NON CHIAMATELA EMERGENZA

NON CHIAMATELA EMERGENZA.
La responsabilità contro il virus e la responsabilità del nostro ruolo.

I DPCM passano, i problemi restano. Dopo giorni di riunioni e spasmodica attesa, quella che è emersa dall’ennesima conferenza stampa del Premier Conte è una verità tanto semplice quanto terrificante nelle sue implicazioni: non esiste nessuna strategia per contrastare la seconda ondata che si sta già abbattendo sul paese. Una seconda ondata ampiamente prevista da tutte le analisi, ma per la quale, nei mesi di “tregua” estiva, nulla è stato predisposto.

Esiste un detto, diffuso in campo militare, secondo cui un cattivo piano è meglio di nessun piano. Intendiamoci, quando si ha a che fare con una pandemia che imperversa da ormai quasi un anno sarebbe legittimo aspettarsi qualcosa di meglio di un cattivo piano, ma anche questo sembra essere ormai al difuori delle capacità di una classe politica totalmente in panne.

E così ci ritroviamo a questo punto: davanti a più di 20.000 contagi al giorno, con la capacità degli ospedali e terapie intensive che in molti casi è vicina alla saturazione, l’unica cosa che si è decisa è stata di non decidere nulla. E infatti i DPCM che vanno accumulandosi sono sostanzialmente un gigantesco elenco di mezze misure e deleghe: i sindaci (anzi no, i prefetti, o chissà chi altro) potranno disporre coprifuoco locali; le scuole superiori potranno spalmare la didattica su un maggior numero di ore; le autorità locali potranno rimodulare il trasporto pubblico e via delegando, il tutto senza assegnare le risorse adeguate. Insomma, più si invoca l’unità nazionale più sul piano operativo si rifiuta sistematicamente quella che è l’esigenza fondamentale di ogni emergenza: la presenza di un’autorità centrale in grado di prendere decisioni chiare, definitive e di assumersene la relativa responsabilità. Di fronte al possibile (e a questo punto probabile) collasso di settori fondamentali la risposta del governo è una e una sola: arrangiatevi.

Colti alla sprovvista da uno scaricabarile di tali dimensioni, i paladini dell’autonomia differenziata, i governatorissimi che tanto hanno detto e fatto per ottenere maggiori poteri, si fanno piccoli piccoli, in preda al panico cercano qualche scappatoia, qualcun altro a cui scaricare la responsabilità di una crisi che hanno prima ignorato, poi sottovalutato e che infine presenta il conto, salatissimo. Non è difficile constatare il diffondersi tra amministratori locali e responsabili di strutture pubbliche di rimostranze sui mezzi che non ci sono, sui dipendenti che mancano e sulle mille carenze (già gravissime prima della pandemia) di sistemi pubblici che molto spesso quegli stessi dirigenti hanno contribuito a smantellare, mentre ingrassavano le tasche dei privati con concessioni e svendite per rientrare nei vincoli di bilancio e tetti di spesa.

Così si arriva al nodo di fondo della questione, accuratamente evitato in tutti questi mesi di dibattito sulle misure: se vuoi agire efficacemente, devi non soltanto avere un piano, ma anche le risorse per metterlo in pratica. In questo senso, le attuali dichiarazioni di Conte conferenza stampa dopo conferenza stampa si fanno ben più chiare e lapidarie delle fasi precedenti. Quando si parla delle misure introdotte per aiutare i lavoratori e le fasce più deboli della popolazione, infatti, la risposta è di una sincerità disarmante: i soldi stanno finendo, non possiamo più permetterci aiuti a pioggia. Questa convinzione di poter sostenere la necessità di cambiare strategia rispetto i mesi precedenti suona tuttavia come beffa dopo il danno poiché i sostegni elargiti sono in gran parte fluiti nelle tasche delle grandi imprese, mentre c’è chi ancora aspetta la cassintegrazione, per non parlare della miseria dei bonus e dell’assenza di politiche concrete per i giovani… Come già era successo immediatamente dopo gli episodi di esproprio al supermercato durante il lockdown, soltanto facendo irrompere nel dibattito politico le rivendicazioni sociali il Governo ha dovuto elargire rapidamente i bonus spesa, oggi come ieri è solo grazie ai fatti di Napoli che stanno venendo rimesse all’ordine del giorno le tutele sociali (sotto il palliativo di “Ristori”).

