GIOVANI IN CRISI PER LA CRISI DI UNA SOCIETÀ
Introduzione e finalità del documento
Se c’è una cosa che fa sentire impotente una persona è l’idea di essere solo contro un mondo che minaccia, e questo sentimento di impotenza deteriora l’animo e fa sì che il singolo si esuli sempre più dalla collettività. Parlare di crisi dei giovani all’interno di un mondo in crisi, devastato da pandemie e guerre, è oggi più che mai necessario. Inquadrare il fenomeno della crisi giovanile, capire perché il consumo di psicofarmaci sia aumentato, perché determinate diagnosi siano in aumento significa capire i giovani, capire che è sì vero che le crisi sono dovute a cause talvolta familiari e predisposizioni individuali, ma è anche vero che in un mondo dove la precarietà è dilagante, il carovita alle stelle e il futuro è sempre più vissuto come un avvenire doloroso anziché carico di speranze, il giovane si sente solo, abbandonato, frustrato. è qui che serve l’organizzazione. l’organizzazione deve raccogliere i pezzi di un sistema che oramai si sta sgretolando sotto i nostri occhi, i cui valori, come “l’individualismo”, “la logica del profitto”, “il dover prevaricare sugli altri ad ogni costo con ogni mezzo”, trovano poco terreno fertile dinanzi al sempre più dilagante bisogno dei giovani di essere parte della comunità, di essere solidali, appunto, di organizzarsi. il fine di questo documento è dunque quello di individuare le cause della dilagante “emergenza della crisi psicologica”, trovarne una quadra, e perché no, indicarne le possibili soluzioni in quanto giovanile comunista.
Il documento è stato progettato per la discussione che si terrà in occasione dell’Assemblea Nazionale Universitaria del 4 e 5 marzo 2023.
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Inquadramento storico del fenomeno
Quando si parla di disagio psicologico va subito chiarito il suo carattere di classe e il fatto che il cambiamento delle condizioni storiche e materiali modificano il modo in cui esso si manifesta e per questo, la complessità di fattori che generano o influenzano le condizioni psicologiche delle varie classi sociali. Per quanto i fattori individuali non siano trascurabili, essi si sviluppano in una cornice e in un contesto ben preciso, che bisogna e si può cambiare.
Schematicamente cerchiamo di delineare le fasi principali che portano al contesto attuale. I cambiamenti nel mercato del lavoro e nella scuola che si sono susseguiti, soprattutto negli ultimi trent’anni, hanno modificato profondamente le prospettive di vita.
Negli anni ‘50 e ‘60, con il fordismo-keynesismo, la fabbrica organizzava la società e la rosa delle scelte di vita era limitata. Per questo le scelte di vita erano standardizzate e il livello di rischio era minimo. Le lotte degli anni ‘60 e ‘70 hanno messo in discussione questo modello, ma ciò che ha modificato in maniera più significativa le prospettive di vita è stata la crisi economica degli anni ‘70, che ha dato inizio ai caratteri regressivi della nostra fase storica, sanciti poi con la caduta di tutto il campo socialista, e caratterizzata da flessibilizzazione del mercato del lavoro, alla precarizzazione, alla liberalizzazione del mercato. La deregolamentazione ha indebolito i livelli di sicurezza connessi al mercato del lavoro e al reddito, oltre che ai sistemi di welfare. Con la crisi del 2008 si dà poi inizio alla fase economicamente discendente che ancora oggi viviamo, che vede ridursi qualsiasi possibilità di emancipazione, la crisi di quella che una volta veniva venduta come “la società del benessere” e, per le giovani generazioni una crisi di prospettive che, accompagnandosi alla costruzione del mito del successo individuale, genera un clima di ansia soprattutto tra le classi popolari, che vedono demolite le loro aspettative.
A ciò si deve aggiungere un dato importante, ovvero il fatto che siamo una generazione cresciuta nella crisi. La crisi ecologica ha aperto nei giovani una sensazione di incertezza riguardo il loro futuro, e la pandemia ha instillato un senso di isolamento che ha accresciuto i livelli di ansia. La guerra, infine, ha peggiorato una situazione già sufficientemente grave. Infatti, oltre alla crisi economica c’è da considerare quella che da tempo definiamo una crisi di civiltà del capitalismo che genera un imbarbarimento sociale e culturale generalizzato: l’esasperazione del ‘tutti contro tutti’, dell’individualismo e della competizione, di fronte al costante peggioramento delle condizioni materiali, porta alla disintegrazione delle relazioni sociali e, dunque, ad un tessuto sociale disgregato in cui qualsiasi malessere è interiorizzato ed accentuato.
