Le alternative di sistema alla crisi pedagogica neoliberista

Contributo di Antonio Allegra (docente scuola superiore, Rete dei Comunisti) all’assemblea nazionale Scuola, università e ricerca serve una exit strategy

La cornice neoliberista del blackout pedagogico

Il pedagogista e militante venezuelano Luis Bonilla-Molina ha coniato l’espressione “blackout pedagogico globale” per descrivere la condizione dell’istruzione a livello mondiale degli ultimi decenni, un’espressione che, al tempo della pandemia da Covid-19, sembra descrivere alla perfezione la “crisi pedagogica” di quest’ultimo anno e mezzo.

L’espressione in spagnolo (Apagón Pedagógico Global) richiama un altro blackout, l’apagón cultural, vissuto in Cile all’indomani del golpe che depose il presidente democraticamente eletto Salvador Allende (del fronte progressista e popolare) e pose al potere il dittatore e generale Augusto Pinochet con la compiacenza e l’aiuto diretto degli Stati Uniti. Il colpo di stato del 1973 in Cile sembrava riportare la storia indietro di 50 anni, al tempo della nascita del fascismo, ma la dittatura militare cilena, anziché introdurre il corporativismo fascista, introduceva il ben più avanzato neoliberismo, teorizzato da Milton Friedman a Chicago e introdotto tramite studenti dell’alta borghesia formatisi alla sua scuola (i c.d. “Chicago boys”).

L’apagón di cui parla Bonilla-Molina è storicamente legato al neoliberismo, che si diffuse, dopo la sperimentazione cilena, a livello planetario negli anni Ottanta del secolo scorso grazie al primo ministro Margaret Thatcher nel Regno Unito (1979) e al presidente Donald Reagan negli USA (1981). Era la fine della fase keynesiana dello sviluppo capitalistico che aveva concesso alla classe operaia un peso più o meno paritario e un ruolo più o meno collaborativo nella governance capitalista. Il neoliberismo sarebbe diventato la risposta politica alla crisi strutturale che ha avuto origine proprio agli inizi degli anni Settanta e che, nella sua forma monetaria impazzita, avrebbe dato luogo alla finanziarizzazione spinta dell’economia e, dopo lo spianamento delle economie socialiste, alla globalizzazione. Il potere contrattuale e politico della classe lavoratrice veniva fortemente ridimensionato a livello mondiale, la borghesia internazionale avrebbe recuperato quanto era stata costretta a cedere ai lavoratori in virtù delle lotte di classe e dello spauracchio socialista, sempre dietro l’angolo. Come afferma l’economista Thomas Piketty nel suo libro Il capitale nel XXI secolo: «Nei paesi più ricchi, il reddito da capitale equivaleva nel 1975 al 15-25% del reddito nazionale, nel 2010 al 25-35%»[1]. Dentro questa dinamica economica mondiale si colloca la trasformazione del mondo dell’istruzione a livello globale, che proprio in questi anni diviene oggetto delle attenzioni delle organizzazioni economiche internazionali, dall’Ocse all’Unesco, dal WTO al FMI.

In sintesi l’Apagón Pedagógico Global si articola in 5 punti: frammentazione pedagogica; svalorizzazione istituzionale e sociale della figura del docente; svalorizzazione della scuola pubblica; riduzione dell’insegnamento e della valutazione scolastica a due aree cognitive (logico-matematica e letto-scrittura); riducendo il contenuto dell’apprendimento alla scienza e limitando la pratica all’uso strumentale delle tecnologie. Le radici di questa svolta affondano nel cuore della ristrutturazione capitalistica, che nell’ambito della competizione globale deve rendere più produttivo il lavoro, con lo sviluppo scientifico, l’estensione applicativa della tecnologia a tutti livelli produttivi possibili e la comunicazione digitale. Questo processo di destrutturazione e ristrutturazione dei sistemi educativi, che segue le esigenze di ristrutturazione produttiva, è avvenuto contemporaneamente al processo di atomizzazione e individualizzazione della vita politica, del consumo, della socializzazione e, da ultimo, dell’istruzione.

Il liberismo ha sempre puntato sull’individualismo, sull’esaltazione del valore dell’individuo. Senza andare indietro nel tempo e spiegare perché la lotta della borghesia contro il feudalesimo trovasse uno strumento ideologico efficace nell’individualismo e nei suoi corollari logici (meritocrazia, libertà di coscienza, liberalismo politico, ecc.), occorre dire che la “civiltà capitalistica”, la società borghese, affonda le sue radici nell’atomizzazione [2] e che questa concezione atomistica e singolarizzante non è niente di nuovo. Ma è certo, però, che progressivamente nel regime sociale borghese ampie sfere del collettivo ricadono sempre più nella sfera singolare, atomizzata, dell’individuo. Il neoliberismo ha accentuato e, se possibile, accelerato questo processo fino al parossismo.

