, dalla legge 431/98 sulla liberalizzazione degli affitti, e in seguito dall’art.5 della legge Renzi-Lupi, alla privatizzazione delle utenze e ai continui tagli al settore pubblico.
Si è poi favorita una cementificazione selvaggia, senza occuparsi della sostenibilità ambientale, né tantomeno di quella sociale.

La totale assenza di investimenti di edilizia popolare ha, inoltre, portato ad un’edilizia residenziale pubblica totalmente inconsistente e inadeguata a sostenere le numerose famiglie bisognose e, di conseguenza, impossibilitata ad assicurare un futuro dignitoso alle giovani generazioni. Nel corso degli anni abbiamo visto misure come l’Equo canone venir abolite in nome del principio di autoregolazione del mercato. L’equo canone era stato introdotto in Italia dalla legge n. 392 del 27 luglio 1978, che stabiliva il valore locativo degli immobili in funzione di alcuni parametri. Questa misura è stata tuttavia abrogata dopo la legge n. 431 del 9 dicembre 1998, con cui si è di fatto rinunciato al controllo pubblico sui canoni di locazione e ignorato il ruolo calmieratore dell’edilizia popolare nel mercato degli affitti.

Anche per le utenze negli ultimi anni abbiamo assistito ad una forte privatizzazione del settore. Da inizio 2000 è in netta crescita il costo di tutte le utenze domestiche, le liberalizzazioni sono avvenute nel 2003 per quanto riguarda il gas e nel 2007 per l’elettricità, ma si tratta di un processo che trova le sue origini molto prima. Inoltre, con il passaggio al libero mercato, le famiglie si sono trovate a dover pagare di più, mentre le imprese di meno. La Liberalizzazione del mercato immobiliare assoggetta i prezzi della casa agli interessi delle grandi proprietà immobiliari. La Legge 431/98, in origine, era stata venduta come strumento regolatore del mercato immobiliare. Questo sarebbe dovuto avvenire attraverso la liberalizzazione dei canoni, gli incentivi fiscali per i proprietari e il bonus casa per gli inquilini a basso reddito. Ma, come era prevedibile, il vero scopo della riforma si è presto svelato e la liberalizzazione dei canoni ha soltanto comportato un aumento insostenibile del costo degli affitti, nonché tantissimi sfratti.

Una riforma successiva, oltre che inconcepibile, è quella sancita dall’Articolo 5 del Piano Casa Renzi-Lupi del 2014. Questo articolo vieta la residenza e l’allaccio delle utenze a chi ha occupato immobili e alloggi, anche se in condizione di necessità, ostacolando quindi i meccanismi di regolarizzazione degli inquilini senza titolo nel patrimonio residenziale pubblico. L’articolo ha inoltre prodotto forti conseguenze in termini di accessibilità a servizi essenziali come scuola e sanità, dimostrandosi un ostacolo rispetto all’accesso al welfare, nonché una forte ondata di repressione.

Davanti a questo scenario disastroso, che non sta facendo che peggiorare dopo lo scoppio dall’emergenza, continuano a venirci proposte soluzioni edilizie hi-tech e “verdi” guidate da gruppi di speculazione privati e che puntano ad un pubblico di turisti e studenti d’élite, ed escludono le fasce popolari. Come conseguenza di queste scelte politiche, ad oggi, nelle città segnate dall’assenza di turisti e studenti, stanno proliferando gli acquirenti stranieri sullo sfitto turistico o rimasto vuoto.
La pandemia ha difatti inflitto un duro colpo all’economia delle città, riducendo di conseguenza la domanda immobiliare in arrivo da turisti e studenti, che sono il vero e proprio motore delle realizzazioni delle opere avviate negli ultimi tempi.
In molte città da anni ormai troviamo strutture fatiscenti come residenze di lusso, hotel prestigiosi e costosissimi alloggi studenteschi (primo fra tutti The Student Hotel).

Queste strutture sono rivolte alle fasce abbienti della popolazione e hanno ovviamente prezzi proibitivi, creando così una netta divisione tra chi può accedere a beni e servizi e chi no. In questo ambito è emblematico il caso di Firenze, sono infatti svariati i nomi dei gruppi stranieri che stanno facendo investimenti immobiliari nel capoluogo toscano, che è solo una delle città profondamente turistificate presenti in Italia. A questo aspetto, già di per sé irresistibile per la speculazione estera, si aggiunge la presenza di tanti immobili vuoti da recuperare e rigenerare, che si scontra con le carenze infrastrutturali, le difficoltà autorizzative e l’incertezza normativa che stanno lasciando libero spazio agli investitori stranieri di agire indisturbati nella città.

