Giovani a sud della crisi. Un’analisi concreta della situazione concreta della condizione sociale giovanile
recensione di Antonio Allegra
C’è un merito che bisogna riconoscere ai compagni di Noi Restiamo da quando sono nati: quello dello sforzo teorico di ricostruzione di un quadro della questione sociale giovanile all’interno delle dinamiche della competizione capitalistica globale, con particolare attenzione allo specifico della situazione italiana.
Il nuovo lavoro di ricerca e di analisi, Giovani a sud della crisi (ottobre 2018), è in qualche modo il punto di arrivo (certamente temporaneo) di questo sforzo teorico, e lo fa cercando di mettere assieme tanti pezzi di ragionamento a partire dai processi economici in atto, dalla sua configurazione geografica, passando ad analizzare il mondo della ricerca, della formazione universitaria e scolastica, giungendo a trattare i nodi dello sfruttamento del lavoro giovanile e i processi di emigrazione.
Lo sforzo di afferrare tutti gli “anelli” (per utilizzare un’espressione leniniana) di questa catena di sviluppo del processo in atto, è lo sforzo di chi vuole dare una base concreta alla propria azione politica. Utilizziamo l’aggettivo “concreto” nel senso inteso da Marx, quando scriveva nei Grundrisse (gli appunti preparatori del Capitale): «il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza».
Per il pensiero il “concreto” è un punto di arrivo. Per l’azione è il punto di partenza.
Il libro si divide in due parti. La prima parte comprende 4 capitoli (più quello introduttivo) a firma dei compagni di Noi Restiamo, in cui viene messa a punto la loro analisi.
La seconda parte è coperta dagli interventi di altri collettivi con cui gli autori si sono confrontati in questo sforzo di analisi: il CAU Napoli, il Collettivo Laika di Grosseto, il Collettivo Politico Porco Rosso di Siena e Coniare Rivolta di Roma, i quali propongono analisi dei contesti locali in cui si trovano ad agire e offrono spunti di riflessione importanti, sia per completare il quadro sia per allargare il campo visivo.
I primi cinque capitoli del libro indagano ognuno un tassello del ragionamento generale su come si organizza in Europa il sistema di creazione di “conoscenze e competenze”. Il cap. 2 prende in esame la distribuzione dei fondi della ricerca in ambito europeo. Il cap. 3 analizza le riforme universitarie in Italia alla luce dei mutamenti europei in ambito formativo, facendo un raffronto tragli esiti di questi processi di riforma in alcuni dei paesi PIGS (in particolare Italia e Spagna) con quelli del centro produttivo europeo, definiti paesi core, quali la Germania.
Da qui si passa, nel cap. 4, all’analisi del mercato del lavoro giovanile, facendo un’analisi della situazione italiana e un focus sulla situazione dei paesi PIGS. A questo punto diventa necessario affrontare nel cap. 5 le dinamiche migratorie giovanili interne alla UE con un raffronto, ancora una volta, tra paesi PIGS e paesi core.
A leggere questi 4 capitoli di seguito non si può non rimanere colpiti della convergenza dei risultati di questa indagine. Molti degli indicatori utilizzati (il libro è ricco di fonti, statistiche e grafici, che lo rendono ancora più prezioso) fanno capire nel dettaglio quale sia il processo di gerarchizzazione interno all’Unione europea: la distribuzione diseguale dei fondi alla ricerca, con un centro che attira fondi e ricercatori e una periferia che li perde: la gerarchizzazione delle università all’interno della UE, ma anche all’interno dell’Italia, che ci parla di un processo di scomposizione dei sistemi educativi nazionali, che il recente tentativo di regionalizzazione dell’istruzione conferma fino alla fine; il ruolo non secondario della differente distribuzione dei fondi per l’università e, a cascata, la qualità e i costi dell’offerta formativa, nell’approfondire le differenze interne all’Ue e all’Italia; la spiccata precarizzazione del lavoro a seguito della gerarchizzazione produttiva in Europa; i processi migratori come effetto finale, che con i suoi 5 milioni di migranti, la maggior parte nei paesi core della UE, ci parla di una mancata specializzazione produttiva in Italia.