Il ruolo dell’istruzione nella crisi generale di prospettive
Il ruolo strategico dell’istruzione era già stato individuato da Marx nel Capitale, dove parla dell’istruzione <<teorica, tecnologica e pratica>> come necessità della grande industria per formare una forza lavoro mobile e versatile. Con il passaggio da un’economia industriale ad un’economia della conoscenza si è esplicitato il collegamento tra istruzione e progresso economico, e questo ha comportato che la scuola e l’università diventassero veicoli di un apprendimento rivolto alla formazione diretta della forza lavoro necessaria in questa fase. Di conseguenza, la competizione e la precarietà che caratterizzano il mercato del lavoro si sono riversate sulle università.
Le università sono inoltre il terreno di indottrinamento della nuova classe dirigente, che viene accuratamente scelta tra gli studenti migliori degli atenei strategici. Questo determina un’ipercompetizione tra gli studenti, che viene alimentata dalla narrazione tossica che elogia l’eccellenza. Le storie di studenti che si laureano prima del tempo con voti eccellenti vengono costantemente propinate dai media, gli stessi media che compatiscono gli universitari che, schiacciati dalla logica del merito, si tolgono la vita. La retorica tossica del merito può mettere in ginocchio chi ha bisogno di più tempo, sia a causa di difficoltà nell’apprendimento sia a causa di necessità di lavorare.
La competizione tra studenti e la conseguente valutazione sono le priorità della nostra classe dirigente, che punta a formare i futuri sfruttati. Infatti, è evidente che non tutti gli studenti partano dalle stesse condizioni, e che coloro che provengano da famiglie agiate abbiano più possibilità di raggiungere il “successo”, mentre quelli che provengono dalle classi popolari sono quelli che verranno schiacciati dalla competizione. Questo perché chi proviene da famiglie benestanti spesso gode di un sostegno economico e psicologico che permette di “raggiungere gli obiettivi” in tempo ed eccellere, mentre chi non ne gode rimane indietro.
A ciò va aggiunto un dato importante, ovvero il fatto che gli studenti che non riescono a stare al passo con il loro percorso di studi vengono penalizzati sia a livello economico che accademico: i fuorisede perdono il diritto di pagare le tasse secondo il reddito del proprio nucleo familiare, dal secondo anno devono pagare una mora di 100 euro e perdono i punti bonus che possono essere assegnati in sede di discussione della tesi. Nel caso di studenti provenienti da classi popolari e lavoratori, che spesso non riescono a beneficiare di borse di studio e collaborazione a causa degli stringenti criteri di merito, questo può aggravare una situazione economica già critica, generando ansia.
Bisogna evidenziare il fatto che la competizione non si limiti ai singoli studenti, ma riguarda anche le facoltà e gli atenei stessi. Da una parte le facoltà STEM sono quelle più finanziate da privati, in quanto hanno un ruolo strategico nel sistema produttivo. Di conseguenza, gli studenti delle facoltà scientifiche spesso godono di borse di studio aggiuntive rispetto a quelle erogate dagli enti regionali. Questo può causare in primis una colpevolizzazione degli studenti che scelgono altre facoltà, e poi può far sì che degli studenti che hanno necessità economiche scelgano un corso di studi non in base ai propri interessi ma in prospettiva dei vantaggi economici che queste possono portare.
Dall’altra parte anche gli atenei sono in costante competizione, in quanto i sistemi di finanziamento si basano quasi interamente sulla loro performatività.
