DIRITTO ALLO STUDIO

Lo scopo di questo documento, diviso in sezioni, è quello di andare ad approfondire come funzionano il diritto allo studio e i sistemi di welfare studentesco (o come dovrebbero) all’interno dei nostri atenei per comprendere politicamente le ricadute, sulle condizioni materiali degli studenti, di quei processi di èlitarizzazione e aziendalizzazione che vogliamo ribaltare, per una nuova università che svolga veramente una funzione pubblica, emancipatrice e per tutti.

Dobbiamo liberarci dalla gabbia creata dal peggioramento delle nostre condizioni materiali e dalla convinzione che questa gabbia rappresenti il migliore dei mondi possibili.

Da quest’analisi, prodotta e discussa nell’assemblea nazionale universitaria del 4-5 marzo 2023, emergono le rivendicazioni inserite nella piattaforma di lotta. Il documento, dunque, è da intendere in relazione alla piattaforma, agli altri documenti prodotti dall’assemblea nazionale e al documento sul reddito studentesco.

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Indice:

  • Tasse e borse di studio
  • Diritto all’abitare: affitti e studentati
  • Studenti lavoratori
  • Altri sistemi di welfare
  • Autonomia d’ateneo

TASSE E BORSE DI STUDIO

L’accesso all’alta formazione ”pubblica” in Italia (Università, Politecnici e Istituti Afam), è vincolato da un sistema di tassazione che va a coprire una parte del bilancio (parte che non può superare il 20% dei fondi statali) di ogni Ateneo.

Di per sé quindi, lo stesso ammontare medio della tassazione (solitamente tre rate annuali) subisce una variazione da polo a polo, legandosi a doppio filo con la quantità di fondi pubblici e privati a disposizione di ogni ateneo, con i costi da coprire e con la grandezza del polo: in media gli atenei del Nord Italia risultano più cari rispetto a quelli meridionali. Per l’a.a. 2021/2022 le tasse applicate nelle università settentrionali superano del +27,4% quelle degli atenei del Sud e del +18,2% quelle degli atenei del Centro Italia, andando già così di fatto a creare centri di formazione più accessibili, e altri più di élite.

Oltre a variare da ateneo ad ateneo, inoltre, le tasse universitarie vengono calcolate in base ai parametri dell’ISEE e dell’ISPE, rispettivamente (a livello teorico) indice di reddito e indice di patrimonio del nucleo familiare dello studente, andando a costituire delle fasce di tassazione: questi due valori, ma soprattutto l’indice ISPE, raramente riescono a rendere una fotografia reale dello stato sociale dello studente, andando di fatto ad alzare in media il valore patrimoniale di una famiglia rispetto a quella che è la situazione effettiva.

Inoltre, in molti casi queste stesse fasce di reddito impediscono allo studente di accedere a determinate agevolazioni per quanto riguarda la somma da pagare per le tasse.

L’alzamento della soglia della No Tax Area a 20.000 (soglia sempre basata su questi parametri al di sotto della quale si è esentati dal pagamento della retta universitaria) non è assolutamente in grado di garantire una copertura sufficiente, senza contare i criteri di merito necessari al mantenimento.

Ma non solo: per gli studenti fuoricorso, ovvero coloro che sforano il tempo massimo previsto per una laurea triennale e magistrale, vediamo la perdita dei ‘’privilegi’’ di borse di studio e no tax area, oltre a more altissime su ogni rata: insomma, devi eccellere e meritarti l’università per potertela permettere.

Inoltre, abbiamo più volte visto e denunciato in questi anni i pericolosi ondeggiamenti dell’ammontare delle tasse universitarie legate al contesto generale: nonostante infatti l’afflusso di finanziamenti del PNRR all’università, con l’aumentare nel corso del 2022 dell’inflazione e del carovita, già all’Università di Firenze si approva un aumento del 9% delle tasse per far fronte al caro-energia.