Tutti questi elementi ci mostrano in maniera evidente, al di là della retorica dell’Europa dei popoli (che, finché rimane in piedi questo assetto istituzionale ed economico-finanziario, sarà di là da venire), un’economia integrata all’interno della UE, i cui differenti capitalismi nazionali si strutturano in maniera gerarchica (seppur non senza frizioni), con un centro e una periferia. Certamente, la realtà è più sfaccettata di come la presentiamo qui, ma occorre leggere la tendenza in controluce per vedere la figura nella sua unità.
Il capitolo finale del libro raccoglie un report del convegno sulle università organizzato a maggio del 2018, in cui a parlare erano presenti diverse realtà studentesche italiane (quelle citate sopra più un collettivo sardo) ed europee (Catalogna, Svizzera, Parigi). Chiude il report un piano di intervento basato su tre punti: 1) la necessità di un fronte di alleanza tra segmenti della società, in particolare con il sindacalismo metropolitano che affronti la questione sociale; 2) indicare il campo della lotta al livello europeo; 3) riprendere i momenti di confronto a livello nazionale, provando ad articolare la lotta nei singoli territori.
Crisi sistemica e catena del valore
Ci sembra non sia inutile provare a dare una sintesi veloce delle argomentazioni offerte dal libro, per introdurre il lettore alla serie di dati elaborati nella ricerca.
Come accennavamo all’inizio, la ricostruzione del concreto concatenarsi dei piani di analisi va da quelli più generali della competizione capitalistica globale, della crisi sistemica e delle risposte politico-economiche a questa crisi (come la costituzione di macroaree economiche sempre più integrate, quali la UE) a quelli via via più specifici (nazionali e regionali).
Nel contesto della crisi del capitale, i cui livelli di crescita sono calanti da un secolo a questa parte (se si escludono alcuni periodi eccezionali come quelli postbellici), la ristrutturazione economica avviatasi intorno agli anni ’80, ha indotto le economie occidentali, per mantenere margini di profitto desiderati, a puntare, più che sulla crescita quantitativa, su quella qualitativa, intendendo con ciò un processo produttivo che puntava sulla ricerca, l’innovazione scientifica e tecnologica (qualità) quali elementi determinanti nella concorrenza. Se i margini di profitto sono pochi, chi innova ha più chances di essere competitivo sul mercato. L’innovazione richiede ricerca e lavoratori sempre più qualificati. Chi forma i lavoratori qualificati non è l’impresa, ma è il sistema d’istruzione nazionale. Dagli anni ’80 in poi, gli industriali di tutto il mondo capitalistico puntano la loro attenzione sui sistemi educativi per formare i lavoratori che il nuovo paradigma produttivo richiede.
