Generazione Erasmus o Working Poor Generation?
Il voto inglese della settimana scorsa ha un’aspetto epocale, che si inserisce in una lunga scia che viene confermata: la vittoria del Leave, a favore della Brexit dall’Unione Europea, è soltanto l’ultimo esito antieuropeista di una lunga fila di referendum convocati qua e là nel continente per esprimere un parere sulle istituzioni comunitarie, sempre respinte dalle consultazioni popolari. Da giorni stiamo assistendo a tonnellate di commenti che si rincorrono, si attaccano, si giustificano nel merito e nel metodo: chi è il colpevole, ci sono colpevoli, si poteva evitare, che facciamo adesso?
Forse per condizione anagrafica, forse per scelta di un ambito d’azione prediletto, a noi hanno colpito alcuni particolari aspetti di questo ennesimo scricchiolio dell’UE, inerenti alla dimensione ideologica e al bombardamento mediatico di alcuni particolari concetti: ci riferiamo al millantato scontro generazionale “giovani pro VS vecchi contro” (l’UE), e alla nozione rimbombante di “generazione Erasmus”.
Le bacheche dei social network sono state intasate di commenti relativi alla chiusura delle frontiere, alla futura impossibilità di muoversi verso la Gran Bretagna per studio o lavoro, al futuro dei giovani rubato dai vecchi (e dai rozzi, ignoranti, indegni lavoratori delle periferie), alla mala gestione dei flussi migratori, in un’isteria collettiva alimentata dal terrore e dal rifiuto per frontiere e confini e per le destre xenofobe che cavalcano movimenti popolari irrazionali. Calma, calma e sangue freddo: facciamo un passo indietro e vediamo di mettere logica e ordine.
1) Analisi dei dati
Condizione necessaria per accostarsi alla Brexit, come in generale a qualsiasi accadimento politico, è innanzitutto la capacità di saper realizzare una lucida analisi fattuale.
Come di fronte ai dati di Google Trends ci si è fatti abbagliare senza capire che la ricerca “What is the EU?” aveva avuto dopo il voto solo un incremento relativo estremamente insignificante, altrettanta leggerezza è stata dimostrata sin dalle prime ore dopo la chiusura delle urne da chi avanzava commenti sociologici senza essere andato a spulciare le ben più importanti statistiche elettorali che permettessero di controllare la veridicità dei titoli mainstream secondo cui oltre il 70% dei giovani vota per rimanere nell’Unione (concentrandosi in particolare a Londra), contrapposti a un 70% di anziani che vuole tornare alla sovranità nazionale piena (scelta che è espressione delle province periferiche). Sembrano dati inequivocabili, tanto che Repubblica si sente in dovere di delineare il profilo dell’europeista modello: giovane, colto e upper-class, niente a che vedere con i vecchi ignoranti delle periferie degradate e povere, che rifiutano di entrare a far parte dei circuiti internazionali europei che nella City trovano massima rappresentanza.
Pochi parlano però del fatto che in realtà i giovani inglesi che sono andati a votare sono stati intorno al 34%, contro una cifra nettamente più elevata di anziani: questo dato rende esplicita, ancora una volta, la disaffezione giovanile alla politica, evidentemente non così democratica e partecipativa come vorrebbero farci credere. Sono i giovani, in quanto forza-intellettuale e forza-lavoro futura, a determinare l’ago della bilancia del piano reale, e una così alta astensione ci fa pensare che nei pensieri della maggior parte dei giovani britannici, più che l’Erasmus o i finanziamenti europei per le Start Up, ci sia preoccupazione per un presente che parla di precariato, disoccupazione, ipersfruttamento e un senso generale di abbandono cui sono relegate le loro sorti. Dimenticati e, verrebbe da aggiungere, confinati nelle province produttive delocalizzate, dove il lavoro è ormai un miraggio e la precarietà economica e sociale ormai la regola; provate voi a chiedere un parere sull’Unione Europea a un’intera generazione di giovani rifiutata e parcheggiata… se si astengono e non vi corrono dietro siete già fortunati.
