A Taranto tutto cambia affinché nulla cambi davvero: controllo pubblico come alternativa al disastro industriale, sociale e ambientale
La giornata del 29 Novembre a Taranto, che ha visto la convergenza politica di una parte del sindacalismo conflittuale, dei movimenti ambientalisti nonché di comitati di cittadini e associazioni locali, ha saputo rappresentare la contraddizione più alta del vigente sistema di relazioni produttive ed economiche, ovvero la sua totale incompatibilità con la vita su questo pianeta, dalla vita umana e la sua dignità alla natura e l’ambiente.
Quella giornata di lotta ha saputo mettere al centro le parole d’ordine di un vero System Change e di una rottura necessaria con il portato di un intero apparato politico, economico, sociale e sindacale, di cui anche questo governo è espressione, che, supini ai diktat della costruzione ordoliberista europea ha tolto al controllo statale, cioè della collettività, per regalare ai privati. A Taranto, il 29 Novembre, ci siamo uniti nella pretesa di un’inversione di rotta, per Taranto, per il Sud Italia e per il nostro paese.
È infatti ormai evidente che le crisi industriali, sociali e ambientali si può risolvere solo tornando a parlare della gestione pubblica dei settori strategici della nostra economia, che all’Ilva significa nazionalizzazione, chiusura degli impianti e riconversione ecologica vera e senza nessun licenziamento.
In un clima di terribile censura mediatica e di voluta sovraesposizione della narrazione filo-padronale dei sindacati confederali complici e di tutte e sole le forze politiche parlamentari, il governo ha dato vita nelle prime settimane di dicembre ad un teatrino di continui rimpalli con la dirigenza di Arcelor Mittal, confermando di fatto l’accettazione del ricatto della multinazionale franco-indiana e la mancanza della volontà politica di muovere lo Stato nella direzione richiesta da lavoratori e cittadinanza, ovvero di un intervento straordinario a difesa della salute e del lavoro.
Mentre il governo, in malafede, balbetta, Arcelor Mittal ha dal canto suo messo in chiaro da tempo le sue pretese: riduzione della produzione, con i conseguenti e ulteriori licenziamenti, e soldi pubblici per la messa a norma dei fatiscenti impianti, sia dal punto di vista della sicurezza degli stessi che dal punto di vista ambientale, oppure “me ne vado”.
Il memorandum siglato in extremis il 20 dicembre non esprimeva più di qualche principio di massima tra cui un nuovo rilancio del polo siderurgico, anche in chiave green e con un numero non precisato di esuberi, a patto che il governo abbandoni le vie legali: i commissari straordinari dell’ex Ilva e i rappresentanti del colosso dell’acciaio non hanno che preso tempo cercando intanto di rinviare lo scontro in tribunale, dal quale peraltro nei giorni successivi sono usciti attacchi diretti alla multinazionale che, secondo i legali dei commissari, ‘dice falsità’ sull’immunità penale, fa ‘capitalismo d’assalto’ improntato sulla privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite ed è ‘inadempiente’ sul contratto.
Sul piatto il governo ha messo più o meno di 3 miliardi per contribuire (anche) alla creazione di una società a capitale misto pubblico-privato per implementare la decarbonizzazione, aprendo a privati che, di nuovo grazie a sussidi pubblici nazionali ed europei, potrebbero contribuire all’alimentazione di due forni elettrici che andrebbero ad affiancare gli altiforni 4 e 5: l’atteggiamento servile dello Stato italiano è una costante nelle trattative e i soldi pubblici vengono regalati nuovamente a chi non ha alcun interesse a perseguire il benessere pubblico, dopo anni di massacro ambientale e umano di un territorio, come quello pugliese, di difficile tenuta sociale.
Nella prima settimana di gennaio un’altra notizia scuote il già traballante equilibrio di giochi politici a Taranto: viene accolto dal Tribunale del Riesame il ricorso sulla proroga per la procedura di spegnimento del tristemente famoso Altoforno 2, dove nel 2015 un operaio 35enne perse la vita investito da una fiammata mista a ghisa incandescente mentre misurava la temperatura di colata dell’altoforno.
Questo rinvio, che annulla quanto già deciso il 10 dicembre dal giudice Francesco Maccagnano, ha un sapore tutto politico e permette al governo e alla multinazionale di avere più tempo nonché di provare a mettere a norma l’impianto e vede ovviamente l’assenso della complice Cgil che si nasconde dietro alla necessità di diminuire gli esuberi per non dover, ancora una volta, prendere chiaramente le distanze da posizione filo-governative e filo-padronali, in due parole: la concertazione.
