Tecnopolo di Bologna: 100 milioni di soldi pubblici, ma al servizio di chi?

Il tecnopolo è un enorme plesso, di proprietà Unibo, che sorgerà a Bologna, al posto dell’ex Manifattura Tabacchi, ed occuperà uno spazio di oltre cento mila metri quadrati di suolo pubblico, completamente finanziato da fondi pubblici, divisi tra la Regione e il Ministero della Università e della Ricerca. Sarà diviso in due poli principali: nel primo troveranno spazio il Centro Meteo Europeo, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare ed il nuovo calcolatore scientifico ad alta prestazione Leonardo, di proprietà dell’Unione Europea.

Il secondo polo, quello più ingente sia in termini di metri di suolo occupato che di costi sostenuti, presenterà divere strutture al suo interno. Ci sarà al suo interno Art-Er, un’organizzazione volta a sostenere lo sviluppo della conoscenza e dell’innovazione in tutto il tessuto produttivo, la sua “crescita sostenibile”, il consolidamento della ricerca industriale, l’assistenza a start-up ed imprese, l’internazionalizzazione del sistema produttivo. Collaborerà con enti pubblici di ricerca e con scuole di professionalizzazione politecnica. Una sorta di stretto connettore, che troverà ospitalità nelle strutture dell’università, fra mondo della formazione e dell’impresa.

Ci sarà poi il Centro europeo della ricerca, che mirerà ad essere uno dei centri d’eccellenza per settori che sempre di più vengono visti dall’Unione Europea come strategici, e a cui le cosiddette ‘eccellenze’ sono votate. Tant’è che senza nessuno scrupolo di nascondere i processi che stanno avendo, l’università lo definisce “l’incubatore delle nuove imprese nel comune di Bologna”, con la solita retorica vuota sull’innovazione e l’industria 4.0 che vedrà il suo sviluppo sulle spalle della condizione materiale dei giovani.

Un altro attore che sarà presente è Bi-Rex, un ente privato che si prodiga a collegare ulteriormente la ricerca pubblica ai bisogni del tessuto imprenditoriale (in Emilia Romagna e non solo), di consulenza per le imprese e del trattamento dei brevetti per stimolare (sempre le solite) l’innovazione della nuova industria 4.0.

Guardando alla costruzione di questo complesso costato più di cento milioni di soldi pubblici e finanziato anche dal Ministero degli Esteri (15 milioni) scorgiamo subito quello che è un processo che da tempo è già in atto nell’università di Bologna, e che si può dire sia ormai strutturato ed evidente: l’elitarizzazione. Infatti, di fronte alla crisi pandemica e alle difficili condizioni vissute dalla comunità universitaria, i fondi stanziati risultano insufficienti rispetto all’investimento per questo tecnopolo. Unibo non ha mai nemmeno immaginato di poter attuare l’abolizione delle tasse dell’anno accademico né si è premurata di trovare spazi alternativi per garantire le lezioni in presenza agli studenti, oppure un investimento nelle strutture pubbliche come gli studentati, per poter garantire a tutti – a fronte di un mercato degli affitti rimasto alto a causa dei sussidi pubblici versati direttamente nelle tasche dei palazzinari – la possibilità di vivere la vita universitaria in presenza. Ha invece preferito investire nella didattica a distanza, cifre comunque molto esigue rispetto a quelle di cui stiamo parlando, facendosi bella nelle classifiche nazionali e spacciandosi come università all’avanguardia. La digitalizzazione è sicuramente, e con questa pandemia ancora di più, uno degli indici che fanno sì che un ateneo sia considerato un’eccellenza.

Il cammino che intraprende, invece, è molto chiaro: non avendo presente il quadro generale in cui si muove l’università di Bologna, si potrebbe pensare che le briciole investite nei rimasugli del welfare universitario siano un segnale di interesse verso le condizioni della comunità universitaria. Così non è se si apre un po’ lo sguardo.

L’elitarizzazione sta venendo consolidata sulle spalle degli studenti e delle studentesse sempre meno tutelati e sempre più abbandonati a misure vaghe e contradditorie, dei ricercatori che non si stanno vedendo prolungato il loro tempo di ricerca nonostante tutti i limiti che affrontano quotidianamente, un organico dei professori sempre a ribasso e un numero di dipendenti dell’amministrazione ancora insufficiente. I soldi ci sono e vengono investiti con un piano ben preciso: la costruzione del tecnopolo mira a fornire la presenza di una struttura che possa essere un riferimento per il tessuto delle imprese, sia per la ricerca sia per la formazione di qualità (qualità per chi?). Questo produrrà un ulteriore concentramento dei finanziamenti presso il polo bolognese, sia di carattere nazionale che europeo, che potranno fare a loro volta da spinta per i finanziamenti privati. Un circolo vizioso, quindi, prodotto dall’impostazione con cui vengono erogati i fondi, e che allarga sempre di più la forbice fra atenei d’eccellenza e atenei di serie B. A chi ha, sarà dato ancora di più, a chi non ha, non verrà dato niente. Questa strategia la si vede chiaramente con tutti gli altri progetti inseriti all’interno di questo tecnopolo: il Centro Europeo per la Ricerca, il calcolatore scientifico e nella volontà di candidare questa struttura per ospitare l’Università delle Nazioni Unite (che sarebbe la seconda in tutta Europa, la prima in Europa meridionale).

L’altro elemento, complementare a quello precedente, su cui si sviluppa l’elitarizzazione è lo stretto rapporto con i privati. Il tecnopolo avrà Alt-Er, la fondazione Bi-Rex e sarà “incubatore di start-up”, per rafforzare ulteriormente quello che è già uno schiaffo ai bisogni sia della comunità universitaria che della società tutta. È inoltre il simbolo tangibile dello svilimento del ruolo della ricerca che, oltre ad essere retto sulle spalle di ricercatori, dottorandi e specializzandi precari e sfruttati, non solo andrà ad esclusivo beneficio dello sviluppo e del profitto privato, ma sarà completamente subordinata ai bisogni ed al volere delle imprese, nonostante sia resa possibile solo tramite ingenti investimenti pubblici e attraverso lo sforzo collettivo di tutta la società. È un ulteriore step per Alma Mater in questa direzione che, supportata da panorama politico della galassia PD-CGIL che governa l’Emilia-Romagna, utilizza coscientemente i propri fondi poiché siano utili alle imprese del territorio, inserendosi perfettamente in quella volontà politica europea di diventare la più grande economia della conoscenza nel mondo, attraverso la concentrazione di investimenti e di centri per la ricerca: Bologna si candida ad essere esattamente uno di questi. È un vantaggio enorme per le imprese che, in questo modo, cedono il rischio della ricerca al pubblico, per poi goderne i frutti.