Oltre a presentare quindi una forma primaria di sbarramento all’accesso dell’università, le tasse vanno a costituire una delle spese più ingenti e che più contribuiscono, con l’aggravarsi della crisi economica, a quel processo di progressiva élitarizzazione dell’università.

Misure che teoricamente dovrebbero facilitare l’accesso all’alta formazione sono le borse di studio, messe in campo a livello regionale e in rari casi dagli atenei stessi (le famose borse di merito). Ma, sempre più spesso queste, anziché garantire l’accesso, diventano un veicolo di esclusione.

Questi criteri portano all’esclusione di moltissimi richiedenti, o la perdita della borsa a metà del percorso universitario (con tanto di rimborso!), o addirittura la possibilità che la propria regione non riesca a soddisfare tutte le richieste dei richiedenti.

Inoltre, nel prossimo biennio, con i fondi del PNRR che stanno per arrivare, assistiamo a un finanziamento delle borse di studio di 500 milioni, ma questo ancora non basta, in quanto la domanda, in base all’aumento del carovita e dell’aggravarsi della crisi sociale, è esponenzialmente cresciuta, tanto che nemmeno i fondi riusciranno a coprire il quantitativo di studenti richiedenti.

Con l’arrivo dei fondi del PNRR assistiamo anche a un aumento del 20% degli importi delle borse di studio per le studentesse delle lauree STEM (percorsi di studio sempre più fondamentali per gli obiettivi europei): questo non solo va ad incentivare e a premiare determinati percorsi di studio creando di fatto lauree di serie A e di serie B, ma va a promuovere un’idea di emancipazione del tutto individuale e carrieristica.

Oltre a questo, l’importo non è stato aumentato in base al carovita sempre più crescente: con le bollette, gli affitti, etc che salgono di giorno in giorno, anche studiare sta diventando insostenibile, e gli importi delle borse non sono sufficienti a coprire le spese in vertiginoso aumento.

Negli ultimi mesi, grazie anche alla centralità che gli sta concedendo il governo Meloni, assistiamo al rilancio di quello che è il ‘’prestito d’onore’’: un vero e proprio prestito con tanto di tassi d’interesse, che “consentirebbe” agli studenti di studiare in facoltà private o pubbliche con rette più alte, concesso agli studenti più meritevoli fin dal percorso scolastico, finanziato nella maggior parte dei casi da banche o enti privati.

Un ulteriore attacco al diritto allo studio pubblico, che basandosi sul modello americano, concede alle banche e ai privati di inserirsi ulteriormente nella vita universitaria e nelle sue dinamiche, alimenta la logica dell’eccellenza che garantisce il diritto di studiare solo ai più “degni e inizia a far gravare sulle spalle degli studenti un debito in piena regola.

Non vogliamo un’università che, indirizzata a quelli che sono gli obiettivi europei e le necessità del mercato, si pieghi ai processi di élitarizzazione, andando da una parte ad escludere chi non se la può permettere, dall’altro a premiare poche eccellenze.

Per questo non scenderemo a nessun compromesso: per scardinare meritocrazia ed elitarismo, per arrivare ad una vera funzione emancipatrice, è necessario lottare per un modello universitario gratuito realmente accessibile a tutti, nessuno escluso.

DIRITTO ALL’ABITARE

Studentati

Nell’ultimo anno accademico abbiamo assistito ad un calo del 3% di iscrizioni universitarie. Tra gli studenti maggiormente esclusi, troviamo i fuori sede, calati di 100.000 rispetto al 2018, per i quali tra la enorme mancanza di posti in alloggi universitari, affitti proibitivi, tasse universitarie e spese per i trasporti i costi per studiare diventano insostenibili. Ad aggiungersi a ciò, la galoppante inflazione e l’aumento del costo del gas che sta colpendo in maniera esponenziale i nostri portafogli. Un quadro che ben fa comprendere come in Italia il 70% di studenti viva con i propri genitori, a fronte di una media europea del 36%.

