Insostenibilmente. Studenti e ricercatori di fronte al riciclo di un sistema
Siamo studenti e studentesse della Sapienza interessati ad indagare quel “mondo verde” che già da tempo è in costruzione: da una parte per quanto riguarda le rivendicazioni delle popolazioni principalmente coinvolte dalle conseguenze del cambiamento climatico, dall’altra al livello di dibattito politico e piani economici.
Solo ultimamente tuttavia la questione ha visto la ribalta mediatica mondiale: dalle mobilitazioni ai vertici internazionali, l’ambientalismo attraversa gli ambiti più disparati anche nel mondo della formazione. Da gennaio, la stessa Sapienza ha avviato il corso interdisciplinare sulla Sostenibilità, rivolto a tutti i dipartimenti, con contributi da tutte le facoltà.
Ormai l’ambientalismo è al centro della narrazione mainstream e chi in minore, chi in maggior misura, ha modificato alcuni dei suoi comportamenti quotidiani: dalla riduzione dell’utilizzo della plastica a quella di prodotti e mezzi inquinanti; i consumi eco-compatibili sono incoraggiati a tutti i livelli, nell’ottica di rendere il singolo, precedentemente colpevole dell’inquinamento, ora protagonista della riconversione.
Tuttavia sarebbe riduttivo pensare di incastrare la complessità del fenomeno in questo paradigma che vede da una parte consumi buoni e dall’altra consumi cattivi.
Da qui nasce la necessità di creare uno spazio di condivisione collettiva che permetta di confrontarsi sui temi quali la green economy, la questione industriale, il business della guerra, la neutralità della ricerca scientifica, piuttosto che l’agricoltura biologica, dotandoci di un’analisi adeguata a comprendere come e perché il mercato stia cambiando e quali siano le ripercussioni sul mondo della formazione. Soprattutto, sarà dirimente chiarire se e in che modo questo cambiamento stia effettivamente rispondendo alle rivendicazioni delle piazze che da un anno a questa parte hanno animato i cinque continenti, oltre che il dibattito pubblico e politico.
La stessa Unione europea ormai da tempo si impegna per operare un processo di riconversione non solo al livello energetico, ma anche produttivo, logistico e finanziario: lo abbiamo visto ultimamente con l’approvazione dell’ “European green deal” direttamente promosso dalla Presidente della Commissione europea, ma il processo in atto ha radici molto più lontane.
Si registrano infatti da circa un decennio investimenti sempre maggiori verso i settori rinnovabili e la ricerca ad essi connessa, orientamento economico certificato dai programmi quadro relativi alle strategie decennali dell’Ue. Per fare un esempio, possiamo notare la differenza tra il framework approvato nel 2014, in cui un obiettivo su cinque faceva esplicitamente riferimento all’azione rispetto al cambiamento climatico, e quello approvato nel 2020, nel quale la quota sale a quattro su cinque.
Si aggiunge a questo ovviamente la partecipazione alle principali conferenze e trattati internazionali sul clima: dal Protocollo di Kyoto (1997) all’accordo di Parigi (2015), passando per i meeting COP15, COP21 e COP25.
Il tema è dominante, basti pensare alle dichiarazioni della Lagarde, favorevole agli investimenti green, la quale ha scandito che la lotta al cambiamento climatico «dev’essere al centro della missione della Bce e di ogni altra istituzione». La Bce e la Commissione europea viaggiano parallelamente per dare forma agli investimenti sostenibili e ridefinire il concetto di sostenibilità, attuando un processo di greenwashing che ha come obiettivo quello di «trasformare una sfida urgente in un’opportunità unica». Questo slogan si concretizza nella realizzazione di un’economia competitiva, nella valorizzazione del cosiddetto capitale naturale e nel suo rafforzamento come attore globale.
Uno dei nostri compiti principali sarà sicuramente indagare in che misura questi obiettivi mirino all’“opportunità unica” di competere nel mercato globale piuttosto che a raccogliere la “sfida urgente” che i limiti fisici della biosfera ci costringono ad affrontare.
