PER UNA NUOVA UNIVERSITA’ IN UNA NUOVA SOCIETA’ 18 NOVEMBRE MOBILITAZIONE NAZIONALE UNIVERSITARIA!

Fin dai primi giorni di riapertura dei nostri atenei ci siamo trovati di fronte ai problemi storici e strutturali dell’Università. Noi sappiamo però come l’Università sia il punto di caduta di tutta una serie di contraddizioni frutto delle dinamiche generali che stiamo vivendo: da una competizione internazionale sempre più instabile e feroce che sfocia nella guerra guerreggiata, una crisi economica che porta maggior carovita, sfruttamento e mancanza di sicurezze, e una crisi ambientale, che ora si vuole affrontare attraverso la cosiddetta “transizione energetica” che cerca inutilmente soluzioni all’interno dello stesso sistema di sviluppo capitalista che ci ha portati sull’orlo dell’infarto ecologico. L’Università si inserisce a pieno in queste condizioni perché è passata dall’avere una funzione sociale di emancipazione, ad essere l’ennesimo tassello di un sistema marcio dalle fondamenta. Questo lo vediamo con gli accordi (sempre maggiori) con le aziende private, le stesse che inquinano, fabbricano armi e bombe e sfruttano i lavoratori, lo vediamo con la sempre maggiore esclusione di giovani dal percorso formativo, dall’edilizia universitaria scadente, dalla mancanza di studentati, mense e servizi sufficienti e molto altro. Oltre ad aver assorbito al proprio interno queste dinamiche, ha assunto una funzione di laboratorio di tenuta ideologica nei confronti delle nuove generazioni, con il green washing, con la propaganda bellica portata con conferenze con esponenti NATO, ricerca con la Leonardo Spa, etc, ed in ultimo con il martellamento della “meritocrazia” elevata a valore supremo nascondendo le disuguaglianze sociali e materiali che stanno colpendo fasce sempre maggiori di popolazione. Quella che la nostra generazione si trova davanti è una vera e propria crisi di prospettive all’interno della quale è impossibile trovare alcuna forma di emancipazione se non il miraggio di quella individuale a discapito dei nostri stessi coetanei, una “soluzione” che ha dimostrato tutta la sua fallacia nei momenti più bui della pandemia in cui è emersa chiaramente la necessità di ripensare la società e con essa l’università a partire dalla messa al centro dell’interesse collettivo e non di quello privato.

Tutto questo in un contesto di spostamento a destra del quadro politico istituzionale, con un governo reazionario e conservatore chiamato a garantire la continuità dell’agenda Draghi e a gestire le forme di dissenso e conflitto sociale con un generale avanzamento sul piano delle misure di repressione, come recentemente confermato dal decreto 434bis (conosciuto come anti-rave).

Quest’anno abbiamo visto un’inedita attività tra i giovani universitari, a partire dalle proteste scoppiate in diverse città per le aule sovraffollate e la carenza di infrastrutture e servizi come a Roma, e alla sfiorata strage con il crollo dell’aula magna dell’Università di Cagliari. Anche in quel caso gli studenti hanno subito risposto mobilitandosi, così a Catania contro la riduzione degli appelli, a Bologna dove davanti all’ennesimo studente universitario suicida hanno rotto il silenzio che avvolge una generazione schiacciata psicologicamente da un’iper-competizione a tutti i livelli, oppure con le occupazioni simboliche di edifici e studentati a Bologna denunciando la mancanza di strutture pubbliche di fronte alle speculazioni private, fino ad arrivare agli studenti de La Sapienza di Roma che hanno alzato la testa contestando lo sdoganamento delle forze reazionarie anche dentro le università e che, manganellati dalla polizia con l’avvallo della Rettrice, non solo non hanno fatto un passo indietro ma hanno rilanciato occupando la facoltà di Scienze Politiche.

Di fronte a tutto questo è evidente la necessità di allargare lo sguardo oltre le mura delle nostre università e concepire la critica a questo modello universitario all’interno di una messa in discussione più generale di questo governo e dei paradigmi che stanno alla base della nostra società, guardando alla data di mobilitazione nazionale universitaria del 18 novembre come primo importante passaggio da costruire in un contesto più generale di mobilitazione verso lo sciopero generale del 2 dicembre e la manifestazione nazionale del giorno dopo a Roma.

ROMPIAMO IL LORO MODELLO PER COSTRUIRE UNA NUOVA UNIVERSITÀ PUBBLICA!