Assistiamo ancora una volta a come, nonostante il momento critico e in cui vediamo riaccendersi il dibattito sul riuso del patrimonio inutilizzato, invece di destinare questi beni immobili al servizio della collettività si scelga di favorire gli interessi della grande borghesia internazionale.

QUALE SPAZIO PER GLI STUDENTI?

Gli studenti universitari sono circa 1,7 milioni. Tra chi vive in famiglia: 284 mila (17%) abitano nella stessa città dove studiano, mentre il 49,8% frequenta l’ateneo da pendolare. I fuori sede raggiungono i 570 mila (33,5%).
Per un appartamento in condivisione (spesso in nero), tra vitto e alloggio, si arriva a spendere mediamente 650 euro al mese. Per quanto riguarda gli Studentati, gli affitti in media si aggirano intorno ai 200-250 euro al mese, in linea con il resto d’Europa, ma la differenza sta nei posti disponibili.

I posti a disposizione in Italia negli alloggi per il diritto allo studio e nei collegi universitari sono poco più di 48 mila.
I posti vengono assegnati tramite bando di concorso agli studenti con un reddito famigliare Isee sotto i 18 mila euro che si sono aggiudicati la borsa di studio da 5.200 euro.

La priorità di accesso è riservata a chi ha un reddito basso ed è considerato “meritevole”, poi vengono tutti gli altri.
Di fatto riesce ad entrare in uno Studentato solo il 3% della popolazione universitaria totale, contro la media europea del 18%. E anche tra chi ha diritto ad un alloggio per motivi di reddito, solo uno studente su tre riesce ad ottenerlo.
Proprio per costruire più Studentati è stata fatta una legge, la legge 338 del 14 novembre 2000. Questa legge prevede un cofinanziamento pubblico fino al 50% alle università e agli enti per il diritto allo studio per interventi mirati alla realizzazione, o ristrutturazione, di alloggi e residenze per studenti universitari, e per la gestione delle residenze nel rispetto degli standard abitativi.

I soldi li dispone il ministero dell’Istruzione, dopodiché una commissione esamina i progetti che hanno partecipato al bando pubblico, infine un decreto stabilisce la graduatoria di chi riceverà i fondi. Non si tratta però di edilizia propriamente pubblica, nonostante i soldi lo siano. Sono molte, infatti, le fondazioni private che hanno usufruito dei finanziamenti del bando, e non si tratta, nella maggior parte dei casi, di nuove costruzioni ma piuttosto di ristrutturazioni, abbattimento delle barriere architettoniche o adeguamenti.

Il mondo della formazione e della ricerca è legato a doppio filo agli interessi e agli obiettivi della classe economica e politica dominante, che si dipinge in veste smart con l’obiettivo di formare i lavoratori, in particolare la classe dirigente, del domani fornendogli uno specifico bagaglio basato su competenze, lifelong learning e autoimprenditorialità.
Oggi, dopo ormai trent’anni di snaturamento del ruolo che l’alta formazione dovrebbe occupare, ci ritroviamo di fronte ad un processo che persegue una privatizzazione incessante e una vera e propria aziendalizzazione dell’Università, istigando così la competizione tra studenti e l’individualismo più estremo. Questo si traduce in uno scenario di concorrenzialità tra gli atenei, dove le “eccellenze” vengono premiate attraverso l’erogazione di maggiori fondi; da qui la dicotomia tra gli atenei considerati di serie A e quelli di serie B.

L’ABBANDONO DELLO STATO: FRA REGIONALIZZAZIONI E LIBERO MERCATO

L’istituzione delle Regioni negli anni ’70 ha prodotto una regionalizzazione del welfare e dei servizi, come sanità e istruzione. Successivamente, negli anni ’90, alcune materie sono passate da legislazione statale a quella regionale, infine nel 2001 è stato riformato il Titolo V della Costituzione che ha permesso alle Regioni a statuto ordinario di gestire autonomamente alcune materie.

Attraverso questo processo le regioni potranno mantenere sul proprio territorio il gettito fiscale (dato che non verrà del tutto versato allo Stato ma verrà mantenuto dalle Regioni stesse per far fronte alle spese delle varie materie) e avere potere decisionale su una serie di competenze fondamentali, come la sanità, l’istruzione e l’ambiente. Questo processo ha legittimato e istituzionalizzato le diseguaglianze generate da questo modello di sviluppo, poiché le regioni più ricche, come Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto che non a caso sono anche le maggiori sostenitrici della cosiddetta autonomia differenziata, potranno disporre di una quantità maggiore di risorse.

