Non saremo noi giovani a salvare l’Unione Europea
È certamente ormai chiaro a tutti: viviamo in tempi decisamente fuori dall’ordinario. La crisi sanitaria causata dall’attuale pandemia di Coronavirus sta mettendo in luce tutte le contraddizioni e fragilità che hanno sempre caratterizzato il sistema economico, politico e sociale in cui siamo cresciuti. Siamo sempre stati abituati a pensare al capitalismo come a qualcosa di immutabile, alle dure leggi della competizione come a qualcosa di irriformabile; di fronte ai nostri fallimenti preferivamo crocefiggere noi stessi piuttosto che provare ad illuderci che le regole del gioco potessero in qualche modo cambiare. E invece adesso appare chiaro che quel sistema che sembrava l’unico orizzonte possibile va perdendo ogni giorno pezzi, risultando incapace di rispondere alla crisi.
In questo contesto, ad essere entrata in crisi è anche la retorica del “sogno dell’Unione Europea”: come ci si può ancora illudere, d’altronde, circa l’esistenza di una fantomatica “solidarietà europea”, quando i falchi di Germania e Olanda (con il tacito assenso degli altri Paesi del Nord Europa) pongono un veto alla possibile condivisione del costo della crisi, infrangendo ogni possibile illusione di riforma interna. Così, in questo periodo di totale insicurezza e crisi sistemica, anche le convinzioni degli europeisti più duri e puri vacillano. Se da un lato, infatti, avevano provato a raccontarci di come l’integrazione europea avrebbe dovuto portare alla convergenza tra i diversi Paesi, al benessere e alla prosperità, la realtà ci ha mostrato il contrario: un distanziamento sempre più acuto tra centri e periferie, una disuguaglianza sempre più pronunciata e un futuro di miseria per la maggior parte della popolazione. Tutti questi nodi stanno ora venendo al pettine e davanti a quella che si preannuncia essere una delle crisi economico-sociali più acute degli ultimi anni, l’UE si presenta totalmente inadeguata sia per quanto riguarda la produzione di macchinari e dispositivi di sicurezza medici, sia per quanto riguarda la capacità di immaginare soluzioni per contenere la crisi e rilanciare una futura crescita.
Così, ogni giorno vengono prese decisioni politiche che superano limiti che sembravano insuperabili o, più correttamente, che ci volevano far credere che lo fossero. Le fondamenta stesse dell’UE vengono messe in discussione, solo per citarne qualcuna: sospensione del trattato di Schengen, sospensione del Fiscal Compact, estensione del Quantitative Easing. Un processo però non pacifico, anzi molto conflittuale, tra chi vorrebbe provare a limitare questi cambiamenti ad un momento eccezionale e tra chi vorrebbe estenderli anche nel futuro. Uno scontro che si può vedere nella spaccatura tra paesi del Sud e del Nord nella decisione di emettere o meno eurobond, nel rinvio della riunione dell’Eurogruppo dopo 16 ore di negoziati inconcludenti, che hanno poi portato ad un compromesso completamente instabile e che dovrà essere ridiscusso nella prossima riunione del Consiglio Europeo (il 23 aprile) che si preannuncia molto tesa. Uno scontro che però si sta svolgendo tutto all’interno della grande borghesia europea che teme di non riuscire più a difendere la propria quota di profitto nella competizione internazionale che si farà sempre più aspra. Vediamo così i teorici più importanti dell’austerity europea, su tutti Alesina, Giavazzi e Tabellini, fare delle giravolte incredibili per sostenere la necessità di un cambiamento che potrebbe essere rappresentato da alfieri del grande capitalismo quali Macron e Draghi.
Un contrasto che è quindi sbagliato leggere come uno scontro tra sovranismi, in quanto piuttosto è legato alle stesse regole dell’UE che alcuni vorrebbero dismettere. Gli eventi di questi giorni ci aiutano così a vedere meglio qual è la vera natura dell’UE: una gabbia nata e sviluppata per difendere gli interessi di pochi rispetto a quelli della collettività, in una cornice di competizione tra economie piuttosto che di solidarietà e che spinge alla guerra piuttosto che alla pace tra popoli. Del resto, sono state le politiche di distruzione generalizzata dello Stato Sociale targate UE e adottate da tutti i governi degli ultimi 30 anni che ci hanno portato all’attuale situazione. Politiche che hanno comportato che il Servizio Nazionale Sanitario in Italia è stato alleggerito con tagli per 37 miliardi in soli 10 anni, regionalizzato, riformato per poter essere meglio privatizzato, riorganizzato in funzione delle cosiddette eccellenze, ed ora non ha più la capacità di essere strumento di difesa della salute pubblica. Tuttavia, se un fattore positivo ci ha portato questa crisi, è che si è manifestato come un cigno nero che sta mettendo in discussione tutte le regole che sembravano incontrastabili. E se la gabbia dell’Unione Europea sta entrando in crisi, spetta a noi darle la spallata finale. Di fronte a questa situazione, ai giovani europei non conviene continuare a spacciare dei sogni, ma, al contrario, devono aprire gli occhi una volta e per tutte. E se un tempo potevamo avere tutti i timori del mondo pensando ad un’eventuale rottura, il baratro che si vede innanzi è ben più spaventoso di qualsiasi ipotetico scenario alternativo.