Il dato che leggiamo noi, in sintesi, è questo: da una parte Londra, la City dei banchieri e dei giovani belli e pieni di speranze; dall’altra il 70% e oltre di anziani che, aggrediti nei loro redditi, nei loro diritti e nella lora forza rappresentativa, votano Leave, e fanno il paio con il quasi 70% di giovani che, senza speranza alcuna in questa o in quella istituzione, rifiutano il voto. Altro che frattura generazionale, a noi sembra piuttosto una comune percezione dell’impossibilità di riporre le speranze in qualunque progetto elitario che si venda come salvifico per le masse, mentre i fatti lo smentiscono ogni giorno. Chi ha conosciuto situazioni migliori, esprime un voto che indica il sogno di poter chiudere con questa fase (e che piaccia o meno il welfare, la mobilità e i diritti sociali vegnono sistematicamente messi poco a poco in discussione con l’avanzare del neoliberismo e della costruzione dell’UE su scala continentale). Gli altri, la cui soggettività e il cui sentire non sono rappresentati da alcuna forza politica di massa, non hanno motivo per credere che valga la pena esprimersi in un gioco che non gli appartiene.
2) Il vuoto in politica e la necessaria organizzazione
Altra condizione, questa volta assiomatica, per accostarsi alla Brexit è l’intelligenza di capire che uno spazio politico non può rimanere vuoto. A poco serve, in questo senso, la paura dell’egemonia delle destre e paventare il diffuso senso anti immigrati come unica chiave di lettura di questo referendum. È vero che nelle elezioni degli ultimi anni l’UKIP di Farage è cresciuto fino al risultato delle politiche 2015 in cui raccolse oltre il 12% dei voti, ma stona con questi numeri la possibilità di accostare alle forze della destra radicale tutti i milioni di voti del Leave. Non vogliamo assolutamente negare il problema dell’avanzata del vento delle destre. Ma proprio perché diamo peso a questi fatti crediamo sia fondamentale ristabilire l’ordine di causalità, aldilà delle mistificazioni di alcuni e dell’ingenuità di altri: non assistiamo a una situazione in cui il razzismo insito nelle classi popolari britanniche determina un voto di destra che possa cambiare lo “status quo”, quanto piuttosto è l’impossibilità di cambiare le cose che determina un dato voto, che nello specifico viene egemonizzato e “preso” politicamente dalla destra, in mancanza di altro. I problemi delle classi popolari sono affari loro, delle forme organizzate che si sanno dare e delle forze politiche che le rappresentano: ma se queste forme organizzate e queste forze latitano, gli sciacalli non esiteranno a fiondarsi su quello spaccato sociale per vendere le proprie menzogne. In Italia ultimamente ne sappiamo qualcosa…
A proposito, che dire dell’insediamento di Corbyn pochi mesi fa alla testa del Labour Party proprio su spinta giovanile e su posizioni euroscettiche, salvo poi cambiare idea a causa delle pressioni degli apparati di partito (leggi Blair) e schierarsi a favore dell’Unione Europea? Se i leader partitici cambiano idea, non vuol dire che i loro elettori facciano altrettanto.
