Quel che resta di Selma
Negli ultimi anni si sta affermando una sorta di nuovo filone nella cinematografia hollywoodiana, al quale appartengono film come The Butler (2013), Dodici anni schiavo (2014) e il recentissimo Selma – La strada della libertà. Pur nelle notevoli differenze stilistiche, tutti questi film trattano in modo epico la storia della minoranza afroamericana nel periodo della schiavitù e della segregazione razziale.
Rispetto ai primi due film che abbiamo nominato, si può dire che l’ultimo, opera della giovane Ava DuVernay, sia il meglio riuscito, soprattutto se si tiene conto della difficoltà di mettere sullo schermo una figura alla quale Hollywood non aveva mai dedicato un biopic, come quella di Martin Luther King. Il film racconta le tre marce percorse da Selma a Montgomery, in Alabama, dal leader nero a capo del movimento per il diritto al voto degli afroamericani. Il tema centrale riguarda quindi uno dei momenti fondamentali della storia del movimento per i diritti civili e della lotta per l’integrazione guidata da King.
Bisogna dire che, nonostante qualche pecca e il tono enfatico leggermente stucchevole, il film ha qualche buono spunto da offrire. Prima di tutto, restituisce un’immagine di King più complessa di quella stereotipata ed edulcorata, mostrando il suo pragmatismo politico piuttosto che adagiarsi sull’oleografia consueta dei buoni sentimenti e di quella non-violenza integrale e aprioristica che non gli apparteneva [1]. Il Martin Luther King di Selma è dunque distante dalla figura mansueta che viene evocata oggi, ad esempio, in seguito a uno scontro di piazza o in nome di una neutralizzazione “legalitaria” del conflitto sociale.
Molte polemiche ha destato la rappresentazione del presidente Lyndon Johnson, firmatario del Civil Rights Act e del Voting Right Act, a causa del fatto che, nel film, la sua alleanza con il leader afroamericano sembra più dettata dal calcolo politico che non da vera convinzione ideologica. La regista arriva a rappresentare l’avversione ed il timore della Casa Bianca per le potenzialità del movimento guidato da King, in grado di spingere il presidente a farlo sorvegliare dall’FBI. Probabilmente coloro che hanno accusato di falsità storiche il film, non sono a conoscenza (o fingono di non esserlo) delle minacce e intimidazioni cui fu sottoposto il pastore afroamericano proprio dall’FBI di Hoover, delle quali Johnson non poteva essere all’oscuro [2].
Oltre agli aspetti più degni d’interesse, bisogna però dire che, finita la visione di Selma, il tono trionfalistico del film contrasta con la realtà dei cittadini e cittadine afroamericani di oggi. A questo proposito, c’è un dialogo illuminante nella parte iniziale del film, quella meno solare e retorica. In esso King esprime i suoi dubbi in merito al buon esito degli sforzi del movimento, ed afferma (vado a memoria) “Stiamo conquistando il diritto a sederci in un ristorante mentre oggi un nero non può permettersi nemmeno un hamburger”. A parte questa sferzata, che ha tutta l’aria di rivolgersi direttamente al presente, Selma sembra perdersi troppo nella celebrazione mitizzante del passato, che certamente avrà scaldato i cuori dei più nostalgici. Eppure nelle scene di violenza sui manifestanti di Selma c’è Ferguson: ci sono Mike Brown, Eric Garner, tutte le vittime della povertà, dell’emarginazione e della brutalità poliziesca che ancora oggi colpiscono la comunità afroamericana. Invece di rimarcare l’incompiutezza del progetto di Martin Luther King e la necessità di completarlo, mi sembra che l’intento del film sia più votato alla retrospezione glorificante, al contrario di altre operazioni narrative più coraggiose [3]. È forse il caso di iniziare a domandarsi cosa rimane delle marce di Selma; ed anzi, piuttosto che rivolgersi unicamente al romantico passato, di puntare su narrazioni che mostrino francamente la necessità di un rivolgimento dello stato di cose presente, per mettere fine al razzismo quotidiano, ovunque si annidi, nei ghetti americani, nelle banlieue francesi e nei quartieri popolari delle città che abitiamo.
[1] Si consiglia la lettura del saggio di Domenico Losurdo La non-violenza. Una storia fuori dal mito, in particolare la sezione dedicata proprio a MLK.
[2] http://contropiano.org/articoli/item/27552
[3] Mi viene in mente, ad esempio, quella del Malcolm X di Spike Lee, con l’inserimento nei titoli di testa di alcuni fotogrammi del pestaggio di Rodney King ad opera della polizia, il tutto reso ancor più potente dalla voce del leader musulmano in sottofondo https://www.youtube.com/watch?v=PqM29bJ3NaI
Marco Montanarella – Noi Restiamo