La nostra generazione di lavoratori poveri, perennemente in affitto, è stata abbandonata a sé stessa. Abbiamo continuato a pagare affitti astronomici nelle città dove studiamo e lavoriamo, mentre le università continuavano a chiederci di pagare le tasse e venivamo sbattuti fuori dagli studentati, i nostri contratti precari andavano in scadenza senza rinnovo e un intero sistema mediatico si accaniva contro di noi additandoci come untori. Intanto, di fronte al crollo delle certezze anche più precarie continua a palesarsi la fragilità di una generazione cresciuta a testa bassa sotto la pressione di ritmi di vita frenetici e riempiti di aspettative che la realtà frantuma brutalmente giorno dopo giorno.

Con un intero modello di sviluppo al collasso e l’onda montante della crisi economica che già si sta abbattendo sul paese, il Governo cerca espedienti per tirare avanti, di settimana in settimana, confidando nel sostegno dell’Unione Europea cullandosi nelle stesse vergognose bugie che per decenni sono state propinate agli elettori, prima tra tutte l’esistenza di una qualche “comunità solidale” che in realtà offre solo aiuti con vincoli stringenti.

Si evidenzia così in modo catastrofico l’incapacità di trovare soluzioni che mirino realmente al benessere collettivo. Non bastano i discrediti della Gabanelli di turno per nascondere invece i risultati di quei paesi che seguendo una prospettiva opposta hanno saputo sviluppare strategie in grado di contenere il contagio, ottenendo inoltre l’effetto di non deprimere l’economia. Il caso della Cina è lampante: primo paese ad avere a che fare con il virus, grazie alla pianificazione è riuscita a mettere in piedi un sistema di tracciamento dei contagi e circoscrizione dei focolai che ha permesso di interrompere la diffusione delle infezioni su base locale.

Per fare un esempio, per sopprimere un focolaio di sei casi nella città portuale di Qingdao, si è proceduto a testare tutti gli 11 milioni di abitanti della zona nel giro di pochi giorni, individuando casi che erano sfuggiti al tracciamento e stroncando così il contagio sul nascere. Risultato? Ad oggi, secondo le stime, la repubblica popolare sarà l’unico paese al mondo a chiudere il 2020 con una crescita del PIL, mentre il numero delle trasmissioni locali del virus è praticamente zero.
 
Al contrario, laddove la logica dominate di governance è la competizione, non solo si è incapaci di procedere alle necessarie chiusure ma ci si ritrova anche senza strumenti adeguati per fare fronte alla situazione, così il contagio dilaga, travolgendo nella sua corsa anche il PIL che tanto si cercava di salvaguardare. Queste semplici considerazioni erano già ben chiare a febbraio, ritrovarsi a fine ottobre nelle stesse condizioni dimostra l’incapacità e la miopia della classe dirigente, italiana ed europea, di reggere il peso delle contraddizioni generate dal modello sociale perseguito.

La prima cosa da fare è decostruire la narrazione tossica dell’emergenza, dopo più di otto mesi l’irriformabilità di questo sistema di potere criminale è innegabile e bisogna dunque affermare con forza la necessità di un cambio di paradigma e assumersi la responsabilità della rottura, siamo divisivi perché non crediamo alla menzogna del destino comune – il classico appello alla responsabilità perché in fondo siamo tutti sulla stessa barca – tra chi non arriva a fine mese e chi continua ad arricchirsi nonostante la pandemia. 

Occorre dotarsi di una lettura costantemente all’altezza dei processi in corso permettendo così un’adeguata iniziativa di lotta sui nodi di fondo del nostro tempo, respingere il ricatto del debito, pretendere la tutela alla salute e dei pieni diritti, su questo punto sarà necessario costruire alleanze politiche e sociali sui temi principali di questa fase, primi fra tutti salute e reddito. La responsabilità di fronte all’aumento dei contagi non ci deve relegare alla completa dimensione virtuale.

Dobbiamo essere coscienti che gli stravolgimenti in atto sono un punto di non ritorno sotto diversi punti di vista e che, a prescindere da quanto la pandemia continuerà a durare, il dopo non sarà come il prima. Pensiamo ad esempio alla digitalizzazione di interi settori della società e le ricadute in termini occupazionali.

Il sostanziale immobilismo finora dimostratosi, nonostante isolati episodi in controtendenza, conferma che non esistono scorciatoie praticabili, non sarà una forzatura soggettiva a cambiare le carte in tavola ma, come sempre, a fare la differenza resta il percorso che ci diamo per raggiungere l’obiettivo