MILANO, VIA CORELLI. OPPORSI AL (SISTEMA DEI) CPR
Abbiamo assistito in questi giorni alle ultime fasi dell’apertura del centro di permanenza per il rimpatrio di via Corelli, da ieri a tutti gli effetti operativo. La struttura esiste da anni: fino al 2018 era un centro di accoglienza straordinario (CAS), poi chiuso per essere convertito in CPR. Il 2018 è anche l’anno di nascita deI nucleo militante e civile che si oppone e resiste all’apertura del centro, la rete NO CPR, che ha convocato due presidi per dire no a questa barbarie la scorsa settimana.
É chiaro a tutti che il Comune e il PD milanese, che da anni fingono di opporsi ai lavori in via Corelli pur proseguendoli senza interruzioni, non hanno alcuna intenzione di bloccare l’apertura del centro. La piazza di venerdì, a questo proposito, di fronte alla prefettura di corso Monforte ha avuto la forza di rigettare i giochetti di Palazzo Marino, che in settimana era riuscito a sdoppiarsi, coprendo mediatamente sia a destra con Sala, che sui giornali si era vantato dell’efficienza milanese nei rimpatri, sia a sinistra tramite una parte dei consiglieri PD, che avevano imbastito una protesta contro l’apertura del centro tanto teatrale quanto ipocrita.
Proprio in queste ore il PD al governo sta discutendo la bozza per un nuovo decreto migranti che, lungi dal superare nella sostanza l’impostazione repressiva del decreto Salvini, appare un’operazione atta a istituzionalizzare un’inclinazione ormai di lunga data in Italia al razzismo di Stato. Da anni è a tutti evidente che le misure di repressione contenute nei decreti Salvini sono l’esplicitazione delle politiche di criminalizzazione e marginalizzazione impostate già dai ministri Orlando e Minniti nel 2017. Lo stesso Minniti tra l’altro, con il decreto sulla sicurezza urbana, fu il primo a creare un forte nesso tra la questione della sicurezza e la questione migratoria. L’apertura dei CPR in tutta Italia è stata avviata dal PD, proseguita dalla Lega e completata dalla ministra Lamorgese, la quale ha pure rinnovato gli accordi criminali con la Libia già chiusi dal governo Gentiloni. Il teatrino della discontinuità sulle politiche di controllo tra Lega e PD è ormai ridicolo e si fonda esclusivamente sull’utilizzo da parte dei due soggetti di un linguaggio diverso.
Proprio sulla base del linguaggio il PD e la sinistra milanese hanno cercato ipocritamente negli ultimi anni di intestarsi la battaglia dell’antirazzismo, imponendovi una connotazione multiculturalista e individualista deleteria, che appiattisce una questione dal fortissimo impatto sociale su un piano strettamente culturale, da agitare all’occorrenza in chiave elettorale. L’utilizzo di parole come tolleranza, solidarietà, diversità – attinte dal sistema concettuale cattolico e incentrate sulla fascinazione estetica per la differenza, quasi che il migrante non sia altro che una comparsa o un negozio esotico all’angolo di un quartiere colorato – non solo è una copertura alla totale mancanza di volontà da parte delle parti politiche di tutelare i più deboli sul piano di diritti civili e sociali, impedendo loro dunque ogni possibile concreta emancipazione, ma fa da sponda all’individualizzazione dei rapporti sociali e produttivi, e indebolisce di fronte alla società e al mondo del lavoro soggetti già ai limiti della marginalità, alimentando la logica del razzismo e della guerra tra poveri.
La condizione di irregolarità e estrema precarietà in cui molti migranti si trovano, infatti, li priva di qualsiasi potere contrattuale e li forza per necessità a entrare nel sistema del lavoro nero, del caporalato, dello sfruttamento, per esempio nei settori dell’edilizia o dell’agricoltura. In questo modo si producono due ordini di effetti: da una parte aumentano i profitti in funzione dell’abbassamento del costo della manodopera; dall’altra si crea tra i lavoratori la competizione dovuta all’idea che la mancanza di lavoro sia imputabile agli immigrati disposti a lavorare in condizioni di sempre minore tutela – siparietto ridicolo montato ad arte da Lega e affini. La competizione tra lavoratori ostacola poi l’organizzazione delle rivendicazioni sindacali, isola i lavoratori e rende difficile rompere il meccanismo dello sfruttamento stesso.
La necessità qui e ora è quella di ribellarsi alla retorica individualista. Non possiamo batterci per la liberazione delle frontiere, per il diritto al movimento, come se i migranti che scappano, disperati, spesso abbandonando le famiglie, da paesi in guerra, affamati dalle politiche imperialistiche europee lo facessero per propria libera scelta, per cercare una vita migliore o per realizzare un sogno, come emerge dalle narrazioni più individualiste del multiculturalismo.