L’aumento dell’alienazione dei giovani accresce i problemi di salute mentale
Ad accrescere ulteriormente le problematiche derivanti da questa situazione è senza dubbio un sistema universitario che non tiene assolutamente in considerazione lo studente come un individuo ma che lo vede piuttosto come un numero utile per far salire le statistiche. È evidente quindi come le università abbiano perso totalmente il loro ruolo di spazi atti all’emancipazione dell’individuo e della comunità sociale e si siano trasformate ormai in meri esamifici, e di conseguenza lo studente altro non può essere che un soggetto che si approccia passivamente allo studio, rinunciando a ogni intento di riflessione critica. A questo si accompagna una sempre minore possibilità di accedere a spazi di aggregazione all’interno delle aree universitarie: a cosa servirebbero infatti, nell’università dell’eccellenza, spazi costosi che altro non offrono che distrazioni dallo studio agli studenti, oltre ad avere un significativo peso sul bilancio?
Tutte queste dinamiche portano lo studente a sviluppare un senso di alienazione e di isolamento all’interno dell’ambito accademico, in cui i compagni di corso non vengono visti come altri individui che condividono uno stesso percorso con le stesse difficoltà, quanto piuttosto come dei soggetti rivali nella grande dinamica competitiva interna ai percorsi universitari. Vediamo quindi come l’inserirsi all’interno di un ambiente universitario può aggravare una situazione di disagio psicologico già esistente per vari motivi: intraprendere un percorso di studio di tipo universitario implica ormai il tenere in considerazione non solo le possibilità economiche del proprio nucleo familiare ma anche la propria capacità di resistere alle continue pressioni dovute agli stringenti criteri di merito, oltre all’incertezza per il futuro che porta a vedere gli altri come persone da battere per potersi garantire un futuro dignitoso e di conseguenza a un totale isolamento, al non poter trovare (ma soprattutto al non poter cercare) una qualche forma di supporto umano all’interno della situazione.
Gli effetti della crisi sui giovani
Gli effetti di quanto detto fin’ora sono osservabili nel crescente numero di diagnosi fra i giovani di disturbi debilitanti quali, nella fattispecie specifica da noi analizzati, i DCA e il disturbo depressivo. Capirli serve a capire lo stato in cui riversano moltissimi dei nostri coetanei, per capire come organizzazione cosa possiamo fare a riguardo e come.
–DCA (disturbi del comportamento alimentare)
Prima di discutere sul perché bisogna parlare di DCA, bisogna ben inquadrare il fenomeno.
I DCA sono patologie che si manifestano attraverso un’alterazione delle abitudini alimentari e da una spasmodica ossessione per il corpo e la propria immagine. I sintomi insorgono prevalentemente nell’adolescenza, tra i 12 e i 25 anni, con picchi tra i 14 e i 17, anche se, secondo recenti ricerche, il tasso d’incidenza tende sempre di più ad aumentare e l’età di insorgenza pare abbassarsi, comprendendo la preadolescenza. Va ricordato che la malattia colpisce indistintamente entrambi i sessi. Negli studi condotti in merito ai disordini alimentari si tiene conto non solo dei fattori genetici, biologici e psicologici ma anche della compresenza di fattori culturali e sociali. L’aspetto fisico e la relazione disfunzionale con il cibo si configurano come il sintomo di un malessere che va ricercato più in profondità.
Le diagnosi di DCA sono inesorabilmente in aumento, e parlare di essi fa sì che si parli di un gran numero di giovani. Nel contesto universitario, in cui i livelli di ansia e stress crescono esponenzialmente, soggetti eventualmente a rischio (ossia che hanno un principio di disturbo che non hanno potuto trattare durante il periodo di istruzione superiore) possono vedere aggravarsi le proprie condizioni, o magari chi aveva avuto la possibilità di rivolgersi ad uno specialista, può vedersi alcuni dei propri risultati abneganti. Quattro studenti su dieci hanno sofferto di un disturbo alimentare o conoscono qualcuno che ne ha sofferto. Un altro studio condotto su studenti universitari ha riscontrato che il 13,5% delle donne e il 3,6% degli uomini manifesta sintomi di disturbo alimentare. Con la pandemia è stato riscontrato un +30% dei casi in aumento. L’anoressia è la malattia mentale più mortale. Uno studio ha rilevato che le persone che soffrono di anoressia hanno 56 volte più probabilità di suicidarsi rispetto alle persone senza un disturbo alimentare.