Luis Bonilla-Molina ha individuato alcuni fenomeni recenti di questo tipo che concorrono a determinare il black-out pedagogico globale: l’individualizzazione del consumo (consumo a casa), l’individualizzazione del rapporto politico (attraverso internet, come ha fatto ad esempio, il movimento politico spagnolo Podemos o, come potremmo dire noi, come ha fatto il Movimento 5 Stelle), l’individualizzazione della socialità, vissuta a casa tramite i social network e infine l’individualizzazione dell’apprendimento. Tutto questo avviene a casa, nel proprio luogo “privato”, facendo a meno degli altri [3]. Oltre a ciò, si aggiunge una generale depedagogizzazione dell’istruzione, intendendo con ciò la mancata riflessione su cosa sia o debba essere l’essere umano. Poiché manca questa riflessione, il discorso sull’istruzione perde il suo carattere filosofico-politico e diventa discorso tecnico. Dunque non c’è più nessun ragionamento sulle finalità generali dell’essere umano in rapporto all’essere sociale. E non è un caso che spesso la riflessione più accreditata in ambito pedagogico, quella considerata più scientifica (perché si appoggia effettivamente a una scienza), sia quella legata alle neuroscienze che sposta però il discorso sull’educazione dal suo essere parte dell’essere sociale all’essere naturale (biologico-cognitivo).

Ora, tutto quanto detto finora può essere espresso con una celebre affermazione-slogan di Margaret Thatcher del 1987: «La società non esiste, esistono solo gli individui» [4]. Questo fondo individualistico è ciò che caratterizza le società borghesi, in particolar modo quelle neoliberiste, ossia quelle sviluppatesi dagli anni Settanta e Ottanta in poi.

Come nasce la scuola neoliberista

Il 1970 è l’anno in cui l’Unesco, l’organizzazione dell’ONU per l’educazione, la scienza e la cultura, affida a Edgar Faure il compito di scrivere un rapporto sull’educazione nel mondo, che verrà pubblicato nel 1972 con il titolo Learning to be[5]. È in questa sede che viene lanciato il famoso concetto dell’apprendimento permanente (lifelong learning), che godrà di una fortuna imperitura nei decenni successivi per giungere fino ai nostri giorni. Benché idealmente il documento si proponesse una finalità umanistica (ossia lo sviluppo integrale dell’uomo, raggiungibile attraverso una formazione permanente, «per elaborare, nel corso della vita, un sapere in costante evoluzione», per «apprendere cioè ad essere uomini che continuamente apprendono, adeguandosi alle infinite variabili della nuova condizione umana»[6]), nel corso degli anni ottanta queste aspirazioni umanistiche vennero investite da una pervadente visione economicista neoliberale, perdurante fino ad oggi. Qualunque fossero gli intenti del documento, il contesto economico e politico del tempo ne ha condizionato la “traduzione sociale”. Infatti, il “saper essere” è diventato il saper essere in una società neoliberale, che ha posto fine (o si accinge a farlo) allo “stato assistenziale”, in cui i singoli sono slegati dallo “stato-balia” per darsi da fare da soli, in un mondo in cui nessuno dirà loro cosa fare e come fare. E se va male, è colpa loro. Ecco il principio thatcheriano espresso in termini pedagogici. In termini economici, significava che la protezione di cui godeva la classe lavoratrice era finita (e doveva finire l’idea del collettivo, del sociale), e che i lavoratori avrebbero dovuto iniziare a pensarsi non come “classe” ma come individui che si preoccupano solo di sé e iniziano a introiettare che il fallimento è solo individuale. Appunto, “non esiste la società”, esiste solo un perpetuo incontrarsi-scontrarsi di atomi secondo le modalità del cosiddetto moto browniano.

Ma chi era Edgar Faure? Divenne ministro dell’Educazione Nazionale in Francia proprio subito dopo il “maggio parigino”, cioè il periodo della rivolta studentesca del ‘68 in Francia, la lotta studentesca per antonomasia. L’esito di quelle lotte era stata la riforma del sistema di istruzione superiore, nella quale venivano accolte alcune istanze di democratizzazione provenienti dal maggio parigino. Faure apparteneva al Partito radicale, una classica formazione politica socialdemocratica. La sua riforma ebbe un’approvazione trasversale, solo il Partito Comunista Francese si astenne. Il disegno di Faure mirava a mutare in senso compatibilista le istanze più radicali. La mancata rivoluzione partorì una riforma socialdemocratica, il mancato sbocco politico di un movimento sociale radicale finì per avvicinarsi al futuro modello neoliberista di istruzione, in cui quello che prevale è esattamente una concezione privatistica del sapere, del lavoro e che nasconde la dimensione sociale del lavoro.

Da allora l’OCSE ha avuto un ruolo determinante nell’assunzione in chiave liberista dell’istruzione a livello mondiale: è stata questa organizzazione internazionale che ha posto le basi per la valutazione dei sistemi di istruzione a ogni livello (internazionale, nazionale, ecc.), per giungere poi alle famose prove PISA (e da noi INVALSI) e all’impianto generale dei processi di riforma europei dagli anni Novanta a oggi[7]. L’elemento quantitativo è ciò che è prevalso a discapito dell’elemento qualitativo dell’istruzione: la quantificazione in ambito valutativo, dalla valutazione del singolo studente a quella della singola scuola e infine del sistema nazionale. Così come è prevalso l’elemento individualizzante, con il quale si è declinata l’istruzione in termini di bene per il singolo individuo (e non come bene sociale) e quale strumento per il singolo per emergere nella società del lavoro, dove vige una forte concorrenza sovranazionale tra lavoratori.

