A CENT’ANNI DA LIVORNO, FARE I CONTI CON LA STORIA

Il 21 gennaio 1921 la corrente comunista del PSI, dopo cinque giorni di accese discussioni e confronto tra posizioni inconciliabili, rompeva con il resto del congresso e si riuniva al teatro San Marco di Livorno per fondare il Partito Comunista d’Italia.

A cent’anni di distanza la scissione di Livorno solleva questioni ancora attuali su quella che anche oggi è la funzione di un’organizzazione comunista che ha l’ambizione di essere l’avanguardia della classe per il superamento dello stato di cose presente.

Occorre però fornirci degli strumenti per una lettura indipendente e viva di quell’episodio, sia per non scadere in vuote celebrazioni di carattere puramente identitario o accademico che ne disinnescano la portata sul presente, sia per riappropriarci di un passaggio storico fondamentale per il movimento di classe del novecento italiano, senza lasciarlo alla narrazione mistificante del nostro nemico di classe.

Con la fine del ciclo di lotte degli anni settanta e poi soprattutto con la caduta del blocco socialista nel ’91 la controffensiva padronale si è accompagnata a una sempre più pervasiva operazione di revisionismo storico imponendo il proprio punto di vista di classe su tutto un patrimonio di lotte e esperienze a cui la sinistra di questo paese ha rinunciato, quando non l’ha programmaticamente disconosciuto. Pensiamo solo alla percezione che si ha oggi degli anni settanta, un decennio di enormi conquiste sociali e civili, che nel sentire comune è diventato un periodo di folle violenza tra opposti estremismi, da cui è stato completamente rimosso l’elemento di classe e il ruolo delle stato e della borghesia nell’attacco repressivo e stragista sferrato contro i movimenti.

In questo senso è esemplificativo il libro pubblicato da Ezio Mauro per questo centenario “La dannazione: 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo”, dove un dibattito che affrontava questioni teoriche sostanziali sulla prassi dell’organizzazione e del partito viene ridotto a uno scontro da operetta mosso dalle rivalità dei suoi protagonisti. Per individuare così, tutto in termini psicologisti, quello che per Mauro è il difetto storico della sinistra: l’incapacità di rimanere unita. Una decisione irrazionale, quella dei fondatori del PCd’I, che dividendo la sinistra avrebbe spalancato le porte al fascismo. E’ evidente la ricaduta sul presente di una lettura del genere, che mira alla pacificazione di qualsiasi ipotesi conflittuale e a falsificare la storia, ignorando deliberatamente il protagonismo proprio del PCI durante la resistenza.

Noi riconosciamo invece la portata di quell’evento, di una scissione che poneva concretamente il problema della presa del potere e della rottura rivoluzionaria, aderendo alla piattaforma rivoluzionaria dell’Internazionale comunista di Lenin e liberandosi dal pantano riformista e revisionista della seconda internazionale, paralizzata dalla convivenza forzata di visioni incompatibili e tra cui non era possibile arrivare a sintesi – e la cui strategia attendista l’aveva portata durante la prima guerra mondiale alla completa irrilevanza politica o a votare i crediti di guerra.

Trarre insegnamento dalla scissione di Livorno non deve significare però riportarla meccanicisticamente all’oggi, quanto coglierne metodo e motivazioni, astraendole dal momento storico concreto in cui queste avvenivano, per agire nel presente. Né soprattutto significa ignorarne tutta la successiva evoluzione storica, segnata da profondissime contraddizioni e deviazioni, che ben prima del compromesso storico e dell’abbraccio mortale alla NATO, avevano già modificato in profondità la natura rivoluzionaria di quell’esperienza. Una traiettoria complicata, ma che già dai fatti di Piazza Statuto del ’62 a Torino ha visto il PCI schierarsi dalla parte dello Stato e della repressione contro le lotte di operai e studenti, come avrebbe poi continuato a fare sistematicamente per tutti gli anni settanta.

Rimanere legata nostalgicamente a quella storia ha portato la sinistra a non comprendere quanto stava accadendo nella società, come il capitalismo si stava rinnovando e come quella strategia, tutta schiacciata sul parlamentarismo e la compatibilità, non fosse più adeguata ai tempi e avesse tradito la classe lavorando per gli interessi dei padroni. Nessuna celebrazione quindi per una tradizione che ha generato da una parte il PD, massima espressione del grande capitale e del progetto imperialista europeo, dall’altra una galassia di gruppi e partitini incapaci di leggere il presente e attaccati morbosamente a rituali identitari che non sono più in grado di produrre conflittualità – e che portano anzi, per citare solo l’ultimo esempio, ad appelli unitari contro un generico fascismo e vuoti di contenuto politico, perfetta realizzazione della sinistra unita auspicata dagli Ezio Mauro di turno.