Gli studenti universitari possono risultare una fascia di rischio particolarmente vulnerabile a causa del periodo delicato che si accingono ad affrontare: la transizione nella vita adulta e l’insorgere di difficoltà economiche e/o accademiche. I disturbi alimentari trovano terreno fertile nella necessità di prendere controllo mentre il soggetto che ne soffre sta attraversando quella che si può definire una “tempesta perfetta”, ossia il concatenarsi di situazioni ansiogene e stressanti, derivanti da fattori sociali, lavorativi, economici, accademici e soprattutto personali.
Prendiamo adesso in esame la situazione specifica dei soggetti “fuorisede”, i quali molto spesso sono soggetti ancor più vulnerabili. I costi della vita da fuorisede sono senza ombra di dubbio elevati, e nella società del precariato per eccellenza non è raro assistere a studenti che limitano il loro consumo di cibo in quanto “costoso”, o perché “non hanno tempo per cucinare per studiare”. Tutto questo si rifà ad una logica della privazione che è fondamento della cultura capitalista, ma è bensì antiumana e antisociale.
– Disturbo depressivo e l’incidenza di suicidi
“La depressione può essere descritta come quella esperienza di vita in cui il soggetto sente di non avere più tempo, di avere il tempo contato e non avere più spazio fino al punto che, sentendosi braccato, incorre in un autentico stallo esistenziale: da una parte il tempo scorre a gran velocità, ci scivola dalle mani, ci sfugge, accelera…Dall’altra non c’è più un posto in cui scappare: la persona depressa ritrova dappertutto il già noto.” Con queste parole gli psichiatri Miguel Benasayag e Gérard Schmit descrivono la depressione, disturbo clinico le cui diagnosi sono in aumento. È la prima causa di disabilità a livello globale, con circa 300 milioni di persone nel mondo che ne soffrono. In Italia si stima che circa 3 milioni di persone siano affette da depressione (considerando le varie forme) e che circa il 6% degli adulti tra 18 e 69 anni riferisca sintomi depressivi. I numeri della depressione sono impressionanti, ancor più se si pensa che i dati potrebbero essere sottostimati, e soprattutto che a seguito della pandemia da COVID-19 si è registrato un trend in netto aumento, le cui conseguenze e il cui impatto a livello di certe fasce della popolazione stanno a poco a poco affiorando, delineandosi come un’emergenza nell’emergenza. L’OMS parla di un rischio di sviluppare un episodio depressivo nell’arco della vita di circa il 15% e valuta inoltre che, su circa un milione di suicidi registrati annualmente a livello globale, circa il 60% trovi origine proprio in un disturbo depressivo.
Ma queste diagnosi non piovono dal cielo, ma sono chiaro indice di una fallacia sistemica.
I disturbi mentali, intesi sia come patologie psichiatriche quali ansia, depressione o disturbi bipolari, che neurologici, come Alzheimer e demenze, sono già nei Paesi ad alto reddito la principale causa di perdita di anni di vita per morte prematura e disabilità. Il 5% della popolazione mondiale in età lavorativa ha una severa malattia mentale e un ulteriore 15% è affetto da una forma più comune. Una persona su due, nel corso della vita, avrà esperienza di un problema di salute mentale e ciò ridurrà le prospettive di occupazione, la produttività e i salari.
Viene evidenziata una “relazione statistica tra malattia mentale e lo sviluppo economico”, risalendo sino a “Il disagio della civiltà” in cui Sigmund Freud ha affermato l’idea che la nevrosi sia aumentata in tandem con lo sviluppo delle forze produttive e la capacità di accumulazione delle risorse. Prima di Freud, un neurologo americano, George Beard, aveva notato che un disturbo nervoso che aveva etichettato nevrastenia (e altri soprannominato “Americanite”) era in aumento.
L’economia minaccia e la competizione non permette di “perdere tempo”. Sempre rifacendoci a Miguel Benasayag e Gérard Schmit, la società attuale non fa altro che produrre individui in crisi in una società in crisi, in cui il futuro appare una minaccia, che deve essere affrontata con le “armi” delle skills e delle competenze, l’istruzione quindi perde il suo valore emancipatorio, ma diventa un vero e proprio strumento di combattimento contro il futuro. Si è perso il valore “dell’imparare” in senso lato, sostituito da un precetto di scuola/università-azienda che deve fornire il necessario per sopravvivere, per prevaricare sugli altri in questo mondo incerto. La valorizzazione di questi concetti e la durissima competizione che si avverte, ha come effetto la colpevolizzazione degli individui che non riescono ad accedere all’olimpo degli eccellenti con conseguenze a volte gravissime. In questa società in crisi tutto ciò che rimane fra le mani dei giovani è la rabbia e la disperazione. Rabbia, che viene incanalata in modo malsano, infatti, gli atti di autolesionismo si configurano al terzo posto per causa di morte dei giovani di età compresa dai 10 ai 19 anni.