Decenni di riforme universitarie hanno piegato gli atenei alle necessità del tessuto produttivo europeo e territoriale eliminandone ogni funzione sociale. Sin dalla legge Ruperti emanata nel 1990, passando dal Bologna Process del 1999 e dalla riforma Gelmini del 2010, fino al PNNR dei nostri giorni, un unico progetto di ristrutturazione del comparto dell’università e della ricerca è stato portato avanti in modo coerente dai diversi governi susseguitisi negli anni che si racchiude nelle parole d’ordine di: aziendalizzazione, elitarizzazione e polarizzazione tra atenei di serie A e atenei di serie B.

In questa società, infatti, il sistema formativo è un processo di selezione e divisione: c’è chi ce la fa (considerati meritevoli, in realtà studenti dei settori strategici) e chi no. L’università è un po’ l’ultimo tassello di questa selezione: una laurea in un’università pubblica oggi senza ulteriori master, corsi privati, stage e vari altri, non ha quasi alcun peso all’entrata nel mondo del lavoro. Una laurea poi a che prezzo? Molti obbligati a trasferirsi, tasse molto alte, l’affitto, le bollette, dover lavorare per studiare, i libri e il costo del materiale didattico.

A questa funzione dell’Università corrisponde anche una determinata divisione dei finanziamenti, in relazione ai settori considerati strategici in termini di ricerca, accordi e accesso degli studenti da selezionare (come, ad esempio, le borse di studio specifiche per le materie STEM) lasciando, scientificamente, profonde lacune nelle voci di spesa come edilizia, diritto allo studio, servizi. Questa concentrazione segue necessariamente la differenza produttiva già esistente nel nostro paese e quindi accentua il divario Nord-Sud e Centro-Periferia.

In questo contesto emergono quindi poche università e centri di eccellenza: ne sono esempi il progetto Mind di Milano (negli spazi Expo con un finanziamento pubblico di almeno 335 milioni euro), come il Tecnopolo di Bologna (con almeno 200 milioni di euro di finanziamenti pubblici a cui aggiungere i 320 milioni dal PNNR) o come il Biotecnopolo di Siena (che si è aggiudicato 360 milioni di finanziamenti del PNNR). E non è frutto di un caso, quindi, che sia crollata una parte dell’Università di Cagliari mentre da poco si è inaugurato il nuovo distretto del Navile di Bologna con 29 nuove aule didattiche, 4 aule informatiche, 14 sale studio, oltre a laboratori didattici e di ricerca all’avanguardia.

La colpa sta infatti nella complessiva distruzione dell’intervento pubblico da parte dello Stato di tutela dell’interesse collettivo e in particolare delle classi popolari, in favore di finanziamenti pubblici per i privati, sacrificando il diritto allo studio per la speculazione privata. Lo possiamo vedere in termini di diritto all’abitare: a fronte di studentati pubblici insufficienti e con l’abolizione dell’equo canone, noi studenti siamo costretti a pagare cifre esorbitanti per delle stanze che, insieme alle tasse universitarie altissime, al costo dei materiali e l’insufficienza di borse di studio, ci costringe ad entrare nel lavoro, soprattutto nei settori che, con la scusa della flessibilità, soprattutto per gli studenti sono i più precari e sottopagati come la ristorazione. A questo si lega un oggettivo peggioramento delle condizioni di vita degli studenti e delle classi popolari in generale, attraverso l’aumento del carovita e dell’inflazione. Non è un caso che quest’anno il numero di immatricolazioni sia sceso del 3% e che siano 100’000 gli studenti fuorisede in meno dal 2018.

Per questo, per rompere con questo modello formativo, è necessario rompere con questa società, che mette al centro il profitto privato e non il ruolo di emancipazione del pubblico.

Il 18 novembre scenderemo in piazza perché vogliamo un’università che sia davvero emancipazione individuale e collettiva. Un’università che finanzi da Nord a Sud tutti gli atenei, che non faccia distinzioni tra materie STEM e materie umanistiche, che non privatizzi la ricerca ma la metta a disposizione di tutti, che non accentui le disuguaglianze ma le combatta, che non ci educhi allo sfruttamento ma che ci emancipi. Per un’università pubblica che sia al servizio del benessere collettivo e non della guerra e del profitto privato.

NON SAREMO MENTI PER LA VOSTRA GUERRA!

