LA RAPPRESENTANZA UNIVERSITARIA

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INTRODUZIONE

Negli ultimi decenni le strutture di governo dell’università sono state scientemente adeguate ad un modello aziendalistico (tanto a livello dei singoli atenei quanto a livello ministeriale), espellendo gli studenti dalla dimensione politica dando loro sempre meno voce in capitolo, rendendoli impotenti in ogni ambito decisionale e riducendo gli spazi di agibilità politica; dall’altro, la frattura tra il tessuto studentesco e la sfera politica si è delineata anche a causa della permanenza dei pochi organi decisionali di rappresentanza studentesca come unici (e dati per scontato) spazi percorribili di agire politico.

Questi cambiamenti si sono susseguiti in parallelo alle modifiche strutturali che hanno interessato l’Università, volute dai governi di destra come da quelli di sinistra (e soprattutto, potremmo dire), per adeguare la formazione universitaria all’impianto voluto dall’Unione Europea: un’università, quindi, in grado di adattarsi e compensare il più possibile il gap fra produzione sociale ed esigenze del privato, sapendo adattare ogni suo aspetto ai bisogni dell’industria o della brevettistica utile ai settori core dell’imperialismo targato UE nella competizione internazionale (vedi greenwashing, ricerca spaziale, ecc.). Questo ha spogliato l’università della sua possibilità di essere luogo di emancipazione personale e collettiva per le classi subalterne.

Infatti, se venivano svuotate di senso le istituzioni universitarie più “democratiche”, diminuendo sempre di più la partecipazione e l’influenza studentesca, parallelamente veniva rafforzato il meccanismo di centralizzazione del potere decisionale e di indirizzo degli asset strategici dell’università, in particolare nella figura dei rettori e del CDA. Un processo che ha accentuato ancora di più la separazione fra politica e studenti in università, lasciando spazio a quella che è la governance, ovvero il controllo totale nelle mani di una cerchia ristretta che non vuole sentirne del parere degli studenti.

Perché gli organi di rappresentanza sono stati uno degli strumenti fondamentali della creazione di questa frattura? Anzitutto, la rappresentanza universitaria non nasce storicamente come risposta da parte delle istituzioni ad una richiesta dei movimenti di maggiori spazi di agibilità politica, ma anzi trova la propria origine nella funzione corporativa (che spinga cioè gli studenti ad occuparsi solo dell’orticello dei loro problemi, con una conseguente burocratizzazione dell’atteggiamento con cui ci si pone alle contraddizioni del modello universitario) e concertativa. Nel corso della storia ha visto fasi differenti in relazione al contesto politico e al rapporto con i movimenti studenteschi, senza però subire importanti adeguamenti di forma e struttura e, dunque, di democratizzazione dell’istituzione universitaria. Ne risulta, ad oggi, uno strumento perfetto per tutte quelle associazioni studentesche che o schiacciano la politica universitaria su clientelismo e carrierismo personale, trattano la rappresentanza come gestione di fondi ed erogazione di servizi, fanno da ipocrita anello di mediazione tra istituzioni e studenti, o fanno parte di tutta quella sinistra istituzionale (che ha come strutture di riferimento, non solo ideologicamente ma anche materialmente, PD e CGIL) che porta avanti vertenze a ribasso e sistematicamente cerca di concertare e abbassare il grado di conflitto e portata politica di ogni lotta in università.

Un uso che, ricoprendo una funzione di “tappo” rispetto a rivendicazioni che vengono “incanalate” verso esiti “normalizzabili” e controllabili dalla governance d’Ateneo, rende la rappresentanza uno specchietto per le allodole, un elemento nocivo che tenta di illudere gli studenti di avere voce in capitolo mentre in effetti stronca ogni possibilità di spinta di conflitto sociale e politico e di cambiamento del modello universitario e delle linee strategiche dei singoli atenei. In questo modo, le varie organizzazioni e associazioni giocano un ruolo attivo nel processo di depoliticizzazione ed esclusione degli studenti dalla possibilità di avere un potere reale di cambiamento dell’università. 