I dati ISTAT parlano di una tendenza oltremodo tragica: 500 suicidi l’anno vengono compiuti da under 34 (su un totale di 4000 l’anno in Italia).
Gli studi, infatti, dimostrano come i suicidi per motivi di studio si verifichino principalmente nella popolazione degli Atenei italiani dove si sviluppano livelli di depressione ed ansia decisamente più alti rispetto che nel resto della popolazione. Non si può non additare come colpevole di queste morti proprio l’esasperazione della competitività e del concetto di eccellenza già da tempo denunciati dagli studenti e dalle studentesse.
Il 7 ottobre è stato ritrovato il corpo senza vita di uno studente iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell’università di Bologna nelle acque del fiume Reno, nella periferia della città. Aveva 23 anni e sembra avesse detto a parenti e amici che si stava per laureare. Ma non era vero: gli mancavano gli esami necessari a ottenere il titolo di studio.
Una vicenda molto simile a quanto accaduto un anno prima, sempre a Bologna. Il 9 ottobre 2021 un altro studente fuorisede era stato trovato morto sotto il Ponte Stalingrado. Aveva invitato i familiari in città per la sua laurea che, invece, non era in programma. Lo scorso luglio un iscritto della facoltà di Medicina in lingua inglese, dell’Università di Pavia, prima di togliersi la vita ha inviato una mail al Rettore in cui sottolineava la paura di perdere la borsa di studio e quindi la possibilità di vivere negli alloggi dell’ateneo.
Aveva trent’anni ed era bloccato al terzo anno. «Sono lo studente che si è tolto la vita in collegio – ha scritto nella lettera -, non sono riuscito a cambiare nulla. L’Edisu (l’ente per il diritto allo studio universitario ndr) ha cercato di aiutarmi e gliene sono molto grato ma non è solo una questione economica ma anche di (in)giustizia». L’anno prima, a luglio 2021, un venticinquenne dell’Università Federico II di Napoli era stato trovato morto all’interno della facoltà di Lettere. Anche in questo caso, secondo le ricostruzioni dei Carabinieri, si è trattato di un suicidio. Lo studente aveva descritto ai genitori un percorso di studi che non aveva mai compiuto.
L’ultimo triste caso registrato è quello avvenuto mercoledì 1° febbraio, dove una ragazza di soli 19 anni è stata rinvenuta priva di vita all’interno dell’università IULM di Milano. La giovanissima aveva lasciato un biglietto in cui chiedeva scusa, soprattutto ai genitori che sostenevano le spese dei suoi studi. la giovane infatti pare facesse riferimento al fallimento negli studi come una delle cause del gesto estremo.
Questi elencati sono solo gli ultimi casi di una epidemia che sta colpendo le giovani generazioni. quella che si sta consumando sotto i nostri occhi è una vera e propria mattanza, le cui menti, specie se si tratta di individui già fragili, vengono attanagliate dalla competizione sfrenata e dalla retorica dell’essere perennemente in ritardo.
Le conseguenze del covid sulla salute mentale
I problemi del neurosviluppo e della salute mentale di bambini e ragazzi manifestatisi durante la pandemia rischiano di diventare cronici e diffondersi su larga scala. I rischi per la salute psicologica degli individui sottoposti a quarantena ed isolamento sociale sono maggiori se accompagnati da una serie di fattori, quali:
- Prolungati periodi di isolamento sociale;
- Elevato timore di venire contagiati;
- Affettività negativa (frustrazione, disagio, noia, solitudine, incertezza);
- Accesso continuo ad informazioni inadeguate;
- Mancanza di adeguata assistenza sanitaria;
- Perdite finanziarie;
- Stigma sociale.
Tra le emergenze segnalate dalla ricerca emergono disturbi del comportamento alimentare, ideazione suicidaria (tentato suicidio e suicidio), autolesionismo, alterazioni del ritmo sonno-veglia e ritiro sociale.
