L’ELEFANTE NELLA STANZA: GIOVANI IN EMERGENZA COVID! Organizziamoci per invertire la rotta!

Trascorsi quasi due mesi dall’inizio del parziale lockdown del Paese, in questi giorni si moltiplicano articoli, commenti e analisi sulle difficoltà che affrontano le fasce giovanili della popolazione. Adesso tutti si accorgono che, per l’ennesima volta, a pagare il prezzo più alto di questa crisi saranno i giovani, già vittime degli effetti più devastanti della crisi, mai davvero finita, del 2008. È un coro quasi unanime, dalla peggior stampa borghese (addirittura Repubblica, fresca di acquisto da parte della famiglia Agnelli) a esponenti della politica e persino del governo; un coro che però si limita a indicare il problema senza avere nessuna intenzione di mettere in campo delle soluzioni, segno che il problema esiste – e lo sappiamo benissimo – ma manca la volontà politica di affrontarlo.

Il caso dei lavoratori stagionali, che nel centro-sud sono composti al 40% da giovani, rappresenta molto bene questa situazione. Il turismo del resto è uno di quei settori che da sempre si basa sullo sfruttamento di mano d’opera, spesso in nero e con paghe da fame, di cui una larga fetta è composta da giovani. Molti di questi, occupati in settori paralleli e di supporto a quello turistico, non hanno ricevuto il bonus da 600 euro poiché spesso l’azienda non rientra nei codici Ateco previsti dal dpcm “Cura Italia”.

Un altro esempio sono i tirocinanti, che sono stati completamente abbandonati in quanto per contratto sono senza stipendio e si ritrovano con il tirocinio bloccato per la sospensione delle attività aziendali, senza che sia stato preso alcun provvedimento per assicurare un sussidio.

Anche la stampa borghese, quindi, si rende conto di come la crisi in corso colpisca trasversalmente la classe lavoratrice ma si accanisca in particolare sui giovani, completamente dimenticati dalle istituzioni e dal governo. La disoccupazione giovanile è infatti stata il triplo rispetto alla media nazionale negli ultimi anni, e si andrà inevitabilmente ad acuire drammaticamente nel post-pandemia, considerando, come riportato nell’articolo, che “il 33,5% dei lavoratori ancora fermi per il lockdown hanno tra i 20 e i 29 anni, contro il 13,1% tra i 50 e i 59 anni e il 4% degli ultrasessantenni. Mentre, tra i lavoratori che hanno proseguito anche nel periodo di picco della pandemia solo il 14,6% sono giovani”.

Tuttavia, l’articolo di Repubblica vede nell’essere studenti universitari una condizione privilegiata tra i giovani. Questa lettura superficiale non considera però il problema immediato degli affitti, spropositati a causa della liberalizzazione dei prezzi di mercato con la legge 431/98, e delle utenze da pagare; delle rate universitarie, diventate negli anni sempre più alte e non sospese a causa della pandemia; della DAD, che non riesce a compensare la qualità del servizio in presenza e il divario digitale presente nel 30% delle famiglie; del materiale scolastico, sempre più costoso e difficile da reperire. Inoltre, non si tengono in considerazione le riforme strutturali subite nel campo dell’istruzione a partire dagli anni ‘90, che hanno aumentato il divario sociale tra chi può accedere a un’istruzione di alta qualità distante da casa, chi è costretto a scegliere atenei di serie b di prossimità e chi lo studio universitario non riesce proprio a permetterselo. La categoria degli studenti universitari rappresenta sicuramente una percentuale ridotta dei giovani, ma è un errore considerarla omogenea al suo interno e vedere un netto scollamento rispetto a chi sceglie di passare dalle scuole superiori direttamente al mondo del lavoro, in quanto la fetta di coloro che per permettersi gli studi universitari sono costretti a lavorare è andata sempre più aumentando e approfondendosi.

Se quindi i dati e anche le analisi dei giornalisti iniziano a mettere in luce le contraddizioni che si stanno accumulando sulla fascia giovanile della popolazione, non dobbiamo cadere nella lettura che questi provano a dare. In questo senso dobbiamo saper interpretare la condizione strutturalmente precaria e sfruttata dei giovani e saper indicare le misure adottate finora come il prodotto di una precisa visione politica ed economica, che concepisce l’impresa e l’imprenditoria come il centro della produzione di valore e di ricchezza, da cui deriva la necessità di investire unicamente a quel livello della scala produttiva.

Noi giovani abbiamo conosciuto solo la crisi. Siamo entrati in un mondo lavorativo già indebolito da pesanti attacchi, volti alla flessibilizzazione e al taglio dei salari – per garantire maggiori margini di profitto, mentre si andavano erodendo a livello globale – e caratterizzato da elevati tassi di disoccupazione e redditi più bassi della media della popolazione (come si riconosce anche nell’articolo). I pilastri ideologici che hanno supportato la precarizzazione del mondo del lavoro sono stati l’individualismo e la competizione sfrenata, che ci hanno inculcato nelle giovani menti sin dalla più tenera età scolastica. Una visione che non faceva altro che adeguare i cambiamenti strutturali che avvenivano in parallelo nel mondo dell’istruzione e nel mondo del lavoro. Scorrendo gli anni è evidente: ad esempio la Bozza Martinotti del 1997, preceduta dalla legge Ruberti, viene pensata lo stesso anno della legge Treu, antefatto della legge Biagi.

Non dobbiamo quindi dimenticare che siamo solo la prima linea di questa lotta di classe condotta dall’alto, che si abbatte su tutta la classe lavoratrice e in particolare sulle fasce sociali più deboli. Ci hanno sempre fatto credere che questa situazione fosse immutabile senza possibili alternative e che le regole non si potessero cambiare. Tuttavia, gli stessi interventi straordinari attuati dagli stati europei per rispondere alla pandemia, rompendo talvolta le regole da loro progettate, ci mostrano che non esistono leggi immutabili e che tutto dipende dalla volontà politica.

Di fronte a questa situazione, a una crisi che ci ha lasciati senza lavoro, con bollette, tasse universitarie e affitti spropositati da pagare, non possiamo lasciare che la classe dirigente continui a tutelare spudoratamente il grande interesse privato addebitando i costi della crisi che loro hanno generato sulle spalle della stragrande maggioranza del paese, giovani in primis.

Così come abbiamo iniziato a fare con la campagna blocco affitti e utenze e per il diritto allo studio, dobbiamo unirci e rinsaldare il nostro tessuto sociale, atomizzato e scardinato. Dobbiamo mettere in radicale discussione questo modello di sviluppo, rifiutando di pagare i costi futuri della sua ripresa. Sappiamo che, al di là delle belle parole, nessuno ci regalerà niente. Dobbiamo continuare ad organizzarci e lottare insieme come abbiamo fatto in queste settimane, perché l’organizzazione è lo strumento più potente che abbiamo in mano per far sentire la nostra voce e pretendere il cambio radicale di un sistema che ci costringe a una vita di miseria.

Per questo domani, 5 maggio, torneremo in piazza, nel rispetto delle norme sanitarie. Per pretendere casa, reddito e diritto allo studio subito; per rompere l’isolamento e il silenzio delle istituzioni su temi così urgenti. Manifesteremo davanti alle prefetture i nostri bisogni, il dissenso e la rabbia di chi non ce la fa più a sentire le vuote promesse di una classe politica che si fa dettare l’agenda da Confindustria sulla nostra pelle.

Dobbiamo aprire la strada ad un mondo diverso, perché tutto non deve tornare com’era prima, perché il prima era il problema.