Il virus però ha reso anche il lavoro più complicato del solito alla sinistra italiana europeista che si trova spaesata davanti ad una materialità del reale che si infrange contro tutte le frottole che ha aiutato a diffondere negli ultimi decenni, la cui voce viene rappresentata anche dalle colonne de La Repubblica. Tra i vari articoli indecenti che ha pubblicato in questi giorni spicca quello di Paolo Rumiz, da sempre in prima linea tra gli spacciatori del “sogno europeo”. Questa volta, ammirando “il colpo d’occhio dalle Alpi al Mediterraneo” dalla finestra della sua casa di campagna dove può godersi -lui sì- una quarantena dorata lontana dagli affanni della maggioranza della popolazione, lancia un grido quasi disperato di aiuto: giovani salvate voi la “nostra” Europa.
Giocano sporco, tanto Paolo Rumiz come gli altri europeisti in crisi, che nel sostenere la riformabilità di quest’impalcatura si rendono complici del sistema UE complessivo, anche nei meccanismi che dicono di criticare. Sanno benissimo che per salvare la baracca non è possibile appellarsi alla generazione dei più anziani, che stanno pagando il conto della carenza cronica di strutture sanitarie morendo senza nemmeno la possibilità di ricevere le cure minime; non è possibile appellarsi ai lavoratori, mandati a migliaia a morire nelle catene di montaggio che continuano a restare aperte per garantire il profitto dei padroni; e allora che fanno? Lanciano un grido d’aiuto rivolto a noi “giovanissimi”, quelli che fin da piccoli sono stati educati a vedere nella Unione Europea un mito di progresso, la prima generazione che fin dalla più tenera età è stata imbevuta di ideologia europeista, che è stata spinta a pensare ad astratti valori anche quando questi venivano palesemente smentiti dai fatti concreti, alla quale per anni sono state spacciate convinzioni che adesso appaiono chiaramente per quello che sono: delle vere e proprie balle.
Ma, d’altro canto, perché mai noi giovani dovremmo difendere l’Unione Europea? Noi, membri di una generazione costretta a studiare in scuole che ci crollavano addosso ogni giorno mentre ci raccontavano l’importanza della formazione; una generazione costretta a scegliere tra emigrazione forzata, spacciata per “meravigliosa esperienza all’estero”, e un futuro fatto di disoccupazione e fame a casa propria; una generazione che hanno indottrinato con la favola della “meritocrazia” mentre chi andava avanti era sempre e soltanto chi già aveva i mezzi per permetterselo e le università diventavano sempre più elitarie e inaccessibili; giovani definiti senza vergogna “generazione Erasmus” mentre in realtà siamo “working poor generation”.
Piuttosto che cercare di salvare un mondo che sta andando in pezzi a causa delle sue stesse contraddizioni, dobbiamo avere il coraggio di guardare a quei Paesi e modelli sociali diversi e che ci stanno mostrando di essere superiori nel gestire la crisi tanto a livello sanitario quanto a livello economico e sociale. Tra questi, spiccano sicuramente Cina e Cuba, le quali in modo differente tra di loro ci mostrano come la dimensione pubblica è la sola che è in grado di affrontare emergenze sociali di questa dimensione e di come ci sia necessità di un modello basato sulla pianificazione economica che metta l’economia al servizio dei bisogni di tutti. Alla crisi totale che investe il capitalismo dobbiamo far seguire un’alternativa sistemica. Noi giovani non siamo necessariamente destinati alla morte sociale, condannati da un fato avverso alla sconfitta generale. L’Unione Europea ci ha sempre dato ben poco e, se ora promette di darci ancora meno, è il momento giusto per dire basta.
Mentre seppelliamo il sogno dell’Unione Europea, dobbiamo però essere anche in grado di immaginarci un’ideale di vera solidarietà tra i popoli. Come fare? Di certo non rimanendo in silenzio quando il sogno dell’UE viene smentito dai fatti, o quando viene perpetrato il massacro sociale in suo nome. Costruire l’alternativa è possibile solo dando uno smacco all’Europa del profitto e della tecnocrazia spietata, spingendo per formare una nuova alleanza, magari con quei Paesi mediterranei che sono vessati come noi (i cosiddetti PIGS), magari anche con i Paesi che si trovano all’altra sponda del Mediterraneo e che sono stati da sempre trattati come popoli da sfruttare piuttosto che come uguali. Un’alleanza che sia votata alla costruzione di una società nuova, che garantisca davvero la piena realizzazione di ciascun individuo, il benessere comune. Un nuovo inizio, perché tutto possa davvero cambiare e si possa mettere fine al marcio a cui questo sistema economico ci ha abituato fino ad oggi.
No, non saremo noi giovani a salvare la creatura infernale che avete creato. Non saremo noi giovani a salvare l’imperialismo europeo dalla pattumiera della storia: quello è il posto che gli spetta. Avete ragione, “il vento soffia forte”, più forte che mai, e fate benissimo ad avere paura.