A monte del problema, vi è una vastissima mancanza di studentati pubblici, che dovrebbero invece essere una misura minima per garantire a tutti gli universitari di studiare fuori dalla propria città. Secondo il censimento CNSU del 2022 infatti, su scala nazionale vi sono soltanto solamente 36.478 alloggi universitari, comportando una mancanza di oltre 727.000 posti letto contando soltanto gli studenti residenti fuori provincia (a cui vanno quindi aggiunti tutti coloro che fanno da pendolare, chi non ha scelto quell’università per l’impossibilità di sostenere i costi dell’affitto…). La maggior parte degli enti regionali incaricati alla gestione di studentati e borse di studio, provvedono nel caso della mancanza di posto nello studentato ad una monetizzazione, per alleggerire la spesa dell’affitto che lo studente andrà a pagare ad un privato e il costo della vita. Tale borsa di studio nella gran parte dei casi risulta però essere insufficiente addirittura a pagare l’affitto, oltre al fatto che per accedervi bisogna presentare il contratto entro una certa data, pena la perdita dell’intera borsa di studio.

Cercando di ovviare a questa mancanza, il Ministero dell’Università e Ricerca (MUR) ha pubblicato un bando da 467 milioni di euro per la realizzazione di strutture residenziali universitarie, risorse provenienti da fondi nazionali e dai 960 milioni del PNRR, destinati alla costruzione di alloggi universitari con l’obiettivo di portare il numero a 100.000 entro il 2026.

A tale fondi si accede previo bando, a seguito di valutazioni che tengono di conto il tempo di realizzazione del progetto, l’utilizzazione di minor risorse… A causa della gestione regionale dei servizi di studentati, risulta evidente che riusciranno ad accedere a questi fondi non tutti quei territori maggiormente bisognosi ma economicamente meno abbienti, ma coloro i quali riescano a presentare un progetto efficiente in poco tempo, e quindi tutti quei territori economicamente più forti o i quali hanno al loro interno un polo di eccellenza che possa stanziare maggiori finanziamenti. Gli alloggi costruiti con tale bando, si legge sul sito del MUR, sono destinati prioritariamente a “coloro capaci e meritevoli anche se privi di mezzi idonei al conseguimento della borsa di studio e dei prestiti d’onore”. Tuttavia, gli individui che vengono maggiormente considerati meritevoli dal sistema scolastico italiano sono persone che partono da una base di privilegi familiari ed economici non trascurabili, che hanno avuto migliori opportunità di istruzione. Da ciò si evince un’ingiusta stortura del sistema: coloro i quali maggiormente necessitano di borse di studio e sostegni economici sono gli stessi che non riescono a rendersi sufficientemente “meritevoli” da poter ottenere effettivamente questi aiuti. Oltre al fatto, che per il decreto 937 del 2016, il 20% di posti negli alloggi universitari devono essere destinati obbligatoriamente a studenti in stato di necessità.

Con tutti i parametri e limitazioni per accedere al bando, molti enti pubblici non stanno riuscendo ad accedere ai fondi, così 600 dei 960 milioni di euro del PNRR destinati agli alloggi universitari sono stati riservati esclusivamente ai privati, in modo da raggiungere più velocemente l’obiettivo entro il 2026. Un finanziamento che dimostra l’appoggio da parte dell’Unione Europea verso le aziende private, mostrando di non interessarsi, come tanto paventa, dei reali bisogni degli studenti. Sappiamo benissimo infatti che se gestiti da privati questi andranno a specularci facendo leva sulla situazione di emergenza abitativa, trasformando gli studentati in residenze di lusso, con prezzi accessibili soltanto agli studenti di fasce economiche più alte, spesso internazionali, non andando a coprire realmente il vuoto di posti letto. Camplus, The social Hub, Beyoo, The Student hotel: solo alcuni esempi di tutti gli studentati di lusso che mettono a disposizione residenze a costi elevati (al Camplus di Bologna, per esempio, la retta piena per una stanza singola è di 1000 euro al mese). Questi edifici spesso sono collocati in quartieri popolari, con l’ulteriore effetto nefasto di gentrificazione di queste zone. Con questi attori, ma anche edifici privati non facenti parte di studentati di lusso, come il Collegio Renato Enaudi a Torino o Dovevivo residenze a Roma, molte università stipulano delle convenzioni per ovviare alla mancanza di studentati offerti dagli enti regionali, offrendo borse perlopiù di merito, e andando perciò ancora una volta a devolvere soldi pubblici, addirittura dell’università, ad enti privati.

