NOI NON CI ARRUOLIAMO! DALLE UNIVERSITA’ AI TEATRI DI GUERRA: BLOCCHIAMO LA FILIERA DELLA MORTE!

La guerra infracapitalista con alleanze a geometrie variabili tra diversi poli in competizione tra loro, è passata negli ultimi anni da una sempre più feroce guerra commerciale, finanziaria e monetaria alla vera e propria guerra guerreggiata in Ucraina, alle porte dell’Europa.

E’ necessario chiarire da subito che la guerra in Ucraina è cominciata ben prima dell’invasione Russa dello scorso 24 febbraio, per una corretta ricostruzione degli eventi bisogna risalire almeno a otto anni fa, all’epoca del golpe di EuroMaidan orchestrato dagli imperialismi USA e UE che ha trascinato l’Ucraina in una guerra civile (costata ad oggi più di 14.000 morti) contro la regione del Donbass.

Ciò nonostante nella percezione comune domina un’interpretazione ribaltata della realtà in cui le “democrazie occidentali” vengono dipinte come vittime. Questa mistificazione non è solo il prodotto recente di un propaganda di guerra trasmessa a reti unificate dai mezzi d’informazione mainstream, ma rivela anche il consolidamento di una cultura sciovinista europea coltivata in decenni di lavoro delle classi dirigenti europee e dei loro terminali locali.

In questo quadro è allarmante il marcato contributo – salvo rarissime eccezioni – degli intelettuali, del mondo artistico e accademico all’interventismo mascherato da pacifismo 2.0. Applicando un ipocrita doppio standard tra guerre di serie A e guerre di serie B si sostiene la necessità della presa di posizione netta: censura, limitazione dell’agibilità politica e democratica, accettazione della torsione autoritaria, ostracismo culturale russofobico e interruzione di ogni canale di relazione con “il nemico” sono gli strumenti con cui anche il mondo della cultura si arruola al servizio del nostro imperialismo trascinandoci verso una guerra generalizzata, oltre alla creazione di una legittimazione strisciante di episodi di violenza quotidiani che rischiano di sfociare in veri e propri pogrom.

Ma oltre l’ideologia c’è di più, infatti, ora più che mai emergono esplicitamente le strettissime relazioni tra i poli dell’alta formazione e l’apparato militare-industriale europeo. Una tendenza che da anni denunciamo indicando la funzione che la ricerca pubblica svolge al servizio di scopi bellici e militari: da accordi di ricerca a patti di committenza e collaborazione assistiamo all’entrata nei nostri atenei di aziende private, organi nazionali e sovranazionali che detengono una funzione militare e legano ad essa quella che dovrebbe essere una ricerca pubblica volta invece al bene collettivo. Com’è possibile che questo si verifichi? A quali conseguenze porta?

Di questo sapere piegato alla guerra e alla morte avevamo avuto un esempio con i recenti accordi firmati tra Politecnico di Torino e Frontex (Agenzia Europea di guardia di costiera e di frontiera), accordi simili erano già presenti in altre università del Paese: Salento, Sassari, Bologna, Bari, Venezia e il Politecnico di Milano. Esistono poi rapporti diretti con la NATO, ad esempio con le Università di Genova e Bologna. Fino ad arrivare ai progetti portati avanti dal colosso della tecnologia militare Leonardo (accordi presenti in varie forme in moltissimi atenei della penisola e anche con Istituti Tecnici Superiori) e accordi bilaterali di ricerca con Israele e finanziamenti dello stesso Pentagono.

In tutto questo le stesse relazioni internazionali (con la presenza nella NATO e i rapporti con gli USA e Israele all’interno delle Università) hanno un ruolo chiave, per una competizione globale sempre più accentuata e una politica di potenza che è insita nel modello di sviluppo dominante, in una fase in cui l’Unione Europea mira a configurarsi sempre più come soggetto autonomo e dove l’innovazione tecnologica diventa punta d’avanguardia dei vari attori in gioco.

Infatti a livello europeo, se l’innovazione e la ricerca militare diventano punta d’avanguardia per la competizione, l’università si inserisce in quella filiera produttiva che, tramite i grandi competitor, va a rafforzare il polo europeo all’interno dello scacchiere globale. Non a caso nel consiglio Europeo del 16 dicembre, anche in relazione a una riorganizzazione economica europea in atto col Next Generation Eu e a nuovi ‘’equilibri’’ nello scacchiere globale, veniva evidenziato proprio il ruolo cruciale di un rafforzamento militare dell’UE a livello mondiale, ben da prima del conflitto in Ucraina.
L’istituzione dell’European Defence Fund è la precisa concretizzazione di questi processi ed indica bene non solo una direzione sempre più accentuata presente già da prima del conflitto, ma il ruolo chiave che la ricerca pubblica universitaria gioca in questa partita, ovvero 8 miliardi di euro di fondi stanziati per il periodo 2021-2027 dall’Unione Europea per incentivare la ricerca militare a scopo di difesa e l’industria legata ad essa. Cifre che sono destinate ad aumentare dopo l’accelerazione delle ultime settimane.

