Ricerca e sviluppo come snodo per l’innovazione produttiva in Europa

[Quinto contributo di Terroni d’Europa, clicka qui per la pubblicazione completa]

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La crisi economica del 2007-2008 ha rappresentato un punto di svolta storico nello sviluppo di molte economie nazionali. In particolare, alcuni paesi hanno interpretato la crisi come un’occasione per rilanciare le proprie politiche di sviluppo e dunque per aumentare l’investimento in ricerca e sviluppo (R&S) mentre altri hanno adottato, per ragioni diverse, una politica opposta che si è realizzata in tagli di bilancio proprio nei settori più sensibili da un punto di vista dello sviluppo tecnologico: ricerca, innovazione e alta formazione.

Se tra il 2000 e nel 2015 la media della spesa pubblica in R&S rispetto alla spesa pubblica totale dei paesi OCSE non è cambiata in maniera sensibile, rimanendo intorno a poco meno del 2%, vi sono state delle differenze importanti nella distribuzione di questa spesa tra i diversi paesi. Ad esempio la Germania ha aumentato l’investimento arrivando quasi al 2%, la Corea del Sud ha quasi raddoppiato puntando al 4% mentre la Spagna, l’Italia, la Francia e anche il Regno Unito hanno ridotto sensibilmente la spesa tra il 20% e il 40%, attestandosi tra l’1% (Italia) e l’1,5% (Regno Unito).

In conseguenza della crisi economica l’Europa, rispetto al 2000, si è dunque consolidata come un’entità sempre più disomogenea per quanto riguarda sia la ricerca scientifica sia quella tecnologica. L’obiettivo del Trattato di Lisbona di portare l’investimento in R&S al 3% del prodotto interno lordo (PIL) per il 2010 di tutti i paesi dell’Europa Unita è rimasto sulla carta, così come quella di far diventare lo spazio dell’Europa Unita «una delle più dinamiche e competitive economie basate sulla conoscenza in tutto il mondo, capace di sviluppare una crescita sostenibile con migliore qualità del lavoro e maggiore coesione sociale». In realtà la dinamica post-crisi ha accentuato le divergenze strutturali tra le economie dell’Eurozona, che a loro volta precedono l’introduzione della moneta unica.

I paesi dell’Europa settentrionale hanno in effetti puntato a realizzare gli obiettivi del Trattato di Lisbona, mentre quelli dell’Europa centro-meridionale nel dopo crisi hanno implementato pesanti tagli di bilancio proprio nei settori più sensibili da un punto di vista dello sviluppo scientifico e tecnologico. Il risultato è che nei paesi dell’Europa centro-settentrionale si spende in R&S 162 miliardi di dollari l’anno, una cifra del 53% superiore a quella dell’area anglo-francese e addirittura del 245% superiore a quella dell’area mediterranea; gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico sono nell’Europa centro-settentrionale dunque di oltre il 130% superiori che in quella meridionale come Italia o Spagna. Questi differenziali si riflettono poi anche in altri settori, ad esempio nell’esportazione di beni e servizi ad alta tecnologia o nella capacità d’innovazione orientata al mercato — misurata dal numero di brevetti per milione di abitante, che è nell’Europa settentrionale più di 5 volte maggiore che nell’Europa meridionale.

Se è vero che l’Europa, con circa il 10% della popolazione del mondo, produce più del 30% della conoscenza (misurata in termini di articoli su pubblicazioni scientifiche) e dunque sembrerebbe godere complessivamente di ottima salute, la situazione diventa però preoccupante poiché l’Europa non è un’entità economica e scientifica omogenea. E, come si è visto, vi sono crescenti squilibri al suo interno. Un segnale macroscopico sta nell’investimento in istruzione, ricerca e innovazione: è proprio grazie a queste politiche che i paesi dell’Europa centro-settentrionale hanno costruito e consolidato una specializzazione produttiva nei beni ad alta tecnologia. L’investimento nell’educazione terziaria è, infatti, molto eterogeneo: in Germania si spendono 635 dollari per abitante, contro i 489 dell’area anglo-francese, i 340 dell’area mediterranea e i 202 dell’area orientale. In breve, nel Nord d’Europa si spende il doppio per l’università dei paesi mediterranei e il 30% in più dell’area anglo-francese. Di conseguenza, in Germania si trova più del doppio di ricercatori per milione d’abitanti rispetto ai paesi dell’Europa centro-meridionale.