In questa trasformazione hanno avuto una responsabilità importante la cultura pedagogica di “sinistra” (nel senso di socialdemocratica), i sindacati tradizionali e la politica della sinistra (come sopra) della governance capitalistica. Abbandonata l’idea di un’alternativa sociale, la sinistra è diventata solo l’altra faccia della governance capitalistica, per cui non va lontano dal vero chi dice che tra sinistra e destra non c’è molta differenza.

Che cos’è un’alternativa di sistema

La questione del potere

Anticipiamo subito le conclusioni: parlando di istruzione, un’alternativa di sistema richiede una società differente, ossia, per noi, una società socialista o di transizione socialista. Sembra banale dirlo, ma se riandiamo a quanto detto sopra sul maggio ‘68 a Parigi, ci rendiamo conto che è proprio il mancato “sbocco di potere” – che dà la possibilità (il potere…) di trasformare la società in una certa direzione – ad aver trasformato quelle rivendicazioni antiautoritarie, rivoluzionarie, libertarie, radicali quanto si vuole, in una risposta “del capitale” alla sua stessa crisi. Non è un caso che molto del lessico neoliberista in ambito educativo provenga dalla pedagogia critica o dai movimenti intellettuali di liberazione popolare. Ad esempio, la critica alla concezione “depositaria – o bancaria – del sapere” (il nozionismo riversato nelle teste degli studenti), formulata dal brasiliano Paulo Freire non è in contrasto con la didattica per competenze, perché in entrambi i casi si deve funzionalizzare l’apprendimento. Il punto, però, è per quale scopo? È la finalità sociale ciò che determina la “natura” di una concezione rispetto a un’altra. È l’assetto sociale ed economico a determinare, a far scaturire, certe possibilità. In una società in cui prevale l’uniformità omogeneizzante del capitale – il quale deve misurare tutto e, per farlo, deve considerare tutto in termini quantitativi – e in cui prevale una falsa concezione privatistica e individualizzante del sapere, sarà estremamente difficile costruire un sistema educativo che non risenta di queste caratteristiche.

Il superamento della società borghese

È un errore tipico del pensiero cattolico e/o di sinistra pensare che a scuola si possa fare diversamente dalla società “esterna”, per cui si può essere tutti uguali, mentre “fuori” dominano le differenze sociali. Questo errore è il frutto della conformazione delle società borghesi. Alla sua nascita, la società borghese si fonda su una divaricazione che la caratterizza nella sua essenza, quella tra la sfera pubblica e la sfera privata dell’esistenza degli esseri umani. Il pensiero politico francese illuminista che ha formalizzato questa divaricazione parlava del citoyen (cittadino, sfera pubblica) e del bourgeois (il borghese, privato). Il citoyen è il soggetto indicato dell’uguaglianza davanti alla legge (uguaglianza formale); il bourgeois è invece il soggetto che agisce nella sfera della vita privata, quella economica, dove vigono le differenze di classe. Lo Stato è il soggetto che sovrasta le differenze e uniformizza gli individui tramite il diritto. Benché la formazione dello stato moderno sia stato un elemento progressivo nella storia umana, perché ha sostituito il particolarismo feudale basato sul privilegio, tuttavia la divaricazione borghese cela la contraddizione tra sfera pubblica e sfera privata e condiziona un pensiero distorto che riflette passivamente tale divaricazione.

Affidarsi alla legge, magari alla Costituzione, per sperare nell’uguaglianza degli esseri umani, significa ancora una volta ricadere entro la sfera del pensiero borghese. Ecco perché la “scuola della Costituzione” è limitante, soprattutto oggi, perché anche la stessa carta costituzionale è di fatto superata dai rapporti di forza e di proprietà neoliberisti e da un ordinamento statuale sovranazionale che la priva di molte sue prerogative.

Per ragionare di un’alternativa di sistema e non di una semplice variante della scuola borghese (il modello finlandese o il modello americano, ecc.), bisogna allora puntare a una società in cui l’uguaglianza sia reale, sostanziale, e non formale; bisogna puntare anche a una società in cui il carattere sociale delle attività umane non venga obliterato dall’individualismo borghese.

