Fratture reali e rotture possibili nella UE. la Rivoluzione nel XXI Secolo
Il processo di costituzione di un polo imperialista europeo in grado di competere alla pari con gli altri macro-blocchi mondiali in uno scenario internazionale sempre più bellicoso fino a questo momento si è dimostrato in grado di reggere i colpi delle contraddizioni che ha necessariamente scatenato. Trattandosi di un processo reale e non concluso naturalmente possiamo semplicemente leggere le tendenze, e impostare la nostra analisi su quelle. Diventa fondamentale quindi per una realtà politica che identifica nella competizione imperialista internazionale il proprio nemico principale (e di conseguenza costruisce la propria attività intorno all’obiettivo di rompere il proprio imperialismo) una riflessione accurata sulle fratture reali e sulle possibilità di rottura che in questi anni si sono manifestate (e si stanno manifestando) all’interno della Unione Europea.
Il 6 luglio 2015 il popolo greco – dopo sei mesi di estenuante trattativa tra il neo-eletto governo di Syriza e l’Unione Europea – dice di no con un referendum popolare al ricatto del debito e dell’austerità. Nonostante questo pochi giorni dopo lo stesso esecutivo firma un terzo memorandum che comporta ulteriori disastri sociali e di fatto la fine della sovranità politica interna. Con il 61,3% dei voti per l’OXI il popolo greco voleva voltare definitivamente pagina, nonostante la campagna terroristica condotta dalla UE ed i mass-media con lei schierati. Una campagna di mobilitazione popolare gigantesca portò le fasce giovanili della popolazione (i tre quarti dei giovani tra i 18 e 24 anni si espresse per il “No”) a identificare nel referendum uno strumento per riappropriarsi del proprio futuro.
Se quella concreta ipotesi di rottura con la gabbia dell’Unione Europea fatta di cessione di sovranità popolare e politiche di austerity imposte alla popolazione è ben presto tramontata per il suicidio politico della formazione di Alexis Tsipras che il 25 gennaio aveva sfiorato per un soffio la maggioranza dei seggi, le elezioni politiche prima e il referendum – in dose maggiore dopo – erano lo “sbocco politico” per una popolazione che aveva cercato di resistere con tenacia alle politiche made in UE, tra l’altro dando vita negli anni precedenti a 27 scioperi generali, e rendendo possibile la crescita organizzativa e di consenso di Syriza sul fronte della rappresentanza politica di classe.
Dopo la Grecia la possibilità di rottura con l’ordine esistente “ingabbiato” dalla UE si è dato altre due volte per via referendaria.
È il caso del referendum sulla Brexit – e del suo accidentato processo di messa in pratica della volontà popolare per il leave – del 23 giugno 2016, in cui il 51,8% dei cittadini della Gran Bretagna si è espresso per lasciare l’Unione. Lo studio dei dati statistici ed un quadro comparato con le successive elezioni politiche, contribuisce a chiarire che il voto per l’uscita è stata una scelta di classe operata da chi da li a poco avrebbe votato per un Labour alla cui leadership era stato eletto Jeremy Corbyn, deciso a porre una pietra tombale sui lasciti di Tony Blair, e questo nonostante la campagna per il Leave non sia stata assolutamente egemonizzata da forze progressiste. La situazione abbisogna della massima attenzione per gli attuali esiti incerti degli sviluppi della Brexit e per la possibilità che l’uscita dalla UE possa tramutarsi in una gigantesca chance per il proletariato della Gran Bretagna per cambiare radicalmente rotta rispetto alle politiche che dall’insediamento del governo conservatore della “Lady di Ferro” hanno caratterizzato il Regno Unito, e che ha cascata si sono estese a tutto il continente.
Un altro importante momento di rottura è stato il referendum per l’indipendenza della Catalogna, in cui – nonostante la pervicace volontà del governo di Madrid di impedirne lo svolgimento e l’azione violenta delle forze dell’ordine ai seggi – il primo ottobre circa il 90% – del più del 40% degli aventi diritto che si sono recati alle urne – hanno votato per l’indipendenza della Catalunya. Anche in questo caso ci siamo trovati in presenza di un processo contraddittorio e non direttamente guidato da forze di classe (che però hanno avuto e continuano avere un ruolo importante), ma che per la sua dimensione di massa e per le contraddizioni che andava a toccare ha provocato una crisi istituzionale profonda in un importante paese europeo, e ha mostrato il vero volto della UE, tanto inflessibile quando si parla di conti pubblici quanto indifferente verso una repressione selvaggia.
