Green Economy: un’(eco) bugia ai tempi del neoliberismo
Il primo appuntamento del ciclo di incontri -Insostenibilmente- ha affrontato il macro-tema della Green Economy nelle sue varie forme, cercando di capire quanto sia praticabile la riconversione che viene propagandata dalle principali aziende e dagli Stati e quanto invece l’emergenza climatica venga trasformata in una nuova occasione di profitto.
Ci siamo posti per questo diverse domande, alle quali abbiamo provato a dare una risposta collettiva insieme ad i vari interlocutori: Coniare rivolta, Effimera, Planet 2084, Climate Save Movement, Extinction Rebellion e Aula Bannour.
- Affrontare la questione ambientale dalla parte del consumo o della produzione?
Il binomio produzione-consumi è stato toccato più volte: pensiamo di poter orientare le scelte politiche attraverso il “consumo responsabile” o dobbiamo attaccare il sistema di produzione come diretto colpevole del prosciugamento di qualsiasi risorsa possa portare del profitto? Coniare Rivolta ed Effimera hanno fornito un’esaustiva panoramica storica ed economica, iniziando dal tramonto del paradigma keynesiano e l’imposizione del neoliberismo (in cui tutto viene messo a valore, compresa la natura) e sottolineando poi come la massimizzazione del profitto (quindi la minimizzazione dei costi) porti inevitabilmente ad una massimizzazione della distruzione dell’uomo e del mondo. In quest’ottica è la produzione il primo incriminato per la situazione attuale, che nella continua ricerca di profitto arriva a sussumere le istanze ambientaliste arrivando a proporre le proprie “alternative” alla crisi climatica (il sistema vuole l’antisistema al proprio interno, suggerisce Extinction Rebellion). Tra queste alternative, spicca “l’opzione verde”, la cui validità è stata criticata anche dai dati portati da Climate Save; si evidenzia infatti come nell’ambito degli allevamenti intensivi gli stessi grandi marchi (responsabili in tutto del 35% di emissioni di metano su scala globale) propongano molto spesso una linea di prodotti biologica/eco-sostenibile alternativa vendendo, oltre ad i loro prodotti, la favola della battaglia individuale e del consumo
sostenibile.
- Possiamo sperare che siano i privati ad incaricarsi della transizione ecologica?
Un esempio lampante a tal proposito è stato al centro delle cronache per un intero mese recentemente: il caso ILVA, che come molti altri sparsi per l’Italia (vedi la raffineria di Pavia) trova la sua contraddizione maggiore nel ricatto occupazione/salute. Nel caso specifico dell’ILVA, molti (in buona o in cattiva fede) hanno dato credito all’illusione che Arcelor Mittal avesse interesse nell’operare una transizione ecologica nell’acciaieria di Taranto. Per quanto riguarda questo caso, e tanti altri in Europa, il meccanismo perverso che anima le riconversioni operate dai privati è stato spiegato da Coniare Rivolta: sfruttando la pressione sociale sul tema ambientale, i capitalisti costringono i governi tramite un “ricatto verde” a farsi sussidiare le transizioni energetiche/produttive con fondi pubblici, salvo poi incanalarli in direzione del profitto d’impresa. Nella maggior parte dei casi, la sbandierata riconversione si è rivelata poi semplicemente uno specchietto per allodole, cambiando poco se non la facciata con cui le aziende si presentano al pubblico. Effimera cita a questo proposito i Fridays for Future indetti il 29 Novembre a Taranto e Pavia, ed Extinction Rebellion evidenzia come questi momenti maggiormente conflittuali abbiano avuto una risonanza mediatica assolutamente marginale rispetto agli altri, svelando come lo Stato e la narrazione mainstream proteggano le istanze dei privati contro il diritto al lavoro ed alla salute della popolazione.
- Su chi ricadono i costi della transizione, e cosa muove le scelte politiche in proposito?