Il superamento dell’opposizione lavoro manuale/lavoro intellettuale

Guardando nello specifico ai modelli socialisti possiamo notare alcune caratteristiche di fondo. Innanzi tutto, è sempre stata una preoccupazione del movimento operaio e socialista quello di unificare formazione teorica e formazione pratica, superando una storica e artificiale divisione della prassilavorativa che è, al contrario, composta organicamente da teoria e azione pratica. Una millenaria divisione del lavoro, frutto della complessificazione dell’attività umana associata, ha portato a distribuire i ruoli sociali in modo tale da assegnare il “lavoro intellettuale” a ceti privilegiati e quello “manuale” ai ceti più bassi. Ora questa separazione diventa sempre meno stringente da una parte con l’emergere dell’automazione di certi processi produttivi e dall’altro con l’estensione dell’istruzione di massa di alto livello. Ma agli albori della società borghese questa differenza era molto forte e sopravvive larvatamente nella differenza tra licei e istituti tecnici, ad esempio, o tra Istituti tecnici e scuole professionali. Non è un caso che la preparazione si abbassi passando da un liceo a un istituto professionale, così come l’estrazione sociale diventi più modesta se si passa da un liceo a un istituto professionale. Le scuole politecniche di cui parla Gramsci e sperimentate nel mondo socialista, sono un esempio di questo tentativo di superare la divaricazione tra lavoro manuale e intellettuale. In un certo senso, l’alternanza scuola-lavoro è un’invenzione del mondo socialista atta a superare questa divisione tra parte teorica e parte pratica dell’attività lavorativa [8]. In una delle prime testimonianze di quanto stavano facendo i bolscevichi nel campo educativo, possiamo leggere: «Il primo passo pratico fu rivolto all’istruzione nei villaggi. E l’opera svolta si ispirò a criteri solidi. Si cercò di attrarre i contadini stessi, come cooperatori, nel movimento per l’educazione, destando e tenendo vivo il loro interessamento. Perciò, la scuola fu trasformata in una “Scuola di lavoro”, dove, oltre alle lezioni, di lettura, scrittura e aritmetica, il lavoro era messo in relazione con tutte le pratiche della vita nel villaggio» [9].

Bisogna ricordare che il marxismo e il socialismo sono pensieri fondamentalmente umanistici, che mirano a esaltare l’essere umano nella sua complessità, nel suo sviluppo integrale, e vedono come una forma di impoverimento la standardizzazione e la riduzione a una “mansione” (ciò che normalmente chiamiamo “lavoro”) della variegata attività umana [10].

Uno degli esempi più “recenti” è l’esperimento della Escuela en el campo che la rivoluzione cubana ha messo quasi da subito in atto nell’isola caraibica. Si trattava di scuole superiori di agraria collocate in campagna, dove gli studenti potevano studiare e lavorare, applicando quanto appreso direttamente sul luogo, unendo così teoria e pratica, lavoro e gestione. Questo esperimento, fortemente voluto da Fidel Castro (che già nel suo celebre discorso La storia mi assolverà aveva fortemente criticato lo stato arretrato dell’educazione cubana al tempo della dittatura di Batista perché viziata da una separazione annichilente tra teoria e prassi), aveva lo scopo di: a) portare l’educazione superiore al popolo, per lo più contadino, spostando i tradizionali centri educativi dalle città – riservati solo ai ceti privilegiati – alle campagne; b) rivoluzionare la metodologia didattica unificando teoria e prassi; c) fornire gli strumenti dell’autogestione al popolo cubano [11].

L’emancipazione dei subalterni e la “cuoca di Lenin”

L’ultimo punto appena citato ci conduce a un’altra questione, più squisitamente politica, che completa lo “sviluppo umano integrale” che il comunismo dovrebbe comportare: ci si riferisce al potere politico della gestione dell’intera attività lavorativa umana associata, in una parola l’economia, e sottometterla a decisioni politiche che rispecchino l’interesse generale dei lavoratori.

Finora, storicamente, la sottomissione delle decisioni economiche alle scelte politiche che mirano al raggiungimento dell’interesse generale dei lavoratori è passata attraverso la pianificazione centralizzata. Questa non necessariamente supera la divisione del lavoro di cui si è detto sopra, né tantomeno conferisce automaticamente e direttamente ai lavoratori la gestione politica dell’economia. Ciò avviene perché il processo di elevazione del proletariato da classe subordinata a classe egemone, in grado di autogestirsi, impiega più tempo della “semplice” presa del potere. Quando Lenin affermava “Sappiamo che una cuoca o un manovale qualunque non sono in grado di partecipare subito all’amministrazione dello Stato […] Ma […] esigiamo la rottura immediata con il pregiudizio che soli dei funzionari ricchi o provenienti da famiglia ricca possano governare lo Stato” [12], egli diceva una verità semplice: le competenze non si acquisiscono da un giorno all’altro, ma si può far sì che esse vengano assunte a livello generalizzato. Né l’Unione sovietica né gli altri paesi socialisti – a quanto ci risulta – sono mai riusciti a completare questo processo di elevazione dei lavoratori a gestori politici consapevoli. Questo non significa che il figlio di un contadino non abbia potuto ambire alle massime cariche statali (era avvenuto per Stalin e per Krusciov, per esempio). Tuttavia lo sviluppo generale delle forze produttive non è avvenuto a tal punto da consentire un simile salto di qualità. Ovviamente non fu soltanto una questione di sviluppo di forze produttive. Il socialismo, nella forma dell’economia pianificata centralizzata, con il necessario e inevitabile sviluppo dell’apparato burocratico (e con le storture che ne sono derivate…), ideato in tempo di “guerra” ed emergenza [13], ha costituito il modello per tutte le economie socialiste (escluso quella cinese del dopo Mao): questo modello, identificato come “stalinista” perché attuato sotto Stalin (ma successivamente ripreso anche da chi non necessariamente si ispirava al socialismo, come i paesi del Terzo mondo, più favorevoli alla via sovietica di sviluppo [14]) fu il modello dello sviluppo accelerato, e centralizzato proprio perché accelerato. Senza andare a indagare le ragioni storiche di questa accelerazione brutale dello sviluppo, occorre sottolineare che quel modello funzionò (almeno fino a un certo punto), ma mise da parte l’obiettivo, per dir così, della “cuoca di Lenin”, ossia della preparazione politica generale e di massa per l’autogoverno socialista.