Un ruolo importante lo svolgono inoltre all’interno di queste dinamiche tutte quelle aziende del comparto bellico che, come delle vere e proprie lobby, rafforzano la collaborazione con le università e sempre di più compiono ingerenze nei meccanismi decisionali.

Su questo un ottimo esempio è la Leonardo s.p.a che ha rafforzato entrambi questi aspetti. Sono presenti infatti dei Leonardo Labs che, in collaborazione con i centri di ricerca universitari, sviluppano nuove tecnologie e brevetti che verranno utilizzati nella produzione bellica; la stessa azienda inoltre stringe collaborazioni con i nascenti ITS, su cui il governo Draghi ha messo in chiaro la necessità di riforme e investimenti.

Non è un caso, infatti, che diversi dirigenti di Leonardo abbiano ricoperto importanti funzioni governative: primo fra tutti Minniti, oggi alla guida di una fondazione di Leonardo che continua a stringere patti con il governo e che ha rivestito la carica di Ministro dell’interno, dove la sicurezza europea delle frontiere del mediterraneo ha fatto un grosso passo avanti: rafforzamento dei patti con i tagliagola libici e potenziamento delle agenzie di protezione dei confini. Oggi, invece, abbiamo Cingolani al ministero della transizione ecologica, pronto ad utilizzare la fetta più grande del Recovery Plan per il rafforzamento degli interessi strategici dell’Unione Europea e degli interessi dei potentati economici di cui si fa portatrice.

Un aspetto da non sottovalutare inoltre è il tipo di ricerca che si nasconde dietro questo progetto scientifico di rafforzamento bellico (ovvero quei tipi di ricerca individuati come ”dual use”). È facilmente verificabile che i progetti con cui questi attori si stringono alle università non si chiamano “Bando di ricerca per la produzione di bombe sterminatrici”, oppure “studio dell’Intelligenza artificiale per i droni da guerra” ma spesso si nascondono dietro a bandi e ricerche che presentano superficialmente fini completamente diversi: ovvero una ricerca militare spacciata per uso civile.

È il caso, ad esempio, del Centro Euro-Mediterraneo per il Cambiamento Climatico, con importanti sedi di ricerca a Bologna e Lecce: dietro questi studi si nascondono infatti le collaborazioni con Frontex ed Israele, insieme al Centro Italiano per la Ricerca Aerospaziale e a tante Università della nostra penisola. Un altro esempio è la fondazione Bruno Kessler, Fondazione che collabora con Leonardo e con l’università di Haifa (che in Israele è la punta della ricerca bellica) e che figura come partner in diversi progetti per l’intelligenza artificiale, per le strategie di gestione per le rotte migratorie, e così via.

L’attuale modello universitario non presenta nessuna differenza infatti fra ricerca bellica e ricerca civile, in quanto tutta la ricerca sfruttabile viene indirizzata a scopi bellici – purtroppo, spesso c’è poca trasparenza in questo senso, anche verso le migliaia di ricercatori e di professori che in questi centri pubblici lavorano in buona fede. Questi si inseriscono perfettamente in quella filiera produttiva che, in tempi di emersione dello scontro, viene immediatamente indirizzata verso le esigenze di difesa strategica, trasformandosi in una vera e propria filiera della morte che collabora alla devastazione e destabilizzazione di moltissimi paesi in giro per il mondo, con guerre che ben prima del conflitto ucraino erano taciute dai media e portate avanti nel falso nome dei diritti e della democrazia da parte dell’occidente.

L’alveo all’interno del quale tutto questo si svolge è proprio quell’Unione Europea che negli ultimi trent’anni si è configurata come l’edificazione politica a difesa di potentati economici e lobby militari. È importante ribadire quindi l’impossibilità di coesistenza che c’è tra l’idea di ricerca pubblica a servizio della società e la filiera della guerra a cui oggi le università concorrono. Né tantomeno può sussistere un’università pubblica ed emancipatrice all’interno della cornice politica dell’Unione Europea e delle sue strategie di difesa militare che nei prossimi anni verranno implementate, a maggior ragione dopo questa escalation ai confini orientali.

Questa rapida, e non esaustiva, panoramica vuole concentrare l’attenzione sulla tendenza alla guerra che in questi decenni è stata portata avanti, sottolineando il ruolo dell’Unione Europea che sfrutta crisi e guerre per accelerare il processo di strutturazione in superstato imperialista, un progetto che vede nell’alta formazione un asset strategico.

È necessario quindi portare avanti percorsi che puntino a interrompere qualsiasi tipo di relazione con ambiti bellici e apparati militari. Denunciando l’utilizzo e la finalità che i progetti di ricerca, i percorsi curricolari e i dottorati con queste imprese e con questi bandi assumono, soprattutto con una guerra alle porte di casa in cui il nostro paese, l’UE e la NATO giocano un ruolo protagonista. Non possiamo tollerare che il nostro sapere sia messo al servizio degli attori di morte e della guerra!

Marzo 2022