Se a ciò si aggiunge l’obiettivo primario dell’Unione europea di avvalersi di una knowledge-based economy, si comprende quanto sia strategico l’ambito della ricerca e dell’istruzione nella rivoluzione tecnologica di cui il capitale europeo necessita per valorizzarsi nuovamente.
D’altra parte, un tale stravolgimento produttivo e finanziario porta a conseguenze che non tutti i portafogli sono pronti ad affrontare. Da qui i passi avanti e le marce indietro a cui abbiamo assistito in questi mesi: tira e molla sul carbone, finanziamenti verdi prima promessi e poi ritrattati, la conferenza di Madrid conclusasi con un nulla di fatto. Sembra infatti che i principali promotori della green economy non si facciano scrupoli a tutelare i propri investimenti in borsa, dilatando i tempi di azione per dare modo alle banche di operare una “transizione finanziaria” che protegga i titoli da scossoni troppo forti.
Siamo sicuri che il Pianeta potrà attendere un processo “soft” di decarbonizzazione dei titoli? Che i green bond siano uno strumento di salvaguardia per l’ecosistema piuttosto che una più profittevole occasione di speculazione finanziaria?
Non è un caso che quest’anno il “World economic Forum” (Davos, 2020) in cui si riuniscono le più grandi aziende, i leader mondiali ed i personaggi economicamente più influenti, abbia messo al centro della discussione lo sviluppo sostenibile come strumento per uscire dall’impasse in cui la finanza mondiale è arenata. Le due “fazioni” in campo si sono subito delineate: scienza contro negazionismo, reazione contro green deal, Greta contro Trump.
A questo livello è stato appiattito il dibattito pubblico, schiacciato tra finte alternative, con la prospettiva di cambiare tutto affinché nulla cambi.
Per spiegare questa corsa di paesi, aziende e candidati politici per accaparrarsi il podio del “più sostenibile”, è necessario riprendere in mano la storia dagli anni ‘90 ad oggi, comprendendo quali sono le crisi che il capitalismo ha attraversato, quelle che cerca di posticipare ed i principali attori dell’opposizione e dell’alternativa a questo sistema.
Nel contesto dell’Unione europea, la riconversione energetica non ha il solo (primario) scopo di allontanare il pericolo del cigno verde, l’evento catastrofico inatteso causato dai cambiamenti climatici che potrebbe affossare le borse mondiali. Per l’Ue come polo imperialista in rafforzamento, si tratta di uno degli strumenti più potenti che il capitale ha attualmente a disposizione per aumentare la competitività, creando un mercato (ed una strategia di marketing) ad hoc con nuovi e maggiori margini di valorizzazione. Esemplare è stato in questo senso l’andamento dei titoli del settore rinnovabile durante la crisi del 2007-2008, tra i pochi ad aver retto e ad essere da allora in continua ascesa.
Fatte queste considerazioni, uno degli interrogativi principali in questi momenti di dibattito sarà sicuramente quanto a lungo reggerà una strategia che miri a convincerci di poter salvare capra e cavoli (mercati e Pianeta) prima che le contraddizioni esplodano più prepotentemente di prima.
I primi testimoni dell’incompatibilità tra quest’idea di progresso e l’ambiente sono sicuramente gli attivisti e militanti dei movimenti che da decenni si battono lungo la penisola e nelle isole per la difesa della propria terra: come chi appoggia la Tav sostiene di voler risolvere il problema dell’inquinamento del trasporto su gomma, così il rimodernamento del Poligono di Teulada viene giustificato dalla necessità di raggiungere una nuova frontiera green della guerra.
Questi movimenti hanno avuto la giusta funzione di mettere al centro il singolo non in quanto colpevole del disastro ambientale o consumatore di merce verde, ma in quanto parte di una resistenza che si rifiuta di subire le conseguenze o pagare i debito di chi ha inquinato e devastato.
In questi frangenti, la ricerca scientifica è la prima merce di scambio tra aziende affamate di risorse e Stati proni ai loro interessi: come ci si può aspettare perizie neutrali nel momento in cui le menti negli atenei, sempre più indissolubilmente legati al tessuto produttivo del territorio, vengono messe a disposizione delle aziende in cambio di partnership e fondi?