L’università è una delle colonne portanti di questo disegno politico. Il processo di regionalizzazione avviato negli scorsi anni prevede, infatti, ampie competenze nell’ambito dell’alta formazione e del welfare studentesco, nonché lo stanziamento regionale del 40% del FIS (Fondo Integrativo Statale). La gestione regionale dei servizi dedicati al diritto allo studio, come alloggi studenteschi e mense, ha causato da un lato l’aumento esponenziale delle tasse universitarie e dall’altro ha inficiato negativamente sui servizi erogati e la qualità della didattica. Tutto ciò ha diminuito l’accessibilità all’alta formazione, determinandone una progressiva elitarizzazione.

Questo aumento delle competenze normative ed amministrative delle Regioni coinvolge a pieno anche l’ambito abitativo. Dopo la Riforma del titolo V abbiamo da un lato visto, infatti, il patrimonio immobiliare pubblico venir progressivamente dismesso, e dall’altro il prezzo del canone degli affitti lievitare a causa della liberalizzazione del mercato immobiliare.

In un mercato degli affitti in forte crescita ma anche particolarmente complesso come quello italiano, in cui vediamo la speculazione immobiliare agire indisturbata, esistono inoltre diverse categorie di contratto.
Per l’affitto di abitazioni si hanno due opzioni principali: contratto a canone libero e contratto a canone concordato. Le due tipologie differiscono per durata e canone.

Il canone concordato riguarda le proprietà di privati concesse in affitto ad uso abitativo, transitorio, a studenti universitari.
L’importo del canone deve essere compreso in una fascia tra un valore minimo e uno massimo come stabilito negli accordi territoriali (convenzioni locali tra organizzazioni di proprietari e inquilini). All’interno degli accordi territoriali sono stabilite tutte le indicazioni utili al calcolo del canone sulla base di precisi parametri. Questo rappresenta la principale differenza con il canone libero, che invece prevede la libera contrattazione tra privati e segue i prezzi di mercato. In genere, il canone concordato dovrebbe essere più basso rispetto ai prezzi di mercato, spesso inaccessibili, soprattutto nelle grandi città come Milano e Roma.

La maggioranza degli accordi vengono firmati tra associazioni di proprietari e associazioni d’inquilini, che fanno principalmente riferimento ai sindacati confederali. Il prezzo medio a metro quadrato va dagli 89 € all’anno in città come Napoli a 100-200€ per Roma o Milano. A queste cifre vanno inoltre aggiunti parametri di aumento dal 50% al 125% per servizi minimi come classi energetiche D, ascensore, finestre e porte blindate. I “lussi” come androni condominiali, vista sulla strada principale o cortili interni possono addirittura arrivare a triplicare il costo del canone.

È importante sottolineare, inoltre, come negli ultimi dieci anni il valore degli immobili sia sceso mediamente del 30%, ma il prezzo degli affitti abbia continuato ad aumentare nonostante il nostro paese abbia affrontato una crisi che ha coinvolto l’intero sistema economico e, di conseguenza, il panorama abitativo.
Per tutta risposta i sindacati confederali degli inquilini hanno assecondato questo processo, presentando un accordo già concordato con i proprietari che prevede ancora forti aumenti degli affitti e norme capestro, dimostrando ancora una volta come la loro priorità sia difendere ad ogni costo il tornaconto dei proprietari, a danno degli inquilini che dovrebbero rappresentare.

I livelli dei canoni di locazione sul mercato privato, quindi, non sono affatto calati e gli stessi canoni concordati sono spesso superiori a quelli del libero mercato. Questa modalità di discutere il tema degli affitti ha sottratto definitivamente agli inquilini l’unico strumento previsto dalla L. 431/98, quello degli accordi territoriali, che doveva almeno tentare di mantenere una percentuale del patrimonio abitativo a prezzi contenuti

PER L’INDIPENDENZA DEI GIOVANI: CONQUISTIAMO IL DIRITTO ALL’ABITARE PER TUTTI!

Di fronte a questo scenario complesso, per non dire ai limiti, dell’attuale assetto sociale, è ormai palese il carattere totalmente regressivo del sistema economico capitalista. La pandemia non ha fatto che rendere più evidenti tutti i limiti e le storture del modello sociale corrente.

