ATTI DELL’ASSEMBLEA NAZIONALE “SCUOLA, UNIVERSITÀ E RICERCA: serve una exit strategy”

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La crisi innescata dalla pandemia da Covid-19 ha fin da subito mostrato le sue origini sistemiche, diffondendosi in tutti i settori della società e colpendo soprattutto laddove da trent’anni si subiscono tagli e trasformazioni imposti dall’Unione Europea ed attuate sia da governi di centrosinistra che di centrodestra. Quella che viviamo oggi è infatti una crisi sistemica del capitalismo iniziata negli anni ’70 a cui il capitale cerca di rispondere attraverso una modifica dell’organizzazione del lavoro e dei processi produttivi, lo sviluppo e l’applicazione di tecnologie in ogni ambito della vita, nonché un aumento dello scontro interimperialistico. Uno dei casi più emblematici di ciò riguarda il mondo della formazione e della ricerca di cui sono stati palesati tutti i limiti e le storture.

Formazione e ricerca, infatti, da decenni sono state sistematicamente riformate per essere adattate alle esigenze del tessuto produttivo europeo e territoriale. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, si tratta di un tessuto produttivo a basso valore aggiunto, subordinato alle catene del valore mitteleuropee ed estremamente diversificato tra Nord e Sud e tra Centro e Periferie. Questo tessuto produttivo richiede quindi pochi lavoratori qualificati e tanti lavoratori poco qualificati disponibili ad accettare ogni tipo di condizione di lavoro, è incapace di assorbire tutta la forza lavoro e produce enormi quantità di disoccupati.

Il mondo della formazione diventa perciò il primo filtro e deve adeguarsi a questo cambiamento indirizzando gli studenti verso l’uno o l’altro destino. Deve infatti decidere chi serve o meno alle esigenze del mercato, il quale non può permettersi una sovra-formazione culturale delle fasce giovanili. Indicative in questo senso non sono solo le politiche attuate dagli anni ’90 ma anche quelle immediatamente più recenti: dal reinserimento del curriculum scolastico annunciato già dalla Buona Scuola di Renzi alle politiche scolastiche attuate durante la pandemia, che hanno esasperato le contraddizioni già presenti da anni e che hanno lasciato indietro più di 200.000 studenti che il prossimo anno non si riscriveranno a scuola, aumentando un già altissimo abbandono scolastico presente nel nostro paese e in generale in tutto il Sud Europa. Un dato che viene recentemente confermato dal rapporto sull’università italiana della Corte dei conti che certifica l’aumento dei casi di chi si trova costretto ad abbandonare gli studi, così come di quanti direttamente non possono permettersi di accedere all’università, dati che riguardano per la gran parte chi arriva da famiglie a basso reddito. Il rapporto certifica anche che gli sbocchi occupazionali sono sistematicamente sotto-qualificati rispetto al percorso di studi, cosa che ha portato ad un incremento del 41,8% dal 2013 dell’emigrazione forzata di forza-lavoro qualificata verso il Nord-Europa.

Il mondo della formazione ha abbandonato quindi qualsiasi funzione di emancipazione, assecondando la via designata da questo sistema economico e sociale, una via di imbarbarimento che ha come risultato non solo un aumento dei NEET (sono 2,1 milioni i giovani che non studiano e non lavorano, ossia il 23,3%), ma che provoca in primis un “blackout pedagogico” senza precedenti, condannando milioni di giovani ad un vero e proprio abbandono e a non avere nemmeno una formazione scolastica dignitosa.

Finito o abbandonato il percorso di studi, insieme alla crisi pedagogica, si aggiunge un’altra profonda crisi tutta sulle spalle delle giovani generazioni: una crisi di prospettive, nella quale le uniche scelte sono tra precarietà, sfruttamento o disoccupazione. Se infatti nel settore privato la capacità di assorbire la forza lavoro qualificata ed offrire un lavoro dignitoso a tutti è impossibile, dall’altro lato al settore pubblico, unico in grado di adempiere a questa funzione, è stato sistematicamente proibito di farlo a partire dalla furia privatizzatrice degli anni ’90 (di cui Draghi è stato tra gli attori principali) e sancito dai trattati europei. Ad oggi, davanti ad una crisi del privato innegabile, si sta riproponendo la necessità dell’intervento statale, ma solo a servizio del mercato, e di questo sono esempi lampanti il Recovery Fund e il PNRR. Questi progetti, infatti, servono solo per far ripartire i profitti senza mettere in discussione il sistema che ha causato la crisi sanitaria, la crisi pedagogica e quella di prospettive.

Il progetto del governo Draghi, inoltre, è necessario per riorganizzarsi davanti ad un’accelerazione della competizione a livello internazionale tra diversi poli imperialisti e nella quale l’Unione Europea deve necessariamente essere all’altezza dello scontro. Per questo motivo, si fa un gran parlare della necessità di rafforzare la distinzione tra università di serie B (in cui professionalizzare gli studenti) e pochi poli universitari di serie A (in cui fare ricerca per le imprese del territorio). Una necessità legata dal fatto che siamo nella fase del “capitalismo dei monopoli intellettuali”, ossia un ambiente economico in cui la competizione avviene attraverso la massiccia privatizzazione della conoscenza anche grazie all’aiuto dello Stato che fornisce ricerca di base, finanziamenti, spazi e personale. Una divaricazione che segue necessariamente la differenza produttiva e che quindi accentua il divario Nord-Sud e Centro-Periferia e che accelera la subordinazione al profitto dei contenuti della formazione e della ricerca, nonché la tendenza alla “normalizzazione” del pensiero e all’espulsione di ogni contenuto critico.

In questo contesto, si inserisce il G20 su Istruzione e Lavoro tenutosi a Catania il 22 e 23 giugno. Una tappa del foro del G20 di cui l’Italia per quest’anno detiene la Presidenza e che, come abbiamo già affermato, si configura come uno scontro – e non un incontro – tra potenze mondiali il cui risultato è tutt’altro che lineare e scontato.

Come abbiamo già fatto per il primo appuntamento che si è tenuto a Roma il 21-22 maggio, siamo tornati nelle piazze pronti a contestare un sistema economico-sociale che causa solo crisi e devastazioni. Sappiamo, infatti, che per uscire dalla situazione nella quale ci troviamo e che mette a rischio la stessa esistenza dell’Umanità, non bastano misure palliative ma bisogna organizzarsi per portare avanti un cambiamento sistemico, serve una vera e propria “exit strategy”. Solo ribaltando le priorità della società, quindi ponendo al primo posto il benessere collettivo piuttosto che il profitto privato, potremmo risolvere i nostri problemi e le esperienze di Socialismo del XXI secolo ce lo dimostrano.

Per organizzare la mobilitazione a Catania, ma anche per andare oltre questa data ed organizzare la lotta dentro il mondo della formazione e della ricerca, abbiamo organizzato l’assemblea nazionale “Scuola, università e ricerca: serve una exit strategy”, un momento di analisi e dibattito tra docenti, ricercatori, organizzazioni giovanili e studentesche per poter essere in grado di cogliere i cambiamenti in atto e per poter offrire una risposta all’altezza. Raccogliamo qui di seguito gli interventi e i contributi di quest’assemblea.