Un modello produttivo produce merci, è noto, e la sua prima merce è il lavoro. Che tipo di lavoro richiede il nuovo paradigma produttivo? Se il vecchio sistema di fabbrica puntava all’aumento della popolazione per aumentare la massa della forza lavoro “puramente fisica”, quello dei capitalismi avanzati come quello europeo ha bisogno di forza lavoro specializzata. Questo obiettivo era già stato fissato sin dalla fondazione della nascita della CEE alla fine degli anni ‘50, ma allora riguardava solo la manodopera industriale, certo più evoluta rispetto a quella ottocentesca e primonovecentesca. La specializzazione è un effetto della concorrenza, che è a sua volta il segno che la crescita quantitativa cede piano piano il passo a quella competitiva. Non è un caso che si inizia a parlare di “risorse umane” negli Usa proprio alla fine degli anni ‘50. L’economia di guerra era finita, la crisi economica di primo Novecento – che aveva portato allo scontro tra imperialismi e al keynesismo di guerra americano che ne ha beneficiato – si ripresentava, ma a influenzarne gli esiti “automatici” c’era allora il blocco socialista, che con la sua sola presenza (al di là delle effettive intenzioni) costituiva una minaccia costante per l’ordine capitalista, non fosse altro che per l’esempio che offriva a tutti circa la possibile alternativa sociale ed economica al capitalismo. La risposta alla crisi doveva essere data, sì, ma senza fare emergere “velleità rivoluzionarie”. La crisi economica nei paesi occidentali comincia a farsi risentire sul finire degli anni ‘60, e se i grafici che Carchedi ha mostrato sono validi (vedi L’esaurimento dell’attuale fase storica del capitalismo, Contropiano n.1, 2017, e disponibile in rete https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/8750-guglielmo-carchedi-l-esaurimento-dell-attuale-fase-storica-del-capitalismo.html) è possibile avere conferma di ciò. Il calo del tasso di profitto è una tendenza secolare. In questo quadro, la competizione aumenta e a un certo punto si richiede il cambio di paradigma produttivo. La fine del fordismo data inizio anni ‘70, ma le sue premesse sono ancora più antiche. Non essendoci una crescita per tutti, ma una crescita solo in primo luogo per chi si specializza (e in subordine per chi risparmia sul costo del lavoro o ricorre a misure monetarie come la svalutazione, come avveniva in Italia all’interno dello SME e prima della moneta unica), il ricorso alla specializzazione, quindi all’attenzione ai sistemi formativi e alla ricerca, diventa sempre più un punto strategico della competizione. Si è detto che quanto meno margine di profitto c’è, tanto più cresce la competizione. Tanto più aumenta la competizione, tanto più si mira alla specializzazione. Questo è un fenomeno che ha interessato tutti i paesi industriali avanzati.
La cosiddetta globalizzazione ha distribuito su tutto il pianeta il lungo processo di creazione del valore. Non ci sono più unici centri produttivi dove si progetta e si produce la merce dall’inizio alla fine, ma una dislocazione spaziale che divide il processo produttivo. Il lavoro sporco della fabbrica tradizionale viene spostato nelle nuove periferie produttive, dove è possibile aumentare le ore di lavoro e pagare una miseria gli operai. Al centro rimane la progettazione e tutto ciò che è annesso al prodotto finito (marketing, branding, packaging, ecc. ecc.). La creazione del valore dalla periferia al centro è ciò che viene chiamata catena del valore, dove chi sta al centro si accaparra la maggior fetta di valore prodotto. Questa è la forma del neocolonialismo. Ed è questo il quadro storico ed economico presupposto dall’analisi che i compagni di Noi restiamo offrono al lettore.
Catena del valore e gerarchizzazione dei sistemi formativi
L’effetto immediato di questa catena è la gerarchizzare di funzioni e aree produttive, ma anche la distribuzione in maniera diseguale del valore prodotto, la cui parte principale va al centro. In questo centro operano i sistemi formativi avanzati che, appunto, hanno il compito di mantenere in piedi la posizione di privilegio all’interno della catena produttiva di valore.
Questa differenziazione produttiva è leggibile all’interno delle dinamiche europee (cioè della UE). La regionalizzazione della UE vede un nord e un sud, ma anche un ovest e un est. Non è senza significato il fatto che ai suoi esordi la Lega voleva staccare il nord Italia per legarlo al centro produttivo europeo.
Senza comprendere questa differenziazione produttiva non si capiscono gli effetti sulla regionalizzazione dei sistemi formativi, con i loro sviluppi diseguali in termini di fondi, laureati, abbandoni ed emigrati.
