Osservazioni intorno a “Week End” di Jean-Luc Godard
Esiste un filone cinematografico, che comprende opere e autori che hanno segnato il passo nella storia della cinematografia, ma anche artisti e oggetti filmici meno conosciuti al grande pubblico, ma non per questo meno significativi. Tale filone si caratterizza per un utilizzo del mezzo cinematografico finalizzato a narrazioni, immagini e simboli di conflitto contro l’ordine capitalistico, di alternativa allo stato di cose presente. Ciò non riguarda solo il contenuto di tali opere, ma il concetto stesso di produzione cinematografica e distribuzione sotteso a certi interessanti esperimenti. Questo vuole essere il primo contributo di una serie di “riscoperte” di questo genere di cinematografia, senza la presunzione di scoprire gemme dimenticate dal fondo sedimentato della storia. Quello che ci interessa è mettere alla prova, tentare di capire in che modo il cinema è stato, e può ancora essere, arma di critica e mezzo di “catarsi” dai cascami culturali dell’ideologia dominante.
La mia lotta particolare è la lotta contro il cinema americano, contro l’imperialismo economico ed estetico del cinema americano che manda in rovina il cinema mondiale – J. L: Godard (1967)
Un lungo piano sequenza ha reso celebre il film, la macchina da presa segue un ingorgo stradale dove i passeggeri delle auto, uomini e donne, regrediti alla barbarie, litigano, si picchiano e si uccidono mentre le loro vetture collidono mortalmente. Questo avviene durante il momento distensivo della settimana, quello delle gite fuori porta, del relax dopolavoristico: il week-end.
Una coppia è nell’ingorgo; li abbiamo visti, dopo i titoli di testa, discutere dell’eredità del padre di lui; sperano di ottenere 50 milioni di franchi per realizzare la loro dolce vita; li vedremo perdersi in un viaggio surreale che va ben oltre il sabato e la domenica, e i loro sogni di ricchezza.
Il montaggio del film è frenetico, caotico il susseguirsi delle immagini, profonda è la diacronia tra esse ed il sonoro, frequente è il montaggio “cartelli didascalici”. I personaggi si rivolgono alla telecamera, o fanno affermazioni di stampo meta-filmico.
Tutti elementi atti a rompere con la finzione cinematografica. Le influenze vanno dalla teoria dello straniamento brechtiano alle teorie sul montaggio dei Dziga Vertov.
Brecht aveva progettato questo meccanismo per il suo teatro epico con lo scopo di evitare l’identificazione coi protagonisti e rompere il naturalismo-narrativo borghese; prima di Brecht, anche il cineasta sovietico Vertov pensava che il montaggio delle immagini avrebbe avuto il compito di superare la sceneggiatura e la struttura drammatica del teatro classico troppo presente nel cinema e incapace di dar luogo ad una vera sperimentazione del mezzo tecnico: La macchina da presa. Affermava parafrasando Marx: “Il cine-dramma è l’oppio dei popoli”. Un cinema rivoluzionario avrebbe dovuto rompere le strutture narrative Hollywoodiane ispirate al teatro classico, per riportare il cinema alla realtà e al servizio di una precisa classe sociale, il proletariato.
Durante il viaggio la coppia incontrerà Saint-Just che legge proclami rivoluzionari – parodia della rivoluzione borghese che dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo è passata a quella del diritto al week-end; i coniugi bruceranno Emily Brontë perché incapace di fornire indicazioni stradali presa dalle sue riflessioni poetiche. Il regno immaginario della letteratura e del linguaggio poetico è in antitesi rispetto alla ragione strumentale da cui sono pervasi e deve essere soppresso.
Girovagando troveranno un passaggio, offertogli da due netturbini, un congolese ed un algerino; l’uno darà la voce all’altro spiegando vicendevolmente la lotta di liberazione dall’imperialismo dei loro popoli, mentre i due borghesi svolgeranno il lavoro al loro posto.
Sequenza chiave è la lettura e parafrasi tenuta da una voce fuori campo (probabilmente quella di Godard stesso), ai due protagonisti, del testo di Engels “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, dove viene ricordato che il passaggio dalla barbarie alla civiltà avviene con la trasformazione delle tribù cooperanti in democrazie militari in lotta l’una contro l’altra, processo che ricorda il salto storico-economico, descritto da Marx e poi Lenin, che porta dal capitalismo a libera concorrenza al capitalismo dei monopoli caratterizzato dalla tendenza alla guerra.
In barba a Kant e al sogno illuministico di “pace perpetua” garantita dagli scambi economici tra nazioni civilizzate. Il progresso che il capitalismo dovrebbe portare con sé si rivela essere la nuova barbarie: la società dell’automobile, del fordismo ad egemonia statunitense che bombarda al napalm la popolazione vietnamita.
Nell’ultimo quarto d’ora la coppia è rapita da uno scalcinato gruppo di rivoluzionari, guidati da un ufficiale-capo che recita I canti di Maldoror di Lautréamont ( il celebre passo: “ti saluto Vecchio Oceano!”) in un’ambientazione che ricorda le giungle vietnamite. Il marito rimarrà ucciso in uno scontro a fuoco, dopo la sua morte l’ufficiale pronuncerà la frase “gli orrori della borghesia si superano solo con orrori più grandi”; nell’ultima scena troviamo la moglie divorare il marito insieme all’ufficiale-rivoluzionario, un rito cannibalico d’assimilazione della classe sconfitta, allusione alla violenza rivoluzionaria che sta scuotendo il terzo mondo e che col sessantotto scuoterà anche l’occidente.
Francesco Bugli, Noi Restiamo