Il processo giudiziario che si sta celebrando in questi mesi, apertosi da qualche settimana, contro una parte importante della leadership indipendentista è un vero e proprio “processo politico” in cui vengono messi alla sbarra anche rappresentanti istituzionali “rimossi a forza” con il bene placido della UE: è un azione giudiziaria esemplare contro chi sfida l’attuale ordine politico-economico in cui deve essere sanzionata innanzitutto la possibilità di perseguire coerentemente gli interessi espressi da un amplio blocco sociale e di dare seguito alle sue aspettative anche se in contrasto con i Diktat della UE. Anche intorno alle vicende giudiziarie, sembra essersi recentemente riattivato un processo di organizzazione delle classi subalterne e ri-dinamicizzata l’attività dell’indipendentismo – tra l’altro con un riuscito sciopero generale – che fanno pensare che la partita con Madrid e Bruxelles sia tutt’altro che chiusa e ancora da giocare.
Il procés catalano non è il primo caso in cui la questione nazionale solleva contraddizioni importanti nel continente, anche rispetto ad una UE che affronta la questione in maniera puramente strumentale ai propri interessi (pensare ad esempio al Kosovo). L’altro caso principe all’interno dello Stato Spagnolo è sicuramente quello dei Paesi Baschi, tuttora vittime di una feroce repressione: il caso più emblematico rimane quello degli “otto di Altsasua”, che rischiano proprio in queste settimane 375 anni di prigione complessivi per una rissa da bar trasformata dall’accusa in “atto terroristico”. Pur in un periodo in cui la politica basca sta vivendo un complesso e ancora indefinito momento di riaggiustamento in seguito alla fine dell’esperienza storica della lotta armata dell’ETA, il popolo basco rimane storicamente in grado di produrre un livello di mobilitazione raro in Europa, e da alcune importanti realtà politiche sta emergendo la necessità di confrontarsi sul piano di rottura della UE.
Dal 17 novembre 2018 in Francia (ed anche in Belgio) un movimento inedito per ampiezza e durata nella storia repubblicana francese sta scuotendo l’Esagono e una parte dei Territori d’Oltre Mare, che l’Atto del 16 marzo ha dato il suo “ultimatum” a Macron e il 19 dello stesso mese vedrà il secondo sciopero generale intercategoriale di 24 ore dallo scoppio del movimento. La marea gialla ha accelerato la crisi del macronismo, ultimo baluardo dell’europeismo sul piano continentale, rimesso al centro lo scontro di classe in tutte le sue sfumature (compreso gli aspetti repressivi), ridato vita ad una proteiforme espressione dell’azione collettiva e le organizzazioni politiche e sindacali dentro questo processo, posto un programma “minimo” rivendicativo che coniuga bisogni sociali e istanze politiche, evidenziato le “fratture” profonde dentro il secondo Paese della Ue e la quinta potenza economica mondiale.
Vogliamo fornire attraverso una serie di iniziative politiche strumenti di comprensione sui possibili processi di rottura all’interno della UE, stimolando a ripensare la propria agenda politica rispetto alle accelerazioni storiche che si stanno consumando a causa di una crisi conclamata che non trova altre soluzione tra i “decision makers” di Bruxelles e Francoforte che non sia un ulteriore irrigidimento dell’ordo-liberismo coniugato con una maggiore torsione autoritaria, ed una sempre meno latente tendenza alla guerra.
Occorre secondo noi prefigurare fin da ora la configurazione di un processo di transizione dall’attuale gabbia dell’Unione Europea che abbia come motore la lotta di classe, vero vettore della rottura dei trattati e del ripensamento complessivo dell’organizzazione politico sociale capitalistica esistente.
Allo stesso tempo bisogna misurarsi con quelle che sono le pratiche reali, gli strumenti utilizzati dal “blocco sociale della crisi” negli altri Paesi per far avanzare le proprie rivendicazioni e le sfide che queste pongono “in prospettiva” anche qui nel nostro Paese a chi opera nel magma sociale con il fine preciso di riattualizzare il concetto di rivoluzione nel XXI secolo, cioè come diceva Lenin: “dare forma al sogno”.
Proponiamo quindi un ciclo di due incontri (marzo-giugno 2019):
“I gilets gialli sono tra noi” con collegamenti via Skype con alcuni GJ della regione parigina insieme ad Andrea Mencarelli attivi in differenti fronti di lotta e la presenza di Giacomo Marchetti, redattore di “Contropiano” che segue le vicende Francesi
“Gli sviluppi della Brexit e le sue ricadute ” con la presenza di Andrea Genovese, redattore di “Contropiano” dal Regno Unito e il collegamento Skype con esponenti del “Morning Star”