In ambito educativo sono stati riscontrati disturbi dell’apprendimento, dell’attenzione e del linguaggio, disturbi della condotta e della regolazione cognitiva ed emotiva, oltre alla paura del contagio, allo stato di frustrazione e di incertezza rispetto al futuro, generando insicurezza e casi di abbandono scolastico e abbandono universitario. I costi elevati dell’istruzione universitaria, legata al carico che essa comporta psicologicamente, fanno sì che sempre più persone abbandonino gli studi. Spinti a fare una scelta affrettata che non sia dettata dal proprio interesse, ma dalle logiche del capitale, si è registrato nell’anno accademico 2016/17, con un significativo abbandono di oltre il 12% degli studenti del primo anno.
E’ stato inoltre rilevato un aumento delle richieste d’aiuto per l’uso di sostanze psicoattive, cannabinoidi e alcool. Il primo allarme fu diramato da Stefano Vicari, responsabile dell’ala di neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, già all’inizio della seconda ondata, quando sottolineò l’incremento dei posti letto occupati da ragazzi entrati in reparto per tentato suicidio: il 100% a fine 2020, contro una media standard del 70%.
Il prolungarsi dello stato di emergenza e delle restrizioni alla socialità, alla scuola, al lavoro, alla possibilità di programmare un futuro non hanno fatto altro che accelerare e mettere a nudo tutta una serie di storture sistemiche di un modello sociale la cui unica prospettiva di sviluppo è basata sul regresso della condizione materiale, sociale e culturale dell’intera Umanità. L’impatto che l’isolamento e la DAD hanno avuto sugli studenti è certamente significativo, la didattica a distanza, infatti, oltre ad aver tolto il legame con il luogo fisico della classe, portando i ragazzi a sentirsi più soli, ha creato un profondo senso di disagio e disorientamento.
L’agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha evidenziato nel 2020 un aumento considerevole dell’acquisto di ansiolitici rispetto all’anno precedente e rispetto alla prima fase della pandemia.
Nell’ultimo anno quasi una persona su 5 in Italia ha assunto farmaci come ansiolitici, antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, antipsicotici, cioè i principali tipi di psicofarmaci, e una persona su quattro si è rivolta a uno psicologo. Un teenager su dieci consuma psicofarmaci senza avere una prescrizione. I medicinali vengono presi per scopo ricreativo o magari pensando che aiutino a studiare o ad affrontare la vita di tutti i giorni. Più il sistema diventa intollerabile da sopportare, le aspettative diventano troppo alte, più l’alienazione e la competizione consumano, quanto più i giovani cercheranno di sedarsi da una vita che sta stretta, e che forse temono non valga proprio la pena condurre. Tra le Regioni si notano importanti differenze: “la Sardegna ha un consumo quasi doppio rispetto alla Lombardia e, in generale, in quasi tutte le Regioni del Centro-Sud, ad eccezione della Campania, vi è un maggior ricorso a questi farmaci rispetto al Nord”.
La pandemia di Covid e le restrizioni dovute alla pandemia hanno provocato quella che gli esperti che hanno curato la ricerca hanno definito come una vera e propria “emergenza salute mentale”.
In merito ai DCA, l’’emergenza Coronavirus ha aggravato ulteriormente la situazione: la Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare stima, infatti, che nel biennio pandemico 2020-2021 hanno registrato un incremento del 40% di nuovi casi e una crescita pari al 50% di richieste di prima visita per i Disturbi del Comportamento Alimentare. È stata infatti registrata un’impennata delle richieste di aiuto alla quale in molti casi sono corrisposte inadeguatezza e iniquità di risposte che hanno fatto emergere carenze e ritardi strutturali precedenti alla pandemia.
E’ chiaro quanto il nostro sistema sanitario risulti pesantemente inadeguato a soddisfare una sempre più grande richiesta di aiuto. I centri specializzati, in modo particolare riferiti ai DCA, sono situati soprattutto al Centro e al Nord Italia, lasciando il Sud per lo più scoperto. Rivolgersi da uno psicologo privato specializzato è troppo costoso ed è fuori dalle possibilità concrete dei giovani dei settori popolari della società. Il servizio pubblico universitario non è sempre garantito o è parziale o non specializzato soprattutto per quanto riguarda disturbi del comportamento alimentare o dell’umore. In merito al personale delle aziende pubbliche, le continue riduzioni che sono state effettuate tra il 2013 e il 2018 hanno portato a una copertura del territorio nazionale veramente bassa, con meno di 9 professionisti ogni 100mila abitanti, quando lo standard minimo dovrebbe essere di 15.