Invitiamo a ragionare su un esempio storico. Che dire del fatto che le culture fasciste si siano storicamente nutrite dell’opposizione alle “banche usuraie e parassitarie”, ai poteri forti della finanza internazionale? Ha questo impedito alle sinistre di avanzare una propria vasta battaglia negli ultimi decenni di fronte allo strapotere concentrato nei mercati finanziari? Certo che no, la sinistra di classe ha avuto negli anni la capacità di organizzarsi su queste tematiche, e a nessuno salterebbe in mente di dire che antimperialisti, no global e movimenti abbiano rincorso le destre su un campo non loro svendendo la propria specificità! Hanno anzi dato prova, una delle ultime volte per la verità, di saper proporre una lettura attenta della realtà e di saperla connettere con le istanze sincere espresse dai propri settori sociali di riferimento. Allo stesso modo opporsi all’autoritaria e antipopolare impalcatura delle istituzioni comunitarie non significa rincorrere le destre, significa fare il proprio lavoro di promotori della trasformazione sociale. In caso contrario questa opposizione verrà egemonizzata, male e opportunisticamente, dalle destre sociali e radicali che coltivano l’intento opposto, ovvero quello di conservare la struttura sociale attuale ridefinendo tutt’al più qualche posto di riguardo per quei settori di borghesia messi in difficoltà dalla crisi e portatori di una cultura retriva.
Veniamo a fatti più recenti. Ancora una volta si dimostra quanto male abbia fatto a certa sinistra aver rimosso dal dibattito politico l’esperienza dell’OXI greco e i successivi tragici avvenimenti, senza aver prima collettivamente metabolizzato quanto accaduto. Ci si sarebbe resi conto che in quell’occasione, al contrario che in UK, i giovani votarono. E che fu proprio la soggettivazione di un mix eccellente tra gioventù sfruttata e periferie a far passare in secondo piano ogni velleità di nazionalismo reazionario a firma di Alba Dorata. Quell’enorme spinta militante ha caratterizzato la maturazione delle mobilitazioni greche fino alla data del 5 luglio, e solo su quella composizione sociale e politica la Grecia può oggi sperare di riaprire la partita.
La sostanza ci pare semplice: uno spazio politico non rimane mai vuoto, e si condensa sempre attorno a nodi concreti dentro la società. Il problema che sottolineiamo intorno alla Brexit non sta quindi nella capacità della destra, ma – purtroppo – nell’incapacità d’analisi e di prospettive della sinistra, sia nel paese in cui la caduta precipitosa della sinistra liberale europea ha visto probabilmente il suo inizio storico, sia in un paese come il nostro dal quale in troppi continuano a non voler venir fuori dalle macerie che quella frana ha prodotto.
3) Il nodo dell’UE
La sfida della Left-exit, che ha sostenuto un’uscita in difesa dei lavoratori, dello stato sociale, della democrazia e anche in difesa della vita e dei diritti dei migranti, ha avuto pochissima visibilità e, inutile nasconderlo, non ha avuto la capacità di essere egemone all’interno di questa partita politica.
In tanti, a sinistra, sia in Italia che in Gran Bretagna, che ora si disperano per questo risultato, che dichiarano la loro totale incomprensione delle ragioni per cui tante persone abbiano votato per abbandonare l’Unione Europea, non colgono il senso della situazione attuale perché non hanno mai capito la natura stessa dell’Unione Europea.
Ci piacerebbe constatare come non serva il riassunto delle puntate precedenti. Ci piacerebbe che non fosse questo il momento per ribadire come l’UE sia un’istituzione fortemente antidemocratica, uno dei nodi dell’attuale fase di sviluppo capitalistico, un nodo con un centro e tante periferie, regolate tramite politiche economiche d’austerità presenti già nei suoi Trattati costitutivi. Sarebbe bene che non servisse ancora spendere parole per chiarire che non esiste un sogno europeo tradito, ma solo progetti di classe (quella avversaria) portati avanti sapientemente e con coerenza. Non un’isola di pace, libertà di movimento e diritti civili, ma un mercato unico a discapito dei lavoratori, il cui reddito è stato notevolmente eroso, guerre ai propri confini e in giro per il mondo, politiche sull’immigrazione che sono la prima e reale causa della morte di migliaia di profughi nel Mediterraneo, quando non sono ammassati nei lager o deportati grazie ad accordi mercantilisti (dove la merce sono le persone e le loro conoscenze) con la Turchia. A chi risponde che le leggi inglesi in materia sono però forse anche peggiori, ricordiamo che Bruxelles non pare abbia intenzione di lasciare il primato a Londra, e il Migration Compact di ispirazione italiana ne pare una conferma. La Dublino III è ancora là, e ci parla non solo del nazionalismo delle repubbliche orientali che non hanno voluto superare quegli accordi, quanto proprio del razzismo istituzionale che negli ultimi mesi è stato proposto da chi si faceva promotore del superamento di quel complesso legislativo. Recentemente in Austria la destra radicale non ha ottenuto le redini del governo nazionale per un pugno di voti, eppure ci risulta che i progetti di chiusura del Brennero non siano decaduti.