Affitti privati

A fronte della immane mancanza di alloggi universitari, la maggior parte di studenti per poter studiare fuori dalla propria città deve imbattersi nel selvaggio ed escludente mercato degli affitti privati.

Tra un mercato sempre più saturo per quanto riguarda l’offerta e la scusa dell’inflazione, quest’anno si è registrato un aumento nazionale medio del 3,5% sul costo degli affitti, con picchi fino al 10/11% in città come Milano, Bologna, Torino e Firenze. Tali centri, infatti, nonostante i bilanci in attivo sia del comune che delle università di decine di milioni di euro, lasciano la gestione degli alloggi in mano alla speculazione privata. A Milano, una singola ha un costo medio di 600 euro, a Bologna di 450/500.

Una situazione permessa a seguito di anni in cui la legge 392/78, anche detta legge Equo Canone, è stata sempre più spogliata di ogni sua applicazione. Per Equo Canone si intendeva un meccanismo per la determinazione dei canoni degli immobili ad uso abitativo, imponendo un valore massimo per l’affitto della casa tenendo in considerazione parametri come la città in cui la casa si trovava, la sua dimensione, la zona in cui era collocata… Tale legge venne aspramente criticata per la limitazione del mercato privato, e così negli anni ha subito modifiche fino all’abrogazione nel 1998 della legge 431, che prevede la divisione tra contratti a canone libero, in cui si dà totale autonomia nella scelta del prezzo dell’affitto al proprietario, e a canone agevolato, in cui viene stabilito un tetto massimo per il prezzo della casa con concessione al proprietario di uno sgravo fiscale. Succede però che oltre al fatto che i prezzi definiti dal comune spesso sono concorrenti o superiori a quelli sul mercato, e quindi comunque non convenienti per lo studente, gli sgravi sono talmente irrisori da non essere convenienti nemmeno per il locatore, che va quindi a prediligere un contratto a canone libero.

STUDENTI LAVORATORI E BORSE DI COLLABORAZIONE

Prodotto di una università sempre più costosa è la figura dello studente part-time: colui che al percorso universitario affianca lo svolgimento regolare di una qualsiasi attività lavorativa che comporti un reddito di almeno 2000 euro annui.

(Molti atenei effettuano ulteriori differenziazioni, come alla Sapienza di Roma, tra studente-lavoratore, lavoratore-studente, studente part-time).

Una zona grigia, quella degli studenti che necessitano di un lavoro per sostenersi negli studi, sempre più in crescita e sempre con meno tutele. La mancanza di uno statuto centralizzato relega all’autonomia regionale questioni di diritto allo studio, l’università si serve di strumenti come: esami dilazionati nel tempo (ma con un piano di studi e di cfu blindato), e un piccolo sconto sulle tasse (anche questo al fronte di una dilazione temporale). Ma anche i criteri per accedere a questi strumenti sono per la maggior parte delle volte lontani dalla realtà, infatti spesso viene richiesto il contratto di lavoro dello studente, per dimostrarne la veridicità, ma questa richiesta esclude la maggior parte dei lavori precari in grigio o in nero, oltre che i soliti criteri di merito.