Le ultime notizie confermano il quadro sin qui descritto: l’udienza sul ricorso, già rinviata al 7 febbraio, è stata nuovamente rimandata al 6 marzo in quanto “sono stati fatti significativi passi avanti” per il raggiungimento di un accordo che strapperebbe a Mittal la promessa di mantenere in funzionamento gli impianti, in un contesto e a condizioni ancora non ben precisate.
Un mese di tempo ulteriore per raggiungere un’intesa definitiva: Mittal ritirerebbe il suo atto di citazione con cui ha chiesto l’accertamento del recesso dal contratto e i commissari ritirerebbero il (legalmente) durissimo ricorso cautelare d’urgenza contro l’addio del gruppo. In questo modo la causa in corso sarebbe, di fatto, cancellata.
Tra i nodi su cui si continuerà a trattare ci sono quello dell’occupazione – il numero degli esuberi in particolare – e l’ingresso di terzi o nel capitale di ArcelorMittal Italia o per la creazione di una newco per la gestione di una parte degli impianti, in modo da accompagnare la transizione energetica dello stabilimento di Taranto. In merito alla clausola di uscita che potrebbe venire riconosciuta ad ArcelorMittal, di cui sono emerse indiscrezioni sulla stampa, le discussioni sono aperte e, secondo fonti vicine ai commissari, è relativa agli impegni che prenderanno o meno i soggetti terzi e comunque non prevede da parte dell’amministrazione straordinaria riconoscimenti economici al colosso dell’acciaio.
Volendo tirare le somme, si tratta ancora una volta di un gioco a somma zero per il nostro paese: le trattative sono portate avanti da un governo inetto, senza una prospettiva di lungo periodo per Taranto, i suoi abitanti e i lavoratori, che continua a sperare nel ripensamento di una multinazionale che, nonostante a più riprese abbia dimostrato di avere altri piani in mente, vede l’intero establishment italiano piegarsi continuamente ai propri capricci.
Non possiamo infine non considerare alcune indiscrezioni uscite dalla discussione in sede europea del cosiddetto European Green Deal, il piano decennale da mille miliardi di euro di ‘investimenti verdi’ approvato qualche settimana fa dal Parlamento europeo e che mira, attraverso il Just Transition Fund (fondo per una transizione equa), ad attuare la transizione ecologica ed energetica a partire dalle aree maggiormente dipendenti dalle industrie inquinanti.
Il governo italiano, soprattutto su spinta del M5S e dello stesso Giuseppe Conte, mira a ricevere almeno 4 miliardi, da investire in 4 regioni tra cui la Puglia, e far sì che i fondi vengano usati non solo per il carbone ma anche per l’acciaio: risolvere il problema Ilva con le briciole e, nuovamente, senza una reale inversione di rotta. Senza considerare che, come già alcune associazioni ambientaliste e di economisti hanno fatto notare, il piano verde europeo altro non è che nuova austerità in salsa green, dal momento in cui i soldi promessi non arriveranno (o comunque solo in piccola parte) da un ampliamento del budget ma dal prelievo di risorse dal Fondo Sociale Europeo (FSE) e il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), e dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI), oltre che da una componente di risorse di non precisati privati.
Insomma, tutto cambia affinché nulla cambi realmente nell’Italia succube dei diktat europei che vietano un massiccio intervento statale (anche di fronte a bombe sociali come Taranto) nonché delle esigenze di una borghesia locale parassitaria e del modello predatorio delle grandi multinazionali come Arcelor Mittal. A mantenere questo equilibrio instabile è l’intero asse della concertazione, da tutte le forze politiche parlamentari, compreso il domato M5S, ai sindacati confederali, un asse politico-sindacale rafforzato da una narrazione mediatica che non permette l’emergere questa volta non solo di visioni alternative, ma della lampante verità oggettiva: nessuno degli attori in campo ha l’interesse di risolvere i problemi di una città e della classe operaia schiacciata dal ricatto lavoro-salute.
Senza considerare che siamo nel profondo Sud Italia, martoriato da decenni prima dalla colonizzazione interna, e poi dall’acuirsi delle dinamiche centro-periferia amplificate strutturalmente dal rafforzamento del blocco imperialista dell’Unione Europea.
Sta a noi denunciare l’opera di saccheggio ‘dei vari Sud’ e rimettere al centro del dibattito politico il controllo pubblico animato da logiche di solidarietà, contro la competizione che ormai domina ogni aspetto delle nostre vite.