Il motivo di questa scelta non è attribuibile solo a responsabilità soggettive, ma anche a necessità storiche. Non dovrebbe mai essere dimenticato che il socialismo è una continua lotta per l’instaurazione di una società diversa in condizioni che le sono sempre avverse. Questa lotta richiede anche lo sviluppo delle forze produttive. Lì dove il socialismo ha lottato e lotta per la sopravvivenza, lo sviluppo delle forze produttive è stato e rimane essenziale. L’industrializzazione forzata sotto Stalin, per quanto brutale, ha permesso a un sistema e a una società di sopravvivere e di affrontare la più potente macchina bellica europea, quella nazista. Purtroppo la storia non sempre – quasi mai, in realtà – asseconda i desiderata politici, per cui occorre fronteggiare la situazione che si ha davanti.

Il Venezuela bolivariano ha una storia drammaticamente importante da questo punto di vista. Con Chávez, alla fine degli anni Novanta, il Venezuela bolivariano si riprende quote di autonomia e libertà dalla dipendenza neocoloniale neoliberista che ha caratterizzato il continente latinoamericano del ventennio precedente (da alcuni definito “ventennio perduto”). Il provvedimento economico più importante è stato la nazionalizzazione della produzione petrolifera, con la quale si è potuto destinare ingenti risorse ai piani sociali, dalla sanità all’istruzione, alle abitazioni pubbliche. Tuttavia, l’economia venezuelana, fortemente dipendente dall’esportazione del petrolio, ha dovuto fare i conti con uno sviluppo economico arretrato, rimasto al tempo della sua posizione di dipendenza [15] (in quanto fornitore di materie prime per i paesi del “primo mondo”). Questo dato strutturale, difficilmente eliminabile nel giro di poco tempo, ha condizionato lo sviluppo del socialismo nel XXI secolo in Venezuela. Occorre dare uno sguardo rapido a quanto accaduto in campo educativo per giungere al dato politico. Prima della elezione di Chávez, esisteva un forte quanto composito movimento educativo che lottava per la riforma dell’istruzione in senso popolare, democratico e radicale: sindacati, associazioni, partiti, movimenti dal basso. La presa del potere – per quanto per via elettorale – ha reso possibile quanto fino ad allora era rimasta una richiesta dal basso. Tra i maggiori risultati – oltre “ovviamente” alla fine dell‘analfabetismo – si annoverano il riconoscimento della cultura indigena basata anche sul rispetto della natura, insegnata a scuola e la creazione di una scuola in cui sapere e fare si compenetrano fin dai cicli scolastici iniziali per arrivare all’università. In tal senso, ad esempio, è notevole l’Università bolivariana dei lavoratori “Jesús Rivero”, i cui studenti sono veri e propri operai di fabbrica, cui è destinato il sapere tecnico e teorico che sta alla base dei processi industriali. Questo permette non solo di avere conoscenze per il controllo dell’intero processo produttivo, ma anche per il controllo politico sul processo produttivo. Quello che nell’Unione Sovietica non era avvenuto fino in fondo, nel Venezuela invece è un’aspirazione di fondo che, pur tra mille difficoltà, e nella lotta giornaliera contro la destabilizzazione monetaria, si porta avanti nella consapevolezza che il processo di emancipazione dei lavoratori è strategico e non un dipiù occasionale [16]. I risultati raggiunti in Venezuela non si misurano in astratto, rapportandoli a un modello ideale di socialismo, ma li si misura nell’ambito della lotta politica, di classe, che a livello nazionale e internazionale le classi lavoratrici e le forze politiche organizzate portano avanti. In definitiva, pur nella stretta dell’imperialismo americano, quella del Venezuela bolivariano è una lotta eroica che punta tutto sullo sviluppo dell’uomo integrale, dell’“uomo nuovo”, per ricordare le parole di Che Guevara.

Il superamento della concezione individualistica dell’uomo, del lavoro e della società

Che cos’è l’uomo nuovo, l’uomo socialista? Storicamente i sistemi educativi hanno dovuto rispondere a un’esigenza eminentemente politica: formare l’individuo in grado di vivere in una determinata società. Prima ancora delle scuole borghesi, l’istruzione per il popolo era dominio del mondo religioso: sia che si trattasse di educazione protestante (si imparava a leggere la Bibbia, libera dal controllo dell’apparato ecclesiastico cattolico), sia che si trattasse del catechismo controriformista insegnato dai gesuiti per insegnare la “vera dottrina” cristiana, il dato fondamentale dell’educazione erano i valori religiosi che dovevano conformare il modo di essere degli umani associati. Le società borghesi, invece, lottano per togliere il monopolio dell’educazione agli enti religiosi e dare un nuovo contenuto all’istruzione: innanzi tutto occorreva insegnare a leggere e a scrivere perché il cittadino o il suddito doveva conoscere le leggi dello stato; poi avrebbe dovuto saper far di conto in una società di mercato; avere alcune conoscenze scientifiche – che lo strappassero a una concezione arcaica della vita o lo sottraessero all’oscurantismo clericale – e infine avesse un minimo di conoscenza storica e geografica della propria nazione, in modo tale che si rafforzasse in lui il senso di appartenenza nazionale e il patriottismo. È un fenomeno davvero recente quello di voler sviluppare le forze produttive del lavoro attraverso l’istruzione. Prima ancora che se lo ponesse il neoliberismo, è stato il socialismo a porsi questa necessità.