All’interno di questo contesto è mutata anche la natura degli studenti più “specializzati”, ad esempio chi possiede un dottorato di ricerca o una specializzazione medica, nel giugno del 2022, attraverso un decreto convertito in legge (legge PNRR 2), gli assegni di ricerca vengono convertiti in “contratti di ricerca”, ossia dei veri e propri contratti di lavoro con retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva che rendono chi la stipula un lavoratore a 360 gradi. Cambiamento mostratosi necessario dalle esigenze del mercato del lavoro, soprattutto nell’ambito delle nuove tecnologie e, come possiamo vedere oggi, nel mercato dell’industria bellica.

Dalla crisi del 2020 gli studenti-lavoratori nella fascia 15-34 è cresciuto, soprattutto nella fascia 20-29 ossia universitari. Sul totale dei giovani occupati quelli impegnati in entrambe le attività sono stati il 5,76%. Era dal periodo precedente alla crisi finanziaria del 2008-2009 che non si arrivava a tali livelli. La crisi economica scoppiata con il covid-19 ha ulteriormente peggiorato le circostanze: sempre più studenti sono costretti a lavorare, anche a causa di difficoltà economiche insorte nel proprio nucleo familiare, e i pochi lavori che si riescono a trovare stanno diventando sempre più precari e sottopagati.

Tuttavia, l’università mette a disposizione, almeno in teoria, uno strumento che permette di ridimensionare il numero di studenti part-time costretti a lavorare in condizioni disastrose, internalizzando, ovvero le “borse di collaborazione”. Queste offrono l’opportunità a chi le richiede di rendersi utile in semplici mansioni da svolgere all’interno dell’università. Le borse di collaborazione sono dei veri e propri accordi fra università e studenti, questi ultimi si impegnano a offrire un servizio nell’università in cambio di un sostegno economico, il quale andrà a contribuire parzialmente alle spese universitarie. Non dobbiamo però scambiarlo come un contratto di lavoro in quanto lo studente non “lavora” propriamente all’università, non paga i contributi, non è un impiegato. In genere il monte ore è di 150 per un totale di 1050 euro. Il problema di questo tipo di borse di collaborazione, oltre a non essere sufficienti e poco finanziate dagli atenei, è il requisito di “merito” incrociando media ed esami sostenuti, mentre il reddito entra in gioco solo a parità di merito.

Anche il criterio secondo cui le borse vengono distribuite tra le diverse facoltà è fallace: oltre che arbitrario, solitamente si basa solo sul numero di immatricolazioni, non tenendo conto che in alcune facoltà il numero di studenti-lavoratori, e dunque la necessità di borse, è decisamente più consistente che in altre.

Secondo una ricerca svolta nel 2018, le borse di collaborazione hanno rimpiazzato circa il 25% del personale universitario negli ultimi dieci anni. Si tratta di un aumento significativo rispetto al 5% dei decenni precedenti, andando quindi ad utilizzare gli stessi studenti come ”tappabuchi” per quanto riguarda le carenze di personale.

Oltre a ciò, esistono pochissimi strumenti e regolamentazioni per quanto riguarda le borse di collaborazione: in molti atenei si risparmia sulla paga oraria arrivando ad importi minori insufficienti.

ALTRI SISTEMI DI WELFARE

Far studiare un figlio all’università diventa sempre più costoso, e le spese da sostenere per molti sono ormai proibitive.

Oltre ai costi a cui far fronte costituite dalle tasse e dal ricercare un alloggio, gli studenti universitari si ritrovano a dover affrontare una serie di altre spese, dai trasporti ai materiali didattici, sempre più in crescita e che godono praticamente di alcuna tutela pubblica.

Vediamo in prima battuta come un servizio come quello dei trasporti (locali e regionali) necessario per moltissimi studenti pendolari o confinati nelle periferie e provincie a causa dei prezzi proibitivi della metropoli, stia subendo un aumento vertiginoso che ha interessato gran parte dell’Italia.

A Milano il costo dei del biglietto ordinario Atm è passato da 2 a 2,20 euro (aumento del 10%), con aumenti dei carnet e del giornaliero che si avvicinano al 10%.