4) Generazione Erasmus? Non pervenuta
A questo punto è giusto fermarsi un momento e riflettere. Perché anche la sinistra di classe non sta dimostrando quella capacità analitica e programmatica che tante volte nel corso dell’ultimo secolo ha dimostrato di avere? Perché si ha così paura della crescita organizzativa della destra, ma non ci si preoccupa minimamente della devastazione organizzativa cui assistiamo dalla nostra parte del tavolo? Soprattutto, perché importanti segmenti generazionali abbandonano il campo dell’agire per rifugiarsi nella paura e nell’immobilismo del non voto (in UK) e dei post su facebook (in Italia)?
La risposta a queste domande, crediamo stia (anche e soprattutto) nella dimensione ideologica e nel bombardamento mediatico cui siamo immersi. La generazione Erasmus sconfitta da quelle precedenti: a forza di sentirti ripetere uno slogan, va a finire che ci credi. Ma non possiamo permetter(ce)lo.
Ma esiste la generazione Erasmus? Non ci pare proprio, e chi la nomina o è in cattiva fede o ragiona non su base reale ma sull’onda delle proprie emozioni, probabilmente suscitate dal particolare punto di vista di cui dispone nel contesto sociale e culturale in cui è inserito. Un contesto sociale e culturale neppure lontanamente maggioritario. Prendendo in considerazione a titolo d’esempio il solo anno 2013/14 e solo il caso italiano, su un totale di oltre 6 milioni di giovani in età universitaria (19-28 anni), 1.600.000 sono studenti universitari e 26.000 sono studenti Erasmus (dati MIUR e ISTAT). Questo vuol dire che solo un quarto dei giovani si iscrive effettivamente a un ateneo, e di questi solo uno scarso 2% accede al programma europeo di formazione comunitaria. Questo vuol dire anche che solo lo 0,4% dei giovani italiani in età universitaria ha avuto accesso al programma Erasmus durante quell’anno accademico. Prendendo in analisi vari anni consecutivi, il dato si sposta di poco. E gli altri? Gli altri sono parcheggiati nelle università, o a fare lavoretti part-time, hanno lavori precari, vivono con i genitori e il 40% del totale sono disoccupati, nonostante voucher e contrattini di ogni genere siano utilizzati nel fallace tentativo di falsare i conti nelle tabelle ufficiali. Nella Gran Bretagna dei contratti a zero ore sanno bene di cosa stiamo parlando. I nostri coetanei della sponda mediterranea e quelli dell’Europa dell’Est lo avvertono ancora meglio. I working poor, coloro che pur lavorando restano sotto livelli di vita dignitosi, ci sembra rappresentino molto meglio il tenore di questa generazione.
Partendo da questi dati ma andando anche oltre, basta davvero l’Erasmus per salvare l’UE? Quando gli opinionisti dibattono sulla fuga dei cervelli, nessuno mette in chiaro che si tratta piuttosto di un furto di cervelli, perché senza possibilità di far ricerca e di lavorare i giovani italiani sono costretti a trasferirsi al nord Europa, tanto per una borsa di studio quanto per fare i lavapiatti. E la selezione dei borsisti e dell’intellighenzia europea (perché a lavare i piatti siamo buoni tutti, basta accettare salari competitivi con quelli dei migranti di altre zone del mondo…) è fatta anche tramite progetti come l’Erasmus, funzionale all’integrazione del mercato del lavoro intraeuropeo. Poi certamente ha anche il pregio di farti vedere culture diverse, di farti conoscere amici del cuore e di farti vivere esperienze che ti rimarranno dentro per tutta la vita.