Dopo aver concordato sul fatto che risolvere il problema all’interno del sistema produttivo attuale sia inefficace ed aver avuto un piccolo scorcio sul tentativo dei privati di far acquistare agli Stati una finta transizione, viene da chiedersi quali siano globalmente le misure adottate da questi Stati e su chi ricadano i loro costi. Gli esempi più eclatanti dello strangolamento della popolazione tra cambiamenti climatici e soluzioni dannose sono portati da Planet2084 ed Effimera. Da una parte, Planet2084 ci informa su una delle conseguenze più allarmanti e meno pubblicizzate di questa crisi: i migranti climatici. Il fenomeno, secondo l’agenzia delle migrazioni, riguarda la metà dei 50-70 milioni di migranti totali al mondo; in Europa di questo fenomeno abbiamo ancora un’eco abbastanza lontana: basti pensare a Dacca, capitale del Bangladesh, sempre più assediata dagli sfollati provenienti da zone costiere ormai sommerse dal mare. E mentre milioni di pers one pagano le conseguenze dei cambiamenti climatici, altri milioni pagano la riconversione. L’elargizione di sussidi pubblici in cambio di improbabili riconversioni sembra essere una scelta operata al livello nazionale quanto europeo. Ne è un esempio l’European Green Deal, piano di investimenti verdi che si propone progressista ed audace negli obiettivi ma che effettivamente stanzia “appena” 14 miliardi per la riconversione di tutti i settori a fronte dei 500 preventivati dall’Agenzia Internazionale per l’Energia per l’ammodernamento del solo settore energetico; senza contare che lo stanziamento di questa cifra resta comunque sottoposto ai vincoli di bilancio europei, che impongono tagli alla spesa pubblica per un ammontare equivalente (spiega Coniare Rivolta). A pagare saranno quindi i cittadini, rimettendoci in servizi pubblici ed imposte (quelle indirette come IVA ed accise sui beni inquinanti che solitamente finanziano queste misure ricadono sempre sui redditi medio-bassi); anche Effimera cita in proposito il grande movimento di massa dei Gilets Jaunes (che investe ormai la Francia da più di un anno), la cui scintilla iniziale è venuta proprio dall’aumento delle accise sul carburante, in occasione del quale gran parte della popolazione ha aperto gli occhi sulle politiche di rapina operate dal governo.
- Qual è il ruolo della formazione? Gli studenti, ricercatori e professori devono prendere parola di fronte alle pratiche fintamente ambientaliste e di restyling dell’ateneo?
È chiaro come queste politiche di “rinverdimento” decise dall’alto abbiano a cascata delle ripercussioni anche nel mondo della formazione, ambito di propaganda ed elaborazione strategica per eccellenza, in cui tra l’altro gli interessi privati hanno ormai preso il sopravvento su quelli pubblici. Il greenwashing viene perpetuato a più livelli: da quello ideologico (ore di educazione alla sostenibilità tenute da majors come ENEL) a quello più concreto ( borracce, convenzioni tra università e aziende di trasporti elettrici), mentre (finché dura) si continua a ricercare ed a sviluppare la tecnologia anche in direzione dell’estrazione fossile. Questa è la critica di Effimera, che denuncia come la distribuzione arbitraria dei fondi di ricerca smonti l’utopia di una scienza neutrale, mentre Planet2084 descrive un progresso orientato verso la devastazione ambientale. È opinione comune che la questione economica e ecologica non possano essere scollegate ed è per questo che scienziati, professori, dottorandi e studenti devono fare un passo in avanti ed interrogarsi sulla natura dei propri studi, trovando il coraggio di prender parola. Si tratta di elaborare un ambientalismo popolare che, come suggerisce l’intervento finale di uno studente medio, diventi comprensibile e condivisibile dalle masse invece di essere derubricato ad argomento “à la page” nei salotti. Fior fior di movimenti (anche di massa) che hanno provato ad intervenire toccando vari aspetti della questione ambientale hanno riguardato e riguardano l’Europa come anche il Sud America, fa notare l’intervento dell’Aula Bannour.Il punto, ora, è soggettivizzare queste istanze tramite un progetto complessivo in risposta ad un problema complessivo, che favorisca la lotta in direzione del controllo popolare nella produzione di beni come nei processi di sviluppo del sapere.