Parallelamente a ciò, la generale crisi politica si riscontra anche in ambito universitario: il riproporsi nella storia, seppur con modalità differenti, di momenti di una sorta di crisi di credibilità della rappresentanza studentesca e delle organizzazioni che sono storicamente radicate negli organi di rappresentanza, si manifesta oggi in maniera ancora più palese indice di una tendenza storica alla lacerazione del rapporto tra studenti e rappresentanza, a cui si aggiunge il restringimento di tutti gli spazi democratici in università. Uno dei fenomeni che è manifestazione di questa frattura è un altissimo grado di astensionismo alle elezioni universitarie. Senza voler individuare una tendenza netta in una direzione (le percentuali di voto possono oscillare per numerosi altri fattori) e senza poter analizzare i dati dei singoli atenei, legati alle particolari condizioni locali, è sufficiente guardare alle percentuali di voto delle elezioni a cui abbiamo partecipato in passato (Torino nel 2021 e Roma nel 2022): a Torino per gli organi centrali votò meno del 20% degli aventi diritto, mentre a Roma poco più del 20%. Un altro dato da tenere in considerazione, sempre indice della depoliticizzazione e della percezione che gli studenti universitari hanno delle possibilità e della realtà delle rappresentanze, è un’affluenza spesso e volentieri maggiore (ma questo varia di facoltà in facoltà) per gli organi minori (es: assemblee di facoltà, di dipartimento, di corso di laurea, ecc.), i cui lavori, decisamente quasi solo tecnico-gestionali, sono evidentemente sentiti come più vicini e direttamente riguardanti la componente studentesca dagli studenti stessi.

PRIMA PARTE

Dall’analisi degli organi decisionali in cui è presente una componente di rappresentanza studentesca, dal livello nazionale a livello dei singoli atenei, emerge un dato molto forte: nessuno di questi organi può essere considerato effettivamente un ambito di rappresentanza studentesca nel senso di rappresentazione delle esigenze e delle lotte studentesche e di un loro sbocco in una reale trasformazione dell’università. I motivi, oltre ad essere legati al tipo di lavoro che le associazioni che storicamente hanno posti negli organi fanno e hanno fatto (di cui nell’introduzione), sono molteplici, determinati da come sulla carta è impostato il sistema politico-decisionale universitario a livello generale e i suoi organi nello specifico.

Anzitutto, è da sottolineare che l’autonomia universitaria, dunque la decentralizzazione della gestione di tutto il sistema universitario, riducendo le università a enti autonomi di natura sempre più privata (strutturate sul modello aziendale e in competizione le une con le altre per spartirsi il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) e per attirare gli investimenti privati) ha ridotto, oltre che gli spazi di agibilità politica, il potere decisionale dei vari organi. Se in apparenza gli organi di ateneo sembrano avere più potere decisionale proprio in virtù dell’autonomia universitaria, in realtà i lavori di questi organi sono pienamente limitati dalla gestione sul modello aziendalistico, rendendoli quindi non ambiti di rappresentanza studentesca, ma luoghi di legittimazione e inserimento dei privati nell’ateneo.

La quasi totalità degli organi studenteschi, in particolare quelli di ambito nazionale, ha funzioni meramente consultive. Il CNSU (Consiglio degli Studenti Universitari) e il CUN (Consiglio Universitario Nazionale) possono unicamente formulare pareri e proposte al Ministero dell’università e della ricerca, rivolgere questioni al Ministero su fatti di rilevanza nazionale riguardanti la didattica e la condizione studentesca, presentare relazioni informative. Non hanno dunque nessun potere decisionale, ma emanano pareri perlopiù non recepiti, cui sono date risposte tardive o addirittura nulle, e che in ogni caso resterebbero unicamente formali.

Inoltre, in gran parte degli organi (si veda il CRU, Comitato Regionale di Coordinamento delle Università, il Comitato Consultivo dell’ANVUR, il Consiglio di Amministrazione e il Senato Accademico nei singoli atenei) la componente degli studenti è in proporzione molto bassa, di fronte a un numero molto più alto di professori (che, sappiamo, sono coinvolti, volontariamente o meno, nelle dinamiche di tenuta del sistema universitario e spesso nel più becero carrierismo, che si traduce in cieca sudditanza verso rettori, ministri, ecc.) e soprattutto di vertici apicali di aziende private e multinazionali.

L’organo che è l’esempio più eclatante della direzione netta che ha preso il modello organizzativo-politico dell’università è il Consiglio d’Amministrazione. Un organo che dal modello aziendale non prende solo il nome, ma anche i suoi poteri: esautorando di fatto il Senato Accademico, con membri (eccetto una parte in proporzione piccola di studenti) nominati direttamente dal rettore e con membri totalmente esterni all’università, è l’elemento centrale dell’attuale forma di governance imponendo un processo decisionale basato sui criteri di sostenibilità finanziaria e di partenariato con il tessuto produttivo privato.