Ma allora in cosa consiste la differenza tra l’uomo che vive in una società borghese e capitalistica e l’uomo che vive in una società socialista (“el hombre nuevo”)? Innanzi tutto l’“uomo capitalistico”, quello che viene definito homo oeconomicus, si genera “spontaneamente” nella società capitalistica, nel senso che ogni individuo che voglia sopravvivere in una società capitalistica deve apprendere la “razionalità” della società borghese. Per cui, per esempio, il principio dell’ottenimento del massimo profitto col minimo sforzo, oppure il raggiungimento del proprio interesse particolare a scapito di quello altrui o collettivo. La mistificazione della ideologia borghese è quella di pensare che l’uomo sia così per “natura”, rendendo natura ciò che invece è storia. Questa distorsione è il frutto di un’“illusione ottica”, per così dire, in quanto “sembra” che non ci sia nessuno che in modo coatto spinga gli esseri umani a comportarsi in un certo modo (per esempio, a seguire il proprio interesse personale), ma in realtà è lo stesso meccanismo sociale (ossia, il modo di essere sociale nella società capitalistico-borghese), “le regole del gioco”, che costringe gli individui. L’economista e filosofo scozzese Adam Smith, a tal proposito, nel Settecento parlava di “mano invisibile del mercato”.

Nel socialismo, per contro, non esiste un automatismo del genere. Anzi, nel socialismo – poiché, come detto più volte, è la fase della lotta per la costruzione del nuovo ordine sociale e non è già il nuovo ordine sociale – gli individui si portano ancora dietro l’uomo vecchio. La lotta per il socialismo è anche la lotta per l’uomo nuovo. In tal senso l’educazione è lo strumento principale per l’edificazione del nuovo tipo di essere umano. Tutte le società socialiste sono società fortemente pedagogiche. Solo le società borghesi neoliberali hanno preteso di non esserlo, etichettando anzi quelle società che si preoccupavano di esserlo con un’espressione che a loro doveva suonare infamante: “stato etico” [17].

Nell’ottica del socialismo, l’educazione non può essere oggetto di attività economica privata, perché attraverso la porta stretta dell’educazione passa la strada per l’uomo nuovo. Se prendiamo ad esempio la storia dell’Unione Sovietica, vediamo che nei primi tempi i rivoluzionari si preoccuparono seriamente di questo aspetto. Ai vertici degli uffici competenti dell’istruzione c’erano personaggi del calibro di Nadežda Krupskaja (la moglie di Lenin) e di Anatolij Lunačarski (primo ministro dell’istruzione sovietica). L’obiettivo primo del sistema educativo sovietico era la creazione dell’uomo nuovo, il cui valore primario era proprio il collettivismo. Questo era il capovolgimento a 180 gradi dell’homo oeconomicus, il cui valore principale è invece l’interesse individuale.

Il maggior pedagogista sovietico è sicuramente Anton Makarenko, un pedagogista attivo che ha sperimentato sul campo un nuovo modo di fare scuola, partendo prima di tutto dall’uomo nel contesto collettivo. La sua opera più famosa, Il poema pedagogico è il racconto di questo suo lavoro in una scuola per gli emarginati dalla società (per lo più provenienti dalla delinquenza spicciola). È interessante osservare che Makarenko riuscì a trasformare quanto di più individualista ci fosse, il delinquente spicciolo, costretto a vivere di sotterfugi, in un individuo responsabile verso la comunità.

Si è fatta molta retorica sull’homo sovieticus [18], i cui difetti rispecchiavano i difetti della società sovietica russa, ma l’obiettivo di quello slancio pedagogico non era certa la macchietta abbozzata da Aleksandr Zinov’ev. Non si vuole negare che quanto lo scrittore facesse emergere nella sua opera non corrispondesse al vero, anzi… Si vuol soltanto ribadire che quell’esito, che era una delle spie della crisi della società sovietica degli ultimi anni, segnava un evidente ritorno indietro, al passato, in cui l’individuo torna ad essere contrapposto al collettivo. Sarebbe troppo lungo da spiegare perché questo avvenne, ma certamente non era quanto si attendevano le madri e i padri della Russia rivoluzionaria.

Eppure, nonostante ciò, stando alle statistiche ufficiali, nell’Urss degli anni Settanta e Ottanta vivevano complessivamente un milione e mezzo di scienziati, mentre coloro che lavoravano nel campo scientifico, come la ricerca, erano quattro milioni e mezzo e rappresentavano quasi il 4 per cento dell’economia nazionale. Nell’Urss dei primi anni Settanta, su diecimila individui impegnati nell’economia nazionale, cento lavoravano nel settore scientifico. Negli Usa tale cifra ammontava, invece, a 71 e in Gran Bretagna a 49. Per ogni diecimila lavoratori impegnati nei settori manifatturiero ed edilizio vi erano 234 lavoratori scientifici; in rapporto, negli Usa ve ne erano 205 e in Gran Bretagna 116 [19].