La libertà di movimento è un diritto per cui battersi, ma tale libertà è vera, solo se chi parte non lo fa per costrizione, per bisogno o disperazione, perché scappa dalla guerra, perché non ha lavoro, perché non ha una casa, perché non ha accesso a un’istruzione adeguata o a un sistema sanitario.
Lottare per la chiusura del CPR è fondamentale e noi saremo sempre nelle piazze a ribadirlo, ma non è sufficiente, le nostre rivendicazioni politiche devono mettere in discussione la precarietà sociale che i migranti, come tutte le fasce più deboli della popolazione si trovano ad affrontare fuori dai CPR. L’accoglienza a marchio PD mostra tutta la propria ipocrita inconsistenza quando si scontra con la realtà, come ad esempio, ci ricordiamo, è successo durante il Lockdown in via Ricciarelli, quando una donna immigrata con la figlia furono sgomberate da un massiccio dispiego di forze dell’ordine – tra i vanti degli assessori PD – solo per aver occupato a scopo abitativo, una casa abbandonata in cui passare la quarantena. Le nostre rivendicazioni devono altresì mettere in discussione il sistema di interessi che – pur nascondendosi dietro un linguaggio spesso illuminato – è il vero motore delle migrazioni forzate degli ultimi anni.
Sono i conflitti armati e la devastazione territoriale a spingere enormi masse di persone a spostarsi verso il cuore d’Europa, dalla cintura di fuoco dell’UE che dalla’Ucraina arriva alla Libia, passando per Siria e Medio Oriente; e sono gli stati europei stessi sotto la guida dell’UE che, con decenni di sfruttamento imperialista dei territori e interferenza nelle dinamiche politiche locali, si sono resi responsabili delle condizioni che costringono queste masse di persone a spostarsi.
La stessa pressione verso la migrazione, certo in condizioni migliori, viene esercitata dal polo produttivo europeo, cioè in particolare dai paesi centrali con le economie più competitive, verso i paesi della periferia europea, come la Spagna, l’Italia o la Grecia, che perdono ogni anno centinaia di migliaia di giovani costretti a migrare per cercare fortuna, schiacciati dalla precarietà, dalla sottoccupazione e dai bassi salari. Chi si muove lungo le catene del valore del Capitale europeo, lungo le direttrici che portano dal sud Italia al nord, dall’Europa mediterranea verso la Germania, segue le stesse linee di accentramento della ricchezza che muovono le masse in fuga dall’Africa; quando le persone si muovono a centinaia di migliaia non lo fanno per noia, ma perché cercano nel core europeo quello che non possono avere nei paesi della periferia, lavori che rispondano alle qualifiche ottenute, possibilità d’impiego, stipendi adeguati, soluzioni abitative sostenibili, la sicurezza sociale.
Su questo fenomeno di spostamento forzato di studenti e giovani lavoratori, che fa convergere risorse, forze e competenze verso il centro dell’Europa sottraendole ai paesi periferici – i quali proprio a causa di questo fenomeno subiscono processi di deindustrializzazione, turistificazione e impoverimento complessivo che sia in emergenza, che in fasi di ripartenza come questa sono un fardello pesantissimo per tanti giovani in cerca di lavoro destinati al sotto-impiego e allo sfruttamento — si è costruita la narrazione del giovane intraprendente, internazionale, che passa attraverso l’Erasmus e poi va a cercare lavoro all’estero. Si tratta di una visione individualista e romantizzata, che vede l’emigrante come un’avventuriero alla ricerca di un sogno e non un precario nel bisogno; la stessa narrazione applicata al migrante in fuga dai paesi devastati dell’Africa, a cui mancherebbe solo la stessa libertà di movimento, suona ancora più distorta.
Le strutture detentive come il CPR sono l’espressione più vicina a noi di questa violenza istituzionalizzata, che si manifesta in molteplici aspetti tanto nella detenzione quanto nella costrizione a emigrare e risulta in un incremento dello sfruttamento. L’apertura di questo come di altri centri deve essere impedita, ma il nostro impegno deve contemporaneamente organizzare forze, che costruiscano un’opposizione concreta al sistema che crea queste disuguaglianze e forza queste migrazioni, usandole per massimizzare i profitti al costo di sempre più vite rovinate.
La nostra lotta deve essere la stessa dei migranti, per condizioni di vita migliori, qui e ora; ma questa lotta non può che partire da un’organizzazione che sappia ricomporre gli interessi sociali comuni e mettere in discussione tanto la narrazione patinata del modello di sfruttamento che ci schiaccia quanto le sue dinamiche materiali.