La carenza di sistemi di aiuto
Non è un caso, però, che nella società attuale non solo non vengono depotenziati i fattori di stress, ma non viene offerta neanche una possibilità di supporto personale per sopravvivere a queste dinamiche. I sistemi di aiuto esistenti a oggi sono pressoché ridicoli, le università offrono degli sportelli di ascolto gratuiti ma quando, dopo solitamente lunghissimi tempi di attesa, gli studenti riescono ad accedere a questo servizio vedono spesso a propria disposizione un numero di incontri limitato e dei professionisti spesso oberati e quindi non in grado di rispondere alle esigenze specifiche dei singoli. Dopo il suicidio della studentessa alla Iulm di Milano di inizio febbraio, abbiamo inoltre assistito ad un improvviso interessamento al tema del benessere psicologico degli studenti universitari ma, al solito, affrontato con un’estrema superficialità e incompetenza: il provvedimento predisposto dalla ministra Bernini è finalizzato alla creazione di un presidio per il benessere psicologico degli studenti “caratterizzato da una attività di consulenza e di mentoring volta a fornire un supporto che migliori la qualità della vita delle studentesse e degli studenti”, quindi non da figure professionali formate in maniera specifica per assistere casi di forte malessere ma persone il cui unico scopo sarà, di nuovo, garantire allo studente una rapida conclusione del percorso di studi con il risultato migliore possibile.
La totale “indifferenza” al tema del disagio psicologico non è propria solo del sistema accademico o dell’istruzione, ma dell’intero Sistema Sanitario Nazionale: a fronte dei continui definanziamenti di cui è stato bersaglio, troviamo un numero estremamente ridotto di medici e psicologi che si trovano a dover far fronte a un numero sempre più alto di richieste di aiuto, con il risultato che molto spesso il servizio offerto è totalmente inadeguato e chi richiede aiuto si ritrova di fronte non un professionista su cui fare affidamento, ma una persona frustrata e stanca il cui contributo si rivela la maggior parte delle volte inutile se non controproducente.
Anche nel settore privato la situazione non è delle più floride in quanto oltre ai costi estremamente elevati si riscontrano in questo caso le più grandi mancanze del sistema formativo: le facoltà di psicologia hanno ormai cambiato quasi totalmente il loro indirizzamento e alla collaborazione con percorsi di tipo umanistico è subentrata un’attenzione a interessi strategici che quindi comporta un reindirizzamento dei corsi di studio e dei progetti di ricerca sul versante bio-neurologico e genetico; conseguenza oltremodo naturale di questo è senza ombra di dubbio il fatto che ci si approcci alla terapia psicologica non più con un proposito curativo, quanto piuttosto con una finalità patologizzante che si esprime molto chiaramente nelle sempre più frequenti diagnosi erronee e spesso fatte in maniera frettolosa. Lo psicologo o psicoterapeuta che sia si ritrova quindi a ricoprire un ruolo ormai totalmente subalterno alle dinamiche sociali; infatti, non costituisce più una figura professionale in grado di sostenere l’individuo in un processo di emancipazione e di autoliberazione, e quindi di guarigione, ma anzi si ritrova molto spesso a essere un complice in una dinamica di iperresponsabilizzazione del singolo, dove quindi il responsabile del proprio male è solo il soggetto che richiede aiuto e le risposte possibili sono due: o un’estrema patologizzazione, come abbiamo già detto, o una serie di suggerimenti e skills che mirano a permettere un progressivo adeguamento del soggetto al mondo circostante. Un soggetto che si approccia a un percorso di tipo psicoterapeutico si trova quindi ad affrontare molto spesso un terapeuta che si trova depotenziato della sua funzione, a cui è stato ormai insegnato a patologizzare il paziente e che quindi è portato a rivolgersi molto spesso a un medico psichiatra (solo coloro che hanno conseguito una laurea in medicina hanno infatti il potere di prescrivere farmaci e psicofarmaci) e qui le problematiche si stratificano: per conseguire l’abilitazione di psichiatra infatti ci vogliono solitamente dai 10 agli 11 anni, di cui 6 nella facoltà di medicina e i restanti in