Per concludere

Come dovrebbe apparire più chiaro, alla fine di questo breve excursus, la lotta per una scuola nuova è la lotta per il socialismo. Il socialismo stesso è una continua lotta. Non può essere diversamente. È stata sicuramente una utopia letale quella di credere che il socialismo fosse alcunché di concluso, definitivamente raggiunto, e irreversibile. È proprio perché è una lotta di “lunga durata”, per riprendere un’espressione cara a Mao Tse-tung, che essa non può considerarsi né conclusa, né irreversibile. Nella lotta ci sono momenti in cui si avanza e momenti in cui si arretra. L’aver creduto il contrario ha creato lo sbando collettivo nel passato, all’indomani della fine del blocco sovietico, avvenuto trent’anni fa.

Altra cosa che dovrebbe apparire più chiara è che l’alternativa di sistema si basa su impostazioni di fondo completamente e radicalmente diverse rispetto alla scuola nel mondo borghese e capitalistico. Non sono gli aspetti superficiali a denotare la diversità di un sistema educativo. Lo abbiamo visto: la critica al “sapere depositario” l’ha fatta il pedagogista radicale Paulo Freire e la cita pure l’Unione europea nei suoi documenti; l’alternanza scuola-lavoro non è un’invenzione borghese, anzi la società capitalistica si è fondata alle sue origini sulla separazione tra scuola e lavoro manuale. Dunque, non questo segna la diversità. Lo sottolineiamo perché altrimenti si corre il rischio di passare per i difensori del “vecchio”, e il vecchio era una scuola elitaria e, in modo diverso (perché diversamente funzionava la società capitalistica), sempre di classe. Anche la stessa scuola della Costituzione non può andare oltre la società borghese. Allora, un’alternativa di sistema è ciò che noi vediamo all’opera, in maniera certo non perfetta, né completa, ma esemplare a Cuba e, tra mille difficoltà, in Venezuela. È nei principi ispiratori e nelle prospettive la diversità radicale.

Infine, dovrebbe apparire chiaro che non ci può essere un’alternativa di sistema a questa scuola neoliberista se non si pone il problema del potere effettivo del mondo del lavoro di autogovernarsi politicamente. Senza questa possibilità, il mondo del lavoro sarà sempre subalterno al capitale. La lotta di studenti e lavoratori per un’alternativa di sistema non è una lotta separata, non è una lotta specifica per migliorare qualcosa di particolare (e il resto vada al diavolo), ma è una lotta per un modo diverso di stare al mondo, tra gli esseri umani e, possibilmente, con la natura. Per questo, credo, il socialismo del XX secolo e quello del XXI secolo hanno ancora qualcosa da dirci.


[1] T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014.

[2] Su questo punto si veda R. Fineschi, Violenza e strutture sociali nel capitalismo crepuscolare, in Violenza e politica. Dopo il Novecento, a cura di F. Tomasello, Il mulino, Bologna 2020. Benché non sia questo il luogo per una disamina concettuale su individualismo e atomismo, occorre ricordare che nel pensiero di Marx si trova una concezione dello sviluppo dell’individualità completamente diversa e anzi opposta a quella del pensiero liberale, perché non nega e anzi presuppone lo sviluppo del genere umano complessivo. Infatti nei suoi giovanili Manoscritti economico-filosofici del 1844, scriveva che “l’individuo è l’essere sociale”. Non erroneamente è stato detto che Marx è il filosofo dell’individualismo e non dell’uguaglianza.

[3] https://luisbonillamolina.wordpress.com/2020/05/16/il-blackout-pedagogico-globale/

[4] Cfr. Interview for “Woman’s Own” (“No Such Thing as Society”), 23 sep. 1987, https://www.margaretthatcher.org/document/106689

[5] Il testo fu pubblicato in inglese e francese contemporaneamente. Cfr. la traduzione italiana, Rapporto sulle strategie dell’educazione, a cura di E. Faure, Armando Editore, Roma 1973.

[6] G. Gozzer, Il Rapporto Faure sulla scuola nel mondo. L’educazione oggi e domani, in Scuola Ticinese, n. 12, 1972.

[7] Abbiamo trattato questi argomenti in modo più approfondito in Contropiano, atti del convegno “Formazione, Ricerca e Controriforme”, Bologna 30 aprile 2016, Anno 25, n.2 2016. Per una lettura on line si veda qui: http://www.dialetticaefilosofia.it/public/pdf/96allegra.pdf

