Divisi nella retorica renziana, uniti nella precarietà del reale
Ieri, ad un incontro coi giornalisti a Fano, il neo-riconfermato ministro del lavoro (o meglio, ministro del precariato o del non-lavoro) Poletti si è lasciato andare ad esternazioni che ribadiscono -semmai ce ne fosse bisogno- la natura di classe e antipopolare dei nostri governanti.
Ad una domanda sul forte aumento dell’emigrazione italiana (e soprattutto giovanile) degli ultimi anni, egli infatti ha così risposto: “Intanto bisogna correggere un’opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei ‘pistola’. Permettetemi di contestare questa tesi”. E ha poi aggiunto: “Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Detto questo, come a voler mettere una pezza, ha aggiunto: “è bene che i nostri giovani abbiano l’opportunità di andare in giro per l’Europa e per il mondo. E’ un’opportunità di fare la loro esperienza, ma debbono anche avere la possibilità di tornare nel nostro Paese. Dobbiamo offrire loro l’opportunità di esprimere qui capacità, competenza, saper fare”.
Eh già caro ministro, ma queste opportunità non arriveranno certo da voucher e jobs act, non arriveranno dalla spirale infinita di precarietà, sottoccupazione e iper-sfruttamento che in questi anni è stata innescata ed alimentata e di cui soprattutto il governo Renzi (il primo e il secondo, quello attuale) si è fatto garante e promotore.
Ma il punto è un altro e Poletti non può fingere di non saperlo perfettamente.
Viviamo in un Paese dove, stando ai dati OCSE recentemente pubblicati, il 27% dei giovani sotto i 30 anni rientra nella categoria di neet e, di questi, oltre un terzo vive questa condizione da oltre un anno; dove il presente lavorativo di un milione e mezzo di persone è legato al pagamento in voucher che, anziché “far emergere il lavoro nero” come doveva essere nelle loro previsioni (e bisogna dire che queste previsioni o mancavano di buona fede o mancavano di buon senso), sono diventati lo strumento per nuove forme di iper-sfruttamento incontrollato, un nuovo modo per irreggimentare una manodopera sempre più precaria, ricattabile e priva di diritti e tutele.
E nel mondo della formazione, se possibile, si vive una condizione ancora peggiore, con la “Buona Scuola” e l’infame alternanza scuola-lavoro grazie alla quale decine di multinazionali come Zara e McDonald’s potranno avere manodopera gratuita per un totale di 400 ore per ogni studente.
Con queste prospettive, è evidente e naturale che l’emigrazione diventi una strada che viene percorsa da un numero sempre crescente di persone -non solo giovani, si badi bene, ma lavoratori di ogni provenienza geografica e di ogni età-, un numero che aumenta ogni anno e che ha ormai da tempo superato in numero quello delle persone che migrano verso il nostro Paese. E teniamo a mente che scappar via non è un’occasione per girare il mondo e fare esperienze, è un necessità non voluta progettata dalla piovra dominante europea e messa in atto dai suoi tentacoli nazionali.
Ogni cattiva politica ha poi ovviamente bisogno di uno schermo ideologico, dettato dalla doverosa necessità di dribblare opposizioni e resistenze: avanti tutta con la guerra tra poveri quindi, autoctoni contro richiedenti asilo perché questi rubano 37 euro al giorno allo Stato, privati contro statali perché questi fanno i furbetti e non timbrano il cartellino, giovani contro vecchi perché questi non mollano il posto fisso e non pensano al futuro, espatriati (quelli bravi, che il 4 dicembre hanno votato si) contro rimasti (quelli cattivi, che il 4 dicembre hanno votato no). Il punto che Poletti cerca di nascondere contrapponendo chi resta e chi se ne va, come ha detto Marta Fana nella lettera aperta indirizzata al ministro stesso (http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/12/20/news/caro-poletti-avete-fatto-di-noi-i-camerieri-d-europa-1.291709), è che: “lei e il suo governo state decretando che la nostra generazione, quella precedente e le future siano i camerieri d’Europa, i babysitter dei turisti stranieri, quelli che dovranno un giorno farsi la guerra con gli immigrati che oggi fate lavorare a gratis”.
Sembrerebbe proprio la nostra prospettiva, perché in una zona periferica dell’Unione Europea, ai margini produttivi del polo imperiale nostrano, l’unico ruolo funzionale della forza lavoro è la continua dequalificazione, il continuo demansionamento, la continua rinuncia a tutele, diritti, stabilità e, in un ultima analisi, la rinuncia ad un futuro e ad una vita dignitosi. Avevano provato anche a farci rinunciare anche alla Costituzione, ma -per ora- gli è andata decisamente male… per adesso “si possono accontentare” di devastare il mondo del lavoro e asfaltare in partenza chi in quel mondo non ci deve neanche entrare. Annullamento dei diritti per chi li ha avuti da un parte, addestramento alla schiavitù generazionale dall’altra: il programma del governo di cui Poletti fa parte, ci pare…
Per ribaltare tutto questo, la ricerca di soluzioni individuali non può e non deve bastare, serve una soluzione collettiva: rifiutare la contrapposizione tra chi resta e chi va, e rifiutare l’imposizione di una “scelta” tra l’emigrazione e una vita di precariato ed insicurezza devono essere i cardini da cui partire per ribaltare il loro discorso, ribaltare la rassegnazione a cui vogliono costringerci ed intraprendere un cammino collettivo per riconquistare ciò che è nostro: primo tra tutti, un’appartenenza di classe che sappia difendersi da questi macellai ed oltre, attaccando in avanti.