L’architettura economica, finanziaria e giuridica della UE agisce in modo coordinato a creare questa differenziazione. Per fare un esempio: in presenza di fenomeni di deindustrializzazione in Italia, non si sono avuti percorsi di specializzazione produttiva, ma di dequalificazione. Inoltre, il progetto dell’industria 4.0 (senza contare gli effetti di espulsione di manodopera dal settore di applicazione) a oggi rimane un progetto e l’attuale governo ha persino tagliato i fondi destinati a questo progetto. Come mai? Non si può rispondere se non ricorrendo a quel complesso di concause che sono i tagli di bilancio per effetto delle politiche di austerità, la ripresa economica che non c’è (se il PIL non aumenta non aumentano nemmeno gli introiti statali), il ruolo dell’Italia nella catena del valore (inutile fare uno sforzo di ammodernamento se non puoi giocarti questa partita tra grandi), la difficoltà italiana a essere competitiva ad alti livelli, lo spazio concesso solo per la competizione al ribasso, con la proletarizzazione degli specializzati e il ricorso allo sfruttamento del lavoro migrante lì dove la specializzazione non interviene ed è più utile, al fine dell’estrazione di valore, ricorrere a sistemi di sfruttamento ottocenteschi. Senza questo quadro non si capisce perché, pur essendo il numero di chi emigra dall’Italia uguale al numero dei migranti provenienti da fuori, chi va via sono in specie gli specializzati e chi arriva è la classica “manodopera” inserita i settori non specializzati e a basso costo. I fenomeni migratori sono solo l’effetto di questa gerarchizzazione all’interno della catena del valore.
Vista dal punto di vista “europeo” (o, meglio, dal punto di vista di quelle aeree che occupano il centro all’interno della catena produttiva) i sistemi formativi devono creare il bacino di lavoratori specializzati: più si ingrossa, più sono alte le possibilità di sfruttare le intelligenze formate e messe in campo. Ma, al contempo, aumenta anche la concorrenza tra i lavoratori specializzati, con la classica diminuzione del costo del lavoro specializzato.
Vista dal punto di vista dell’Italia (e di altri paesi che hanno una posizione simile, se non peggiore, nella catena del valore), le politiche europee sulla formazione a tutti i livelli e sulla ricerca, hanno l’effetto di declassarla e di differenziarla al proprio interno.
Catena del valore e gerarchizzazione dei lavoratori: proletarizzazione ed emigrazione
Il lavoratori non hanno patria, diceva Marx, ma non tutti vivono le tendenze evolutive del capitalismo allo stesso livello. E questo sicuramente ha effetti immediati sul modo di autorappresentarsi dei lavoratori, su come leggono, a partire dalla loro realtà immediata, la loro condizione. Chi vuol lavorare alla ricostruzione di un fronte di lotta deve sicuramente capire i fenomeni e le loro rappresentazioni, smontando quelle tossiche, possibilmente.
Ora, in questo compito ci vengono in aiuto i dati estrapolati sui processi migratori che si sono messi in moto in questo quadro di gerarchizzazione, leggibile anche alla luce degli effetti post-crisi finanziaria 2008-2010. Chi risponde meglio alla crisi finanziaria in Europa sono ancora una volta i paesi core. I paesi PIGS non hanno saputo riprendersi e stentano maledettamente a ritornare a una condizione simile a quella precedente la crisi. Le politiche europee per combattere la disoccupazione giovanile (ossia di quel settore di lavoro produttivo sottoposto a più alto tasso di sfruttamento) non hanno nessun effetto nei paesi periferici, come in Italia, se non quelli di consegnali a una stabile precarietà e a una progressiva proletarizzazione. Le politiche nazionali (fino al Jobs act) non hanno fatto altro che subordinare sempre più il lavoro alle esigenze di un’economia debole, e che in quanto tale non può puntare (al di là delle retoriche sul “mismatch” tra “skills” richieste e quelle offerte) ad assorbire lavoratori che in realtà sono troppo specializzati. È questa la base della cosiddetta overeducation, ormai diventata soggetto perfino di film di distribuzione di massa come Smetto quando voglio (la cui lettura però è fuorviante perché continua ad attribuire i mali dei ricercatori ai baroni universitari e al nepotismo, che sono semmai un effetto piuttosto che la causa).