La competizione globale è passata negli ultimi anni da una sempre più feroce guerra commerciale, finanziaria e monetaria alla vera e propria guerra guerreggiata in Ucraina, alle porte dell’Europa, qualche mese fa.

A partire dai programmi quadro in ambito della formazione dell’Unione Europea, è evidente il ruolo strategico che gioca in questo scontro tra blocchi la ricerca tecnologica militare e bellica all’interno dei nostri atenei e dell’alta formazione, ricerca connessa a quelle filiere della guerra che in tempo di guerra vengono immediatamente convertite a tale uso.

Dagli obiettivi del Next Genereration Eu, all’European Defence Fund fino agli accordi di ricerca e committenza con i colossi dell’industria militare come Leonardo, come per quelli con l’agenzia europea Frontex e le relazioni con le università israeliane per sviluppare sistemi sempre più sofisticati di oppressione contro il popolo palestinese. Da ben prima della precipitazione bellica in Ucraina assistevamo a un incremento di progetti di ricerca soprattutto all’interno di quelli che sono classificati come atenei di Serie  A e in quei territori in cui è presente e rafforzato il settore bellico (dalla Sicilia delle basi NATO, a le città portuali di Bari e Genova, fino a Torino nuovo centro aerospaziale militare); progetti di ricerca spesso spacciati per ‘’civili’’ celandosi dietro il paravento del dual use.

Non è un caso il lungo elenco di rettori e i professori aventi cattedra che fanno parte del board di  Med-Or, una fondazione che nasce per iniziativa di Leonardo Spa capitanata dall’ex Ministro degli Interni Marco Minniti con l’obiettivo di rafforzare la ricerca e gli accordi tra atenei e aziende belliche.

Ma la guerra non arriva all’interno dei nostri luoghi di formazione solo attraverso i progetti di ricerca, è importante sottolineare la massiccia operazione ideologica di revisionismo storico e sdoganamento di un sentimento euro-atlantista all’interno delle nostre università. Dalla demonizzazione dei corsi sulla cultura Russa, se non direttamente alla sospensione come nel caso di quello su Dostoevskij alla Bicocca di Milano, fino all’individuazione di un nemico ad oriente con convegni su convegni ad hoc per travestire di scientificità storica la supposta superiorità culturale dell’Occidente , le nostre aule diventano luogo in cui rafforzare un sentimento europeista, atlantista e russofobo utile non solo a dare solide fondamenta all’interventismo di UE e NATO, ma a controllare quel fronte interno che in momenti di scontro e accelerazione diviene fondamentale.

E’ necessario opporsi a questa filiera della morte che passa anche attraverso i nostri luoghi di formazione: vogliamo la cessazione immediata di ogni accordo di ricerca militare e rivendichiamo un ruolo emancipatore del sapere fuori da ogni costruzione di ideologie di supremazia e oppressione dei popoli.

LA VOSTRA ECCELLENZA ESCLUDE E UCCIDE!

Questo modello universitario giustificato con la retorica dell’eccellenza, da una parte espelle ed esclude fette sempre maggiori di giovani dal mondo della formazione – riproducendo al suo interno le disuguaglianze del mondo che lo circonda e abdicando a qualsiasi funzione di ascensore sociale per chi proviene da settori della società meno abbienti – e dall’altra sottopone chi riesce ad accedervi a un sistema di iper-competizione insostenibile che produce ansia, stress e un disagio psicologico generalizzato.

Accedere in generale all’università diventa infatti impossibile per fasce sempre maggiori di studenti perché oltre alle condizioni di partenza e all’aumento del costo degli studi, pesa sempre di più anche la consapevolezza che quel pezzo di carta raggiunto a suon di sacrifici e lavoretti iper-sfruttati non garantisce più, se non a pochissimi, alcun futuro nel mercato del lavoro.

A questo, va aggiunto il ruolo di primo piano in termini di fabbricazione del consenso e di indottrinamento ideologico: nelle nostre università viene insegnato che un solo modello economico è possibile – pensiamo alla Bocconi, roccaforte del pensiero economico neoclassico, che ha prodotto la nostra classe dirigente europea ed europeista – e viene perpetrato un modello di individualismo e iper-competitività dove per avere successo devi essere il migliore e schiacciare tutti gli altri, un modello di cui abbiamo visto appunto le estreme conseguenze a Bologna qualche settimana fa, con l’ennesimo suicidio di uno studente universitario fuoricorso.