Per questo, scrivendo in quanto giovani studenti, giovani precari, giovani disoccupati, giovani emigrati, ma anche in quanto giovani che l’Erasmus l’hanno fatto o lo stanno facendo, vogliamo denunciare con forza questo falso mito di una generazione che non ha frontiere e che in fondo, se si impegna, può fare ciò che vuole.
La frattura generazionale tanto invocata durante questi giorni di Brexit non la creano gli anziani ancorati ai propri privilegi e ai loro posti di lavoro, non la creano i giovani che sono costretti a pagare le pensioni di vecchi improduttivi e non possono lavorare perché ci sono di mezzo troppi immigrati o sessantenni; la frattura generazionale la crea l’Unione Europea con il Jobs Act e la Loi Travail, con la Legge Fornero e le pensioni a credito, imponendo salari e condizioni al ribasso per accedere al mercato del lavoro, sfruttando fino allo stremo i lavoratori con quarant’anni di contributi, selezionando giovani talentuosi (a loro sì che verranno date opportunità!) nei programmi comunitari e lavoratori disperati (che faranno abbassare il costo del lavoro) nelle frontiere ai propri confini.
5) Ricomposizione del blocco sociale e sfide strategiche
Non ci stupisce certo leggere sulla stampa dichiarazioni che proseguono l’opera di mistificazione ideologica di chi ci condanna a vivere schiavi e muti, ma non può che far drizzare i capelli trovare lo stesso tenore di interventi anche in qualche pagina di movimento. Non lasceremo però che la paura di un nazionalismo statuale ne instauri un altro continentale: non serve la Brexit per chiudere le frontiere, le frontiere sono già chiuse e i migranti sono usati come armi di distrazione di massa per le popolazioni che non hanno risposte alle loro vite. Non lo diciamo dall’alto della consapevolezza che dovrebbe essere garantita dalla nostra qualità di militanti bianchi e puri, ma da quanto apprendiamo ogni giorno nella composizione meticcia delle lotte sociali, nelle periferie che da Bagnoli a Falchera parlano una lingua che non è quella della sinistra funzionale. Tantomeno quella lingua appartiene ai lavoratori migranti, i cui settori organizzati riconoscono da sempre la nemicità delle istituzioni europee. La crisi dell’Unione Europea è un tema che non si può più ignorare, salta agli occhi quotidianamente e prima o poi si presenterà anche a noi il momento in cui dovremo esprimere chiaramente la nostra posizione. Non possiamo abdicare da un compito storico. Per due diversi ordini di responsabilità intrinsecamente connessi: perchè perderemmo l’occasione di dare una spinta trasformatrice al malumore diffuso, e perché altrimenti ci penserà qualcun altro, con tutt’altre intenzioni.
Da sempre la campagna Noi Restiamo ha ben chiaro che non esistono per moltissimi le condizioni materiali per poter effettivamente “restare” e affrontare la sfida che ci viene imposta. Siamo però certi che servano parole d’ordine politiche, analisi strutturali e indicazioni strategiche per smontare il discorso dei nostri avversari e poter in prospettiva organizzare quei milioni di giovani abbandonati, umiliati, saccheggiati del loro futuro. La sfida non è combattere le destre sull’euroscetticismo, la sfida è combattere il nazionalismo europeista dominante per strappare il terreno sotto i piedi ai nazionalisti reazionari che cavalcano lo scontento popolare per indirizzarlo contro il capro espiatorio dell’immigrazione.