È evidente anche quanto il grande problema del diritto all’abitare richieda necessariamente un cambio radicale di sistema. L’enorme contraddizione delle prospettive future per le giovani generazioni è, infatti, la dimostrazione che si è arrivati ad un capolinea che richiede inevitabilmente un ribaltamento del presente. Il tema abitativo, in questo senso, rappresenta a pieno l’assenza di prospettive future dei giovani e, per questo, costituisce un terreno di lotta interessante che apre le porte ad un bacino enorme di giovani (Neet e non) dei quartieri periferici che vivono nell’impossibilità di un’indipendenza economica e abitativa, ma che potenzialmente potrebbe svolgere anche una funzione ricompositiva, dagli studenti universitari, ai Neet, ai giovani lavoratori.

Come organizzazione giovanile comunista inquadrare il tema abitativo e saperlo declinare nel contesto presente risulta fondamentale, per questo individuiamo due binari di proposte al riguardo: uno specifico per il primo periodo emergenziale ed uno che guardi al futuro delle nuove generazioni.

A più di un anno dallo scoppio della pandemia, la ricetta emergenziale del blocco affitti e utenze non è più sufficiente, ma il perdurare delle restrizioni sanitarie impongono oggi la cancellazione di ogni debito per il mancato pagamento di quegli affitti e di quelle utenze, per mettere fine ai numerosi sfratti, sgomberi e pignoramenti previsti, compresi i casi di finita locazione, proprio perché riguardano le tipologie di contratto a breve termine che maggiormente sono costretti a stipulare i giovani lavoratori e gli studenti fuori sede. Bisogna inoltre attenzionare anche i casi di affitto in nero che rimangono esclusi da ogni tutela come il blocco degli sfratti, casi di affitto particolarmente diffusi tra gli studenti fuori sede e nelle grandi città metropolitane.

Da questo periodo, tuttavia, è necessario aprire una nuova stagione di politiche abitative, con una particolare attenzione per quanto riguarda le giovani generazioni, che partano non dal profitto ma dal diritto allo studio, all’abitare e al futuro. Per i giovani un primo scoglio è il vincolo all’isee familiare, ostacolo nell’accesso ai bandi per il diritto allo studio e alle case popolari, ma anche a tutte le forme di welfare.
È cruciale superare l’isee familiare ed incentivare l’indipendenza economica giovanile, considerando la fase di transizione in relazione alle condizioni del mercato del lavoro (precario e a nero) e dell’alto costo degli studi. In questo senso è indispensabile ristabilire nell’ambito abitativo il ruolo centrale dello Stato sul piano nazionale, e non lasciandolo più alle singole regioni.

È necessario prevedere un nuovo piano di Edilizia Residenziale Pubblica, che permetta la costruzione di più case e la ristrutturazione di quelle già edificate, in modo da ridare finalmente dignità al patrimonio residenziale pubblico in periferia, ma anche costituendo un’alternativa alle infinite condizioni di affitto in nero. Anche il “centro” deve essere popolare: Bisogna destinare i numerosi edifici inutilizzati del centro all’Edilizia Residenziale Pubblica e incentivare l’accesso dei giovani alle case popolari, superando anche la visione negativa e respingente della funzione del pubblico.

È fondamentale trattare il tema delle residenze universitarie pubbliche a livello nazionale, superando gli enti regionali, sia come garanzia di diritto allo studio (MUR) che di diritto all’abitare (MIMS). Investire per maggiori posti negli studentati pubblici, recuperando il patrimonio inutilizzato anche privato, garantire l’accesso ai bandi ed imporre la gratuità, eliminare i finanziamenti a società e aziende di servizi private, bloccare la possibilità di stipulare convenzioni tra le Università e i residence o gli hotel privati e fermare il proliferare degli studentati di lusso come il The Student Hotel.

Bisogna mettere un freno ai continui tagli al settore pubblico, che permettono ai privati di controllare l’economia e di speculare sulle spalle delle famiglie e dei giovani, abolendo la legge 431/98 sulla liberalizzazione degli alloggi. È cruciale ristabilire un equo canone a livello nazionale che tenga conto del periodo di crisi, ma soprattutto del reddito degli inquilini, istituendo inoltre la specificità giovanile che tenga conto, dunque, del costo degli studi e della precarietà lavorativa.
Eravamo la generazione “in affitto” e del “coinquilinaggio”, ora una generazione in bilico sul filo di un rasoio. Pretendiamo un’inversione di rotta che prenda finalmente in considerazione le nostre condizioni e che metta le basi per permetterci di costruirci una nostra indipendenza.