Un laboratorio in cui ti spacciano l’idea che il fallimento è una colpa individuale, dove impera la retorica dell’autoimprenditorialità – sostenuta materialmente con incubatori di start-up realizzati dagli stessi atenei – dove ti suggeriscono continuamente vie d’uscita individuali da una condizione di precarietà materiale ed esistenziale che in realtà riguarda tutta una generazione. Una generazione però, che non è né la “generazione Erasmus” con cui per anni è stata coperta ideologicamente l’emigrazione forzata giovanile verso il centro-nord europeo né la “generazione choosy” che tanto piace ai media nostrani, ma una vera e propria “working poor generation” che all’affacciarsi del mondo del lavoro vive inevitabilmente lo scarto tra le aspettative con cui è stata cresciuta e la realtà fatta di precarietà ed incertezza in cui è costretta a vivere. Un’operazione ideologica che nasconde una vera e propria crisi di prospettive permanente, prodotta da un sistema in crisi tanto materiale quanto valoriale, all’interno del quale non è possibile trovare alcuna forma di riscatto e di emancipazione.

DEMOCRAZIA E’ CONFLITTO, CONQUISTARE L’AGIBILITA’ POLITICA NEI NOSTRI ATENEI

L’università dovrebbe essere un luogo di formazione e sviluppo di una coscienza critica e offrire una prospettiva di emancipazione: al contrario, nei nostri luoghi di studio stiamo assistendo ad una progressiva chiusura degli spazi di partecipazione e di agibilità democratica e di espressione del dissenso. Gli organi decisionali hanno assunto una governance interna di stampo aziendalistico, e le rappresentanze studentesche, con la complicità delle organizzazioni di rappresentanza, sono utilizzate come strumento di pacificazione sociale in difesa dell’istituzione universitaria, oltre che trampolino di lancio per il carrierismo politico. Ciò, in un generale contesto di degradazione della politica, ha contribuito alla separazione della sfera politica dal tessuto sociale studentesco, già disgregato dall’individualismo promosso dall’ideologia dominante e dall’isolamento imposto dal Covid.

In questo quadro, le istituzioni universitarie si avvalgono anche di diversi strumenti di repressione:

  • Internamente limitando l’uso di aule e spazi degli atenei per dibattiti e approfondimenti di carattere politico, impedendo lo svolgimento di quelle iniziative politicamente scomode, come nel caso di incontri sulla Palestina, salvo poi spalancare le porte quando si tratta di ospitare convegni organizzati da organizzazioni neofasciste: casi che si sono verificati sia alla Sapienza, sia in altri atenei.
  • Con lo sdoganamento della polizia in università, come anni fa in seguito alla repressione della mobilitazione contro i tornelli a Bologna, che ha visto la celere dare manganellate agli studenti direttamente dentro le biblioteche. L’anno scorso polizia in antisommossa ha fatto uno sgombero coatto nel dipartimento occupato alla Statale di Milano e, nelle scorse settimane, ha caricato gli studenti de La Sapienza di Roma.

Questo ci dimostra come già da prima che si formasse il governo reazionario della Meloni, il contenimento delle forme di dissenso era al centro delle agende politiche, come anche il governo Draghi che non si era fatto scrupoli a reprimere con la forza gli scioperi dei lavoratori, le occupazioni del movimento studentesco contro l’alternanza scuola-lavoro, e tutte le mobilitazioni dei giovani dentro e fuori l’università.

Dopo anni di immobilismo politico e sociale giovanile e in particolare universitario, l’inedito protagonismo giovanile dell’ultimo anno ha invece rotto il tetto di cristallo e dimostrato con coraggio e determinazione che la vera democrazia esiste quando c’è conflitto e contestazione. Alla luce di tutto ciò, noi sosteniamo la necessità di un ripensamento radicale degli strumenti di rappresentanza, sorretto da un processo di ricostruzione del tessuto sociale studentesco e universitario. Nel deserto di individualismo, saperi parcellizzati e partecipazione politica assente o limitata alla delega e al voto, occorre riprendere i valori dell’antifascismo, far fiorire il germe della politica studentesca, della partecipazione attiva, della critica collettiva.

Per tutti questi motivi scendiamo in piazza il 18 novembre verso lo sciopero generale del 2 dicembre e la manifestazione nazionale del 3 a Roma. Per rompere con questo stato di cose presenti, per costruire una nuova università in una nuova società! È TEMPO DI CAMBIARE ROTTA!