una specializzazione in psichiatria post lauream. Quindi, le figure professionali a cui viene attribuito il ruolo più importante nell’ambito del benessere psicologico, in quanto gli unici in grado di valutare oggettivamente la dipendenza o meno di problemi psicologici da fattori di tipo biologico, vengono da un percorso in cui l’alienazione nei confronti di ciò che viene studiato è ai massimi livelli e in cui le dinamiche di competizione vengono portate agli estremi, e quindi il paziente non viene più visto come un soggetto da considerare nella sua totalità ma come un caso clinico in cui evidenziare i sintomi per arrivare a diagnosi nel minor tempo possibile per poter prendere in tempo il problema. L’emblema di questo sistema è il DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali che, giunto ormai alla sua quinta edizione, è il vademecum di chiunque si approcci alla diagnostica di tipo psichiatrico: al suo interno troviamo elencati tutti i disturbi diagnosticabili e i relativi sintomi che ne permettono la diagnosi ma, se andiamo a vedere rapidamente le voci, non ci stupiamo affatto di come le diagnosi siano aumentate drasticamente e di conseguenza la prescrizione di farmaci (basti solo pensare che per una diagnosi di bipolarismo è sufficiente che il disturbo dell’umore sia sufficientemente grave da causare una marcata compromissione dell’attività sociale o funzionamento lavorativo, segno evidente della strumentalizzazione politico-sociale della materia).
Conclusione e rivendicazioni
In questo documento abbiamo evidenziato come il disagio psicologico abbia una connotazione di classe, in quanto la causa è legata non solo alle condizioni economiche, all’assenza di prospettive, all’impossibilità di immaginare un futuro diverso, ma anche alle relazioni sociali di produzione che caratterizzano questa fase storica. Le soluzioni che ci vengono proposte sono dei palliativi che mirano a ridurre il disagio psicologico a inadeguatezza individuale, ma sappiamo che la sua causa è sistemica e che quindi non può esserci alcuna soluzione all’interno di questa società, ma piuttosto, può essere un terreno di lotta fondamentale soprattutto tra le giovani generazioni.
L’università, come la scuola, è interna agli stessi meccanismi che colpevolizzano il singolo e che individualizzano il disagio psicologico, ed è per questo che per mettere in discussione il sistema attuale bisogna ripartire dai luoghi di formazione. L’università deve tornare ad essere un luogo di confronto, un luogo dove costruire le lotte. Il disagio psicologico non può essere risolto con il mero assistenzialismo, ma la soluzione deve essere l’organizzazione.
Ciò che chiediamo come studenti universitari è che l’università sia un luogo di confronto e di collettività, lontana dalle logiche individualistiche. Gli studenti devono poter godere di luoghi di socializzazione che permettano loro di poter vivere l’università non come un luogo di competizione, ma come un luogo di istruzione.
Chiediamo un incremento dei sistemi di welfare per il diritto allo studio affinché non si penalizzino economicamente gli studenti che necessitano di più tempo per completare il loro percorso di studi, e non ci siano studenti costretti a scegliere tra università e lavoro.
Chiediamo un investimento straordinario per un sistema pubblico di supporto psicologico dentro e fuori le università, la nostra salute mentale non deve essere fonte di profitto e non deve essere legata alla logica per cui il supporto in università deve essere dedicato a chi “dimostra un rendimento accademico inadeguato con possibili conseguenze sul ciclo di studi”, ma anzi dovrebbe essere uno spazio che contribuisca a mettere in discussione l’ambiente tossico e ipercompetitivo in cui gli studenti sono inseriti.
Chiediamo che la ricerca sia svincolata dalle logiche di mercato in particolare degli psicofarmaci e che la facoltà di psicologia non sia mirata ad un’estrema patologizzazione e/o medicalizzazione del paziente.
Per questo motivo è necessario rompere il silenzio! È necessario mettere in discussione questo modello di università e di società, che sta producendo morti! È necessario portare a galla le vere ragioni del disagio psicologico giovanile, rompendo la bolla di individualismo!