Guardando al caso dell’Italia, il taglio alle politiche di formazione dal 2008 ha prodotto un calo del 20% degli immatricolati, tanto che il nostro paese ha raggiunto l’ultimo posto per percentuale di numero di laureati nella fascia di età 25-34 anni, con un valore poco superiore al 20% che è pari alla metà della media dei paesi OCSE. In parallelo, tra il 2006 e il 2016 vi è stato quasi un dimezzamento del numero dei dottori di ricerca, così come un crescente fenomeno di emigrazione intellettuale — la cosiddetta «fuga dei cervelli». Questa situazione è causa e conseguenza di una scarsa capacità d’innovazione del sistema produttivo. Se, infatti, la spesa pubblica per R&S è molto indietro rispetto a quella delle maggiori economie industriali, il divario più significativo si concentra nella spesa effettuata dalle imprese (la cosiddetta BERD, Business Enterprise Research and Development). La minore capacità di queste ultime di fare attività di ricerca e innovazione è dovuta al fatto che nei settori a medio-bassa intensità tecnologica, in cui è concentrata l’attività produttiva del paese, la spesa in ricerca è più bassa di quella relativa ai settori a medio-alta intensità tecnologica.

La bassa intensità tecnologica della struttura produttiva del nostro paese rende bassa anche la domanda di forza lavoro con alta formazione: questa situazione genera un circolo vizioso con una pressione al ribasso sulla spesa pubblica in ricerca. Il nostro paese si trova, infatti, in una posizione di retrovia per quanto riguarda la quota dei laureati occupati in settori a elevata qualificazione scientifica sul totale generale degli occupati. Solo lo sviluppo di attività produttive nei settori ad alta intensità tecnologica potrà evitare la dismissione dei laureati, che, ancorché pochi, diventeranno ridondanti rispetto alla domanda effettiva.

Quest’analisi porta a riconsiderare il rapporto tra ricerca, alta formazione e mondo del lavoro. Spesso s’insiste sul fatto che l’università non prepara al mondo del lavoro e che dunque ci sia bisogno di intervenire sulla formazione per renderla più consona alle imprese (ad esempio puntando sulla ricerca applicata); in effetti, bisognerebbe piuttosto intervenire proprio sulla capacità di assorbimento di personale con alta formazione nelle imprese del paese, senza forzare la ricerca fondamentale e l’università a focalizzarsi sulla ricerca applicata o sulla formazione di quadri per l’impresa privata.

Le differenze di crescita tra paesi europei sono, dunque, chiara espressione di un’area molto disomogenea nella capacità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e d’innovazione dei loro sistemi produttivi. In Italia, come in altri paesi dell’area mediterranea, la bassa spesa in ricerca attribuibile all’industria è il segno della marginale presenza di settori tecnologicamente avanzati, nei quali è invece più elevata la propensione all’investimento in ricerca. Questa marginalità dei settori avanzati implica a sua volta una crescente marginalità economica dei paesi dell’Europa meridionale con una perdita complessiva di potenziale di sviluppo economico.

La possibilità di attuare politiche pubbliche per il rilancio della ricerca e dell’innovazione nelle aree più depresse d’Europa è allora fondamentale, essendo necessaria una vera e propria ricostituzione della base scientifica e tecnologica di questi paesi, che solo dall’intervento pubblico può discendere, considerati l’ingente dimensione dell’impegno finanziario e l’incerta redditività economica che caratterizzano l’investimento in questi contesti.

[Di Francesco Sylos Labini, fondatore e redattore del sito Return on Academic Research dedicato alla discussione di temi della politica dell’università e della ricerca]