Lo snaturamento del ruolo del mondo della formazione nella società è stato portato avanti con perseveranza da anni, attraverso un processo di trasformazione che parte dalle scuole secondarie passando per l’università fino alla ricerca.
Questi stravolgimenti sono la conseguenza della così detta controrivoluzione che ha visto l’introduzione di una serie di leggi che a partire dagli anni ‘90 hanno avuto un unico denominatore comune: far primeggiare il privato a discapito del pubblico nel lavoro, nella sanità e, in questo caso, nell’istruzione. In particolare sul piano universitario abbiamo assistito a pesanti tagli dei fondi di finanziamento ordinario, all’aumento delle tasse, alla maggiore ingerenza dei privati, alla repressione quotidiana del pensiero difforme e ad una strategia di normalizzazione divenuta pervasiva negli atenei come nel resto della società.
A partire dagli stessi anni assistiamo al processo di integrazione nell’Unione europea, con il conseguente riconoscimento del ruolo strategico della formazione al fine di rendere il sapere (riplasmato per assecondare le esigenze del mercato) pilastro della sua capacità competitiva (si parla perciò di knowledge-based economy). In questo contesto la filiera formativa e produttiva non sono scisse, bensì avanzano sinergicamente non solo per quanto riguarda lo sviluppo di poli congeniali all’avanzamento tecnico dell’industria al minor prezzo possibile per il privato, ma anche rispetto all’indottrinamento dei futuri lavoratori ad un avvenire mobile, flessibile, precario.
Non stupisce quindi che le nostre università siano divenute delle vetrine in cui i privati si mettono in mostra: per noi è diventato “normale” imbatterci in banchetti espositivi di grandi aziende, avere le banche all’interno delle città universitarie, oppure assistere a corsi sulla tutela dell’ambiente patrocinati da industrie petrolchimiche ed Esercito. Anche solo facendo riferimento alla Sapienza, spicca il master di “Caratterizzazione e tecnologia per la bonifica dei siti inquinanti” che tra i propri partner presenta soggetti quali Eni, Shell o Enel.
Come si concilia questo scenario con la facciata green che la Sapienza ha messo in piedi dall’anno scorso a questa parte, iniziando dall’adesione alla Rete delle università sostenibili (recependo il 2030 “Sustainable development goals”), passando per la campagna plastic free e l’appoggio ufficiale alla mobilitazione del 27 Settembre e culminando con la presentazione di un piano per la mobilità sostenibile?
L’aziendalizzazione dell’istruzione precedentemente descritta ha in effetti fatto in modo che l’ateneo si trasformasse in uno dei più grandi altoparlanti del capitalismo verde, portando avanti un ambientalismo da giardino che nasconde dietro al paravento della green economy i veri responsabili del disastro ecologico.
Da qui la necessità da parte di noi studenti di prendere parola e confrontarci sui temi dell’ambientalismo, della sostenibilità e del tentativo di un sistema incompatibile con la vita sulla Terra di riciclarsi. Questa e tante altre enormi contraddizioni si palesano quotidianamente a partire anche dai luoghi di formazione, ed è nostro compito lavorare per produrre un ecologismo equo e di rottura.
Ripartiamo dall’università per la costruzione di un laboratorio politico che miri a porsi gli interrogativi che qui abbiamo in parte presentato, ma che soprattutto sia capace di operare una sintesi ed individuare un’alternativa differente da quella che propongono le aziende, i privati e lo stesso sistema formativo.
La costruzione del laboratorio si articolerà attraverso le seguenti iniziative:
– Green Economy: gli interessi che procrastinano un problema urgente
– Non neutralità della scienza: la funzione strategica dell’istruzione e della ricerca al di là della propaganda
– Guerra, formazione, ambiente: penetrazione ideologica del militarismo e conseguenze devastanti dei conflitti
– Sovranità alimentare: controllo sul modello di produzione per vincere disuguaglianze e sfruttamento
– Questione industriale: il caso emblematico dell’Ilva ed il ricatto occupazione-salute