Insomma, sulla lettura della disoccupazione giovanile si gioca una partita ideologica fondamentale, che fa uso anche di statistiche truccate, come quelle trimestrali sull’occupazione, che tiene conto di chi ha fatto anche un’ora di lavoro nel periodo considerato… Il punto è che la disoccupazione giovanile, specie tra chi ha un titolo di studio di secondo livello, è enorme al livello europeo, con punte drammatiche nelle periferie produttive. È così che si creano i moderni eserciti industriali di riserva pronti per l’emigrazione.
Si arriva così all’ultimo capitolo, dove si analizza quello che viene definito “un fenomeno di massa simile per dimensioni a quello del dopoguerra”, un fenomeno che per la sua imponenza “è difficile attribuire a scelte individuali”. Ed è analizzando questo fenomeno che vediamo meglio le due periferie dell’Unione europea, quella a est e quella sud.
La centralizzazione economica europea che produce la divisione gerarchica risalta ora sotto un altro angolo visuale. Saldi e flussi migratori mostrano le stesse dinamiche: dalla periferia al centro. In questo quadro, paesi che avevano avuto storie migratorie del tutto indipendenti e differenziate (come la Spagna e il Portogallo) tendono a uniformarsi sulle cause migratorie, sulle destinazioni e sui soggetti: chi ne sfrutta i vantaggi sono ancora una volta i paesi core. Chi ne paga il prezzo sono i giovani “a sud della crisi”, quelli appunto delle periferie produttive.
Risposte ideologiche alla crisi. Fascistizzazione a nord a est e a sud della crisi
Tra gli interventi esterni proposti nel libro, quello del Collettivo Laika di Grosseto offre degli spunti interessanti sul piano della gestione politica della crisi, ricorrendo alla categoria di “fascistizzazione del potere”. Facendo un excursus veloce sulle dinamiche degli ultimi 25 anni (dalla fondazione della UE), il collettivo mette in collegamento l’ordoliberismo con la gestione corporativistica dell’economia e la messa in mora del conflitto di classe. L’ordoliberismo si differenzia dal neoliberismo di stampo anglosassone: se quest’ultimo vuole eliminare ogni forma di intervento statale in campo economico e sociale, riducendo lo stato a quello che veniva definito uno “stato minimo”, l’ordoliberismo invece richiede un intervento attivo dell’apparato statale nella gestione del mercato e della società che deve essere piegata alle sue esigenze. Questo non significa però che l’apparato statale sia garanzia di un ordine più democratico. L’ordoliberismo è un pensiero nato in Germania intorno agli anni ‘50. Esso ha di fatto presieduto (e presiede) alla nascita delle politiche della UE. Una gestione dall’alto del conflitto di classe, che piega gli interessi di classe agli interessi del mercato. Questo mercato però non è più un mercato nazionale, ma un mercato europeo. Non è il caso qui di ricordare i passaggi costitutivi dell’UE, ma è evidente che il motore primo della UE è la formazione di un’area economica che sappia essere concorrenziale nel quadro della competizione globale allora avviatasi. La mancanza nella UE di un assetto istituzionale tradizionalmente democratico, con un parlamento che fa le leggi e da cui provenga la legittimità di un governo (la Commissione europea), sta lì a dimostrare che la UE tutto è tranne che un’espressione democratica dei suoi popoli. Le “direttive” europee, talvolta “indicazioni”, si trasformano in legge nazionale senza nemmeno avviare una vera consultazione popolare. Ciò rende evidente che la mancanza di democrazia, pur intesa in senso borghese tradizionale, non è un difetto transitorio, ma una caratteristica stabile di questa fascistizzazione del potere che, in forma nuova, riesuma la politica corporativistica fascista. Non interessi di classe, ma interesse unico rappresentato dal mercato europeo. A questo aspetto è dedicato anche l’ultimo libro di Luciano Canfora, La scopa di Don Abbondio. Il moto violento della storia (Laterza 2018).