Questi aumenti sono solo gli ultimi di una lunga serie per i trasporti milanesi che va avanti da inizio 2011, quando un biglietto costava solamente 1€.

A Roma invece è previsto un aumento dei prezzi del biglietto ATAC e degli abbonamenti da luglio 2023 che oscilla tra il 30% e il 40%.

Aumenti simili hanno colpito anche altre città come Napoli, Foggia, Parma, Ferrara…

Gli aumenti del trasporto pubblico colpiscono anche i treni, con significative differenze regionali: in Sicilia ci sarà un aumento del 10%, in Liguria del 6%, in Puglia dell’8%.

Tutti questi aumenti peseranno soprattutto sui giovani: infatti in Italia si stima che il 33,5% degli studenti raggiunga l’università coi mezzi pubblici, il 27,5 % col treno, e il 18,8% in automobile, mezzo destinato a pochi e che subisce comunque l’impennata dei prezzi causata dal caro energia.

L’unica misura tampone introdotta per far fronte a questo aumento dei prezzi in relazione alla crisi è un misero bonus trasporti di 60 euro al mese, totalmente insufficiente e ad accesso blindato.

Ma l’aumento generale dei costi colpisce anche le mense, quello stesso servizio pubblico messo a disposizione della regione e dagli enti regionali per il diritto allo studio per fornire un servizio di ristorazione agli studenti.

A Torino, per esempio, Edisu e Regione impone un aumento generale che si attesta sul 40% (un primo passa da 1,80 euro a 2,50 per gli studenti nella fascia di reddito più bassa, da 2,40 a 3,50 per la fascia superiore ecc).

Spesso, a causa delle mancanze degli enti pubblici per il diritto allo studio, molti atenei ricorrono all’entrata dei privati della ristorazione all’interno degli spazi universitari: bar convenzionati, e spesso all’interno delle cittadelle universitarie, di veri e propri ristoranti o catene di fast food.

Questi privati vanno così ad invadere spazi teoricamente di noi studenti, tramite affitto di locali, partnership pubblico/privato, o vere e proprie concessioni, per la trasformazione di interi poli in veri e propri centri commerciali, spesso oltre che privati, dai prezzi inarrivabili.

Ad aumentare è anche il costo del materiale universitario: i libri ogni anno pesano sulle famiglie per una cifra che oscilla tra i 300 e i 500 euro.

Nell’ultimo anno, nonostante l’esplodere della crisi, l’aumento del costo del materiale didattico si attesta tra il 2 e il 3%, totalmente a carico dello studente senza alcun tipo di alleggerimento del carico economico.

In questa categoria si nota l’assenza totale di politiche di welfare, se non le biblioteche disposte dagli atenei, insufficienti e con pochi testi a disposizione, che in alcuni poli hanno subito una riduzione dell’uso a causa del Covid.

Oltre a ciò, per colpa del copyright, che limita al massimo la riproducibilità gratuita e la diffusione del materiale didattico, e dell’abuso che qualche professore fa per tornaconto e profitto personale nei confronti delle proprie pubblicazioni, gli studenti si ritrovano obbligati a spendere centinaia di euro per un singolo esame, tra testi introvabili pubblicamente ed a uso limitato.

Inoltre, assistiamo da anni a una mancanza di quelle che dovrebbero essere le copisterie convenzionate, presenti nei nostri atenei, che dovrebbero garantire a prezzi calmierati e convenzionati la possibilità di accedere a dispense e materiale didattico: insufficienti per numero e materiale a disposizione tranne qualche caso isolato, costituiscono solamente un cerotto al problema.

Infatti, il costo del materiale per affrontare un percorso di studi va inoltre ad incentivare un vero e proprio mercato nero parallelo: compravendita di appunti, fotocopie e libri di testo, incentivati da quel clima di competizione e individualismo ben presente nelle nostre università, tra chi si ritrova a comprare appunti di terza mano per risparmiare qualche decina di euro e chi invece cerca di lucrarci sopra in una vera e propria ”guerra tra ultimi”.