[8] Se ne preoccupavano già Marx ed Engels. Il pensatore di Treviri, nella sua celeberrima Critica del programma di Gotha, ossia del programma del Partito Operaio Tedesco, scriveva: “Proibizione del lavoro dei fanciulli. Qui era assolutamente necessario dare i limiti d’età. La proibizione generale del lavoro dei fanciulli è incompatibile con l’esistenza della grande industria, ed è perciò un vano, pio desiderio. La sua realizzazione – quando fosse possibile – sarebbe reazionaria, perché se si regola severamente la durata del lavoro secondo le diverse età e si prendono altre misure precauzionali per la protezione dei fanciulli, il legame precoce tra il lavoro produttivo e la istruzione è uno dei più potenti mezzi di trasformazione della odierna società”. Nella Legge per un più stretto legame della scuola con la vita e per l’ulteriore sviluppo del sistema di educazione pubblica nell’URSS, con la quale si avviava la riforma scolastica, sotto Nikita Krusciov, il 24 dicembre 1958, era scritto: “Lo sviluppo armonioso dell’uomo è inconcepibile senza il lavoro fisico, gioioso e creativo, che fortifica l’organismo e rafforza le funzioni vitali. Lenin […] ci ha insegnato che la gioventù deve necessariamente unire lo studio al lavoro, alla lotta per la riorganizzazione dell’industria e dell’agricoltura, per la cultura e l’istruzione del popolo […] Il Soviet Supremo dell’URSS ritiene che l’avvicinamento della scuola alla vita creerà le condizioni necessarie ad una migliore educazione della generazione attuale destinata a vivere ed a lavorare nel regime comunista.” Cfr. L’URSS. Diritto, economia, sociologia, politica, cultura, a cura di M. Mouskhély, Il Saggiatore, Milano 1965, vol. 2, p. 1025 e 1043.

[9] W.T. Goode, Il bolscevismo all’opera, Edizioni Avanti, Milano 1920.

[10] Friedrich Schiller, poeta e filosofo tedesco, scriveva a proposito della divisione della lavoro: “Eternamente legato solo ad un piccolo frammento del tutto, lo stesso uomo si forma solo come un frammento e, sempre avendo nell’orecchio il rumore monotono della ruota che gira, non sviluppa mai l’armonia del suo essere e, anzi che esprimere nella sua natura l’umanità, diventa solo una copia della sua occupazione, della sua scienza”. Cfr. F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, a cura di Antimo Negri, Armando editore, Roma 1993, lettera VI, p. 127. Questo passo riecheggia nelle pagine del giovane Marx, in particolare dei Manoscritti economico-filosofici del 1844: “Soltanto attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana viene in parte perfezionata, in parte prodotta, la ricchezza della sensibilità soggettiva umana […]. L’educazione dei cinque sensi è un’opera dell’intera storia universale fino ad oggi. […] Così l’oggettivazione dell’essenza umana, tanto sotto l’aspetto teorico quanto sotto l’aspetto pratico, è necessaria sia per rendere umani i sensi dell’uomo, sia per creare la sensibilità umana corrispondente all’intera ricchezza dell’essenza umana e naturale” (pp. 195-196). La ricchezza dell’essenza umana è il frutto del complesso sviluppo delle attività umane. Che l’uomo possa possedere un ampio ventaglio di queste, senza cristallizzarsi in una specializzazione era un po’ il sogno di Marx quando scriveva: “appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico”. Cfr. K. Marx,-F. Engels, L’ideologia tedesca, (cap. su Feuerbach), Editori Riuniti, Roma 1975, p. 24.

[11] Cfr. Fidel Castro, La Educación en Revolución, Institute Cubano del Libro, La Habana, 1974. Sul sistema cubano, consulta l’unico testo disponibile in italiano, risalente ai prima anni settanta: L. Aguzzi, Educazione e società a Cuba, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1973.

[12] V. I. Lenin, I bolscevichi conserveranno il potere statale? (1917), Opere complete, vol. 26, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 99.

[13] Dopo la fase del socialismo di guerra (durante la guerra civile del 1917-1922), succedono la NEP ideata da Lenin (con la quale si rallentava il processo di instaurazione del socialismo, reintroducendo elementi di mercato) e, infine, dopo la sua di Lenin nel 1924, la pianificazione centralizzata di Stalin.

[14] Cfr. Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, cap. 5, p. 212, Rizzoli, Milano 2020.

[15] La posizione di ”dipendenza“ di un paese periferico rispetto a uno o più paesi sviluppati dipende dalla conformazione del suo sistema produttivo: i paesi esportatori di materie prime per le necessità del primo mondo hanno visto di fatto bloccato il loro sviluppo economico, ridotto a un solo prodotto (si parla di ”monocultura”, anche in senso lato, quando l’economia di un paese dipende dall’esportazione di un solo prodotto, per cui tutta l’economia viene orientata alla produzione di quel prodotto). È questa la forma dell’imperialismo economico che fa a meno del dominio politico-statuale e può concedere una indipendenza formale (sovranità) al paese fornitore. Era questa, ad esempio, la posizione di Cuba verso gli USA in quanto esportatore di zucchero, prima della rivoluzione del ’59. Per gli aspetti generali della dipendenza come forma di imperialismo e causa di sottosviluppo si vedano in generale i lavori di Samir Amin, André Gunder Frank e Hosea Jaffe.

[16] Cfr. Rosa blanca. Martí e Bolívar per l’alternativa socialista di una futura umanità, a cura di L. Vasapollo, Edizioni Efesto, Roma 2019.

[17] Desumendo la nozione di stato etico dalla filosofia di Hobbes e di Hegel, il pensiero liberale vede in esso uno strumento di coercizione dell’individuo. Lo Stato liberale, per contro, dovrebbe essere quello che non osa violare la sfera delle libertà individuali.

[18] L’espressione fu coniata dallo scrittore russo dissidente Aleksandr Zinov’ev, che scrisse un’opera omonima.

[19]https://it.rbth.com/societa/2013/09/03/il_sistema_scolastico_sovietico_e_quello_russo_a_confronto_26237