Ma questo è solo uno degli aspetti della fascistizzazione del potere, perché c’è anche un uso nazionale di questo fascistizzazione: quello che si registra nelle periferie dell’UE per contenere e incanalare rabbia sociale verso lo straniero, soprattutto nel momento in cui si ripete il ritornello “non ci sono risorse per tutte”, perché ovviamente le risorse pubbliche sono spese per altro, che non per la spesa sociale. Ed è interessante che il collettivo faccia notare che l’unica spesa pubblica in Europa che non sottostà ad alcun vincolo è proprio quella militare (che a livello europeo prevede anzi un aumento del 180% per la sicurezza interna e del 280% per la gestione dei confini).
Se questa analisi ha il merito di mettere in luce la natura del potere politico oggi in atto nella nostra area, ha dimenticato, forse per troppa fretta, di mettere in luce le differenze che attraversano le borghesie europee, differenze che, oltre a strutturarsi in senso orizzontale (le borghesie nazionali), si strutturano i senso verticale (borghesie nazionali vs borghesie europee internazionali a vocazione imperialista). Se si tiene in luce questa ulteriore specificazione del quadro disegnato dal Collettivo Laika, si capisce anche il valore della fascistizzazione del potere del blocco economico-sociale che si è raccolto attorno all’attuale governo italiano, e si capisce quale base economica ha questo blocco: i settori produttivi che agiscono su base nazionale e che mirano al mercato interno, ma che soffrono le politiche di austerità. Solo alcuni settori produttivi di calibro europeo possono esportare in lungo e in largo nella UE. Quelli a vocazione nazionale invece ne soffrono la concorrenza. Lo smantellamento di apparati industriali nazionali o la loro svendita a gruppi internazionali, svuota di capacità produttive intere aree dei paesi periferici. Il turismo (e in genere l’economia dei servizi) viene visto spesso come la risposta alla fine dell’industrializzazione. Il turismo (oltre a essere un cancro economico per gli effetti di dipendenza, come la monocultura) si porta dietro i processi di gentrificazione, di pulizia etnico-sociale dei centri storici, le politiche securitarie e “decoriste”. Chi ne beneficia? Settori produttivi che, sofferenti delle concorrenza della borghesia a vocazione europea, tentano una risalita con la messa a valore di tutto il possibile. Si tratta di settori produttivi che vivono spesso di rendita (spesso ci sono di mezzo le economie mafiose). La “turistizzazione” delle economie richiede bassa preparazione della sua manodopera che, benché laureata e con qualche certificazione linguistica, non viene certo utilizzata per le sue alte “skills”. La professionalizzazione della formazione ha in intere aree del paese questa dinamica appena descritta. Grosseto, Siena o Catania vivono da questo punto di vista le stesse dinamiche. Chi rappresenta allora questi settori produttivi? Questo “governo del cambiamento”, che è in forma aggiornata quello berlusconiano (spazzato non a caso dai potentati europeisti). A quale blocco sociale fa riferimento? E come si cementifica questo blocco? La risposta non è difficile da leggere, se si guarda ai risultati della scorsa campagna elettorale e ai discorsi ideologici messo in atto. In questo senso, la fascistizzazione del discorso politico in Italia ha una funzione diversa da quella messa in atto in UE. I fascisti di Casa Pound e similari mirano a creare un blocco sociale (che fino ad ora è opera di Lega e Stelle) con pezzi di popolazione impoverita e spesso sottoproletaria attorno a interessi di classe di borghesia in sofferenza.
Benché non sia compito di una recensione offrire conclusioni, ci sembra che la lotta contro i processi europei che creano frammentazione nel mondo del lavoro, nel nostro Paese debba tenere in conto dell’attuale fase che si è venuta a creare con questo nuovo blocco sociale.
La lotta è, evidentemente, al suo inizio.