AUTONOMIA D’ATENEO

 Uno degli ostacoli che s’incontra nel tentativo di risalire alle radici delle mancanze del sistema universitario riguarda la difficoltà di attribuirne chiaramente la responsabilità a questo o quel decisore, l’opacità rispetto agli interessi che direzionano la gestione degli atenei e ai finanziamenti che la permettono.

Anche laddove la gestione sia affidata direttamente agli atenei, come nel caso dei sistemi di welfare studentesco o della tassazione, i vincoli cui questi sono sottoposti, in termini di criteri per l’assegnazione dei fondi e obblighi di ‘sostenibilità’ finanziaria, rimandano immediatamente ad altri responsabili, sempre più irraggiungibili e incorporei, influendo negativamente sulla possibilità di individuare un obiettivo concreto e di mobilitarsi.

Nel generare e consolidare questo stato di cose ha svolto un ruolo centrale l’autonomia universitaria, che va inquadrata in un processo più ampio, comprendente sia la spinta verso una crescente gestione a livello regionale e locale del pubblico e il progressivo depauperamento di quest’ultimo a vantaggio dei privati (col forte impulso in questa direzione dato dalla riforma del Titolo V del 2001, nonché attraverso i ripetuti tentativi di avviare percorsi di autonomia differenziata di cui questa sanciva la possibilità)

sia la rifunzionalizzazione dei sistemi d’istruzione e formazione alle esigenze europee e del mercato. 

Con la legge 168/89, che sanciva l’autonomia “finanziaria e contabile” degli atenei, cominciava a concretizzarsi l’idea d’un sistema universitario che dovesse necessariamente essere funzionale agli interessi economici nazionali e internazionali.

Gli interventi legislativi degli anni successivi consolidarono questo modello, favorendo la competizione tra atenei per i finanziamenti privati, mentre quelli pubblici venivano progressivamente ridotti. Nella stessa ottica, con la 240/2010 si è proceduto, oltre che a modificare la governance universitaria, aumentando i poteri dei rettori e del CDA in quanto veicoli di interessi esterni, a introdurre criteri premiali per la distribuzione dei finanziamenti pubblici. In seguito, la ripartizione delle risorse verrà fatta dipendere, in quota sempre maggiore, dal grado di conseguimento, da parte degli atenei, di obiettivi e standard forniti e valutati dal ministero e dagli organi disposti allo scopo.

Per quanto concerne i termini della distribuzione dei finanziamenti, erogati dal FIS (Fondo Integrativo Statale), sino al 2017 il solco dell’iniquità era sempre più marcato dal criterio della “spesa storica”, a causa del quale, in parole povere, le regioni regolari nella spesa, che, spesso, erano le regioni più ricche, ricevevano sempre più fondi, lasciando il percorso opposto alle regioni povere. Inutile dire quanto questo modus operandi abbia compromesso ancor di più le differenze tra Nord e Sud, nell’ambito della questione meridionale.

Ad oggi è prevista, come riportato dallo stesso rapporto del Miur del 2022, “una quota premiale, dal 15% al 25% del FIS, destinata proporzionalmente alle regioni che superano con le risorse proprie il minimo del 40% del finanziamento

complessivo”, con la quale il problema non è stato comunque minimamente risolto, come ripetuto nello stesso rapporto.

Più avanti si legge “lo stanziamento è ancora insufficiente a sopperire al fabbisogno necessario a erogare i benefici del DSU a tutti gli studenti idonei”. È dunque lo stesso sistema che analizza sé stesso e si ritiene ipocritamente insufficiente.