SECONDA PARTE

Nel momento in cui si cerca di portare avanti dei ragionamenti e un lavoro pratico sulla rappresentanza, alla luce dell’analisi di cui sopra sulla condizione attuale della politica in università e della rappresentanza studentesca, è fondamentale distinguere tra quella che è la funzione che l’istituzione universitaria dà alla rappresentanza, pienamente accettata e rafforzata dalle organizzazioni sopra citate, da quella che è l’uso che noi scegliamo di farne. L’ottica nella quale decidiamo di lavorare sulla rappresentanza non è quella della concertazione e del raccordo con le istituzioni (in definitiva la funzione con la quale, storicamente, sono stati strutturati gli organi della rappresentanza studentesca): l’obiettivo di una nuova rappresentanza studentesca dev’essere quello di rompere con le forme attuali e con la prassi politica portata dalle organizzazioni concertative, riuscendo a fare di questo strumento sia una capacità di mobilitazione dal basso in Università sia da megafono delle lotte che si vengono a creare negli atenei. Ogni rappresentante dovrà essere quell’elemento in grado di svolgere un’azione di disturbo anche negli organi dell’università, mostrando la possibilità e la necessità del conflitto studentesco.  

L’importanza della partecipazione alle elezioni è da inquadrare anche come appuntamento a cui non mancare per non lasciare totale libero gioco alle altre organizzazioni universitarie. In periodo di campagna elettorale la maggior parte delle organizzazioni (sicuramente tutte quelle che vivono di rendita dei posti in rappresentanza che periodicamente ottengono) si risveglia.

Rompere con la rappresentanza attuale non implica solo il partecipare alle elezioni dei vari organi (da quelli dei dipartimenti a quelli degli atenei, cercando poi di muoversi sempre più in ottica nazionale) con dei programmi elettorali fortemente d’alternativa, ma vuol dire fare un lavoro di più ampio respiro all’interno del tessuto studentesco. Riportare la politica tra la componente studentesca, ricostruire una coscienza e un movimento di classe anche dentro le università, riportare la necessità di un protagonismo e una partecipazione attiva del tessuto studentesco rifiutando la logica della delega, sono dei presupposti necessari affinché la rappresentanza possa essere elemento di rafforzamento delle lotte in università e degli obiettivi politici che si pongono le lotte studentesche.

Seppur ad oggi solamente a livello locali di singoli atenei, abbiamo percorso delle sperimentazioni in passato dalle quali trarre alcune riflessioni. Nonostante le differenze nei contesti tra le varie città, il filo conduttore che ha unito le esperienze, uno degli elementi politici centrali, è stato la costruzione delle elezioni immaginando la rappresentanza come megafono delle lotte. Le nostre liste sono liste di lotta, perché non sono costruzioni temporanee messe in piedi con l’idea di tirare a campare grazie alla rappresentanza, ma il rilancio delle lotte che quotidianamente organizziamo nelle università e la costruzione dell’organizzazione stessa. L’esempio più vicino sta nelle elezioni dell’autunno 2022 in Sapienza: nelle settimane precedenti sono state organizzate mobilitazioni (dagli scioperi per il sovraffollamento della aule fino all’occupazione di Scienze Politiche, passando per i presidi sotto il rettorato e il confronto con la governance d’ateneo) e, tra le varie liste candidate, siamo riusciti ad affermarci come l’unica realtà in grado di lottare sistematicamente e in modo organizzato contro questo modello universitario e sociale che ormai sempre più studenti considerano e vivono come problematico e, soprattutto, contro i fondi diretti alla guerra e non al diritto allo studio.

Oltre al terreno del conflitto organizzato, sicuramente per noi un altro piano di costruzione dell’organizzazione e della lotta per una nuova università si gioca anche sulla concezione complessiva del modello universitario. Percorriamo questo terreno scrivendo un programma elettorale che sia un manifesto politico sull’università e il suo ruolo nella società, che allo stesso tempo contenga delle rivendicazioni concrete che, pur nella loro specificità e parzialità, mantengano dentro di sé gli aspetti più politici più alti che sappiano trasmettere l’obiettivo più complessivo che deve sempre rimanere da bussola, ovvero il cambiamento dell’università all’interno di una prospettiva generale di cambiamento della società.