Se a questo si aggiungono i dati rispetto alla differenza nelle iscrizioni negli ultimi 5 anni fra Nord, Centro e Sud, allora il problema sistemico della sproporzione dei finanziamenti nelle diverse aeree della penisola italiana diventa assolutamente innegabile:

Nell’Anno accademico 2015/2016 il numero totale di iscritti è stato di 1.687.581.

Di questi il 42,5% si concentrava al nord, il 26% al centro, il 22,9% al sud ed il 9% nelle isole. Nell’Anno accademico 2020/2021 il numero totale di iscritti ammontava invece a 1.771.495, Il nord ne ospitava il 45%, al centro studiava il 23,8% degli studenti, al sud il 22,8%, le isole registravano l’8,2% del totale.

In tale circostanza a giocare un ruolo fondamentale è l’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione dell’università e ricerca), questo strumento d’élitarizzazione criminale del sistema pubblico dell’istruzione, il quale stabilisce i criteri di valutazione dell’università sulla base dei quali vengono distribuiti i fondi. A tali criteri rispondo i rapporti tra gli atenei e le aziende del territorio e l’ottenimento di un alto numero di laureati. Se si considera, accanto al dato della maldistribuzione sia dei finanziamenti che degli scritti, il dato degli studenti Neet, in costante crescita da 10 anni a questa parte, si può tranquillamente affermare che l’università sia sempre più progressivamente lanciata verso l’aziendalizzazione.

Tale condizione porta alla ricerca costante di un prestigio che si tramuta, da un lato, nell’esclusione di chi non può permettersi un certo ritmo ad un certo costo e, dall’altro, nell’eliminazione della funzione emancipatoria che dovrebbe essere lo scopo principe dell’università, portando il sistema universitario ad una polarizzazione sempre più evidente in poli di Serie A e poli di Serie B, e, nella sua complessità, in una spinta degli studenti verso la “corsa alla laurea”, che, per l’università di turno, troppo spesso diventa una “corsa al finanziamento”.

Lo stesso paradigma applicato alla ricerca esaspera la competizione tra dipartimenti dello stesso e di diversi atenei: quelli che producono studi che possano essere competitivi sul mercato continuano ad avanzare, a discapito di quelli meno ‘efficienti’, ovvero meno profittevoli, che continuano ad essere penalizzati; in entrambi i casi, si rafforza la subalternità della ricerca agli interessi economici, con i dipartimenti ‘strategici’ sempre più piegati alle esigenze industriali e di mercato e gli altri costretti a rendersi maggiormente appetibili agli occhi dei privati, o a soccombere in quanto ‘inutili’.

L’obbligo di rispettare i criteri di ‘sostenibilità’ porta peraltro alla messa in atto di dinamiche aziendalistiche, più o meno insensate dal punto di vista del diritto allo studio, come le alleanze strategiche tra atenei di serie b per controbilanciare lo strapotere dei ‘poli d’eccellenza’ locali, o l’apertura di nuovi corsi al solo fine di risollevare la quota delle matricole, pur in assenza delle strutture adeguate.

Gli ultimi provvedimenti in ambito di università confermano questo corso, PNRR compreso, con la sua insistenza sulla compenetrazione di pubblico e privato, tra ‘ricerca e impresa’: l’intervento previsto specificamente “per gli studenti”, già scarso (2 mld), riguarda per metà il “sostegno al privato sociale”. Anche in quel caso l’assegnazione dei fondi  ha favorito gli atenei ‘di punta’, andando ad approfondire anziché sanare le disuguaglianze esistenti , come d’altronde contribuiranno a fare le nuove disposizioni previste dalla Legge di Bilancio 2023, che sancisce, oltre all’aumento dei finanziamenti pubblici agli atenei privati, “penalizzazioni economiche commisurate allo scostamento registrato” per le università che non rispettino “il fabbisogno finanziario programmato”(comma 564), in perfetta continuità con la linea aziendalistica e punitiva, nel segno della distribuzione premiale dei fondi e dell’autonomia universitaria, che ha caratterizzato le politiche universitarie degli ultimi decenni.