DALLA COP 28 AL G7: CAMBIARE VERTICE AFFINCHÉ NULLA CAMBI

Il cambiamento climatico è un dato imposto dalla realtà, ed è palese la necessità di affrontarlo pena la sopravvivenza della specie umana sulla Terra, quanto è palese che sia necessario adottare una strategia di carattere mondiale perché è un problema che interessa tutti.

Questo è stato chiaro fin dal 95, quando la prima Conferenza delle Parti (Conference of Parties – COP) tra i Paesi aderenti alla Convenzione ONU sul cambiamento climatico si è riunita, a seguito dei primi allarmi della comunità scientifica internazionale. Allarmi arrivati, a onor del vero, di molto in ritardo rispetto all’evidenza che il livello di sviluppo economico occidentale, sostenuto dall’utilizzo di carbone e petrolio, sarebbe presto diventato insostenibile.

Ricordiamo infatti che i primi studi risalgono agli anni ‘70 ed erano proprio ad opera delle maggiori compagnie petrolifere attive all’epoca, che si riunivano nell’American Petroleum Institute, citando già il fatto che gli effetti dell’inquinamento sarebbero diventati percepibili a tutti nei primi anni 2000, avrebbero avuto gravi conseguenze entro il 2030 e portato alla catastrofe globale dopo il 2060. Di questo tipo è ad esempio il report stilato dalla compagnia Exxon nell’82, tenuto segreto e della cui esistenza si è venuto a sapere solo tramite un’inchiesta giornalistica del 2015.

Appena nate e già di molto in ritardo rispetto alle scadenze dettate dal progredire della crisi climatica, nei 28 anni che si sono susseguite queste conferenze intergovernative, parallelamente ai vari vertici G7, G8 e G20, si sono siglati vari accordi (Kyoto, Copenhagen, Parigi, Glasgow) ma la situazione oggettiva ha continuato a peggiorare di anno in anno.

Questo per la lentezza di questi ambiti nell’ammettere il problema, la difficoltà nel formulare proposte efficaci ed eque, la negligenza dei governi nei confronti dei (seppur pochi) impegni presi.

Si è resa palese non tanto la difficoltà nel “mettere d’accordo le parti”, come spesso viene narrato per giustificare i continui fallimenti, quanto invece la volontà dell’Occidente (Stati Uniti, Unione Europea) di tutelare i propri livelli di profitto a discapito dei Paesi che hanno tardato o non sono ancora arrivati a raggiungere l’industrializzazione.

Come in tutti gli ambiti sovranazionali, anche in questo sono in pochi a fare la voce grossa, rendendo le COP più un intralcio che uno strumento utile ad affrontare il problema, dato che coprono per livello di adesione lo spazio occupabile da iniziative equivalenti a carattere maggiormente multilaterale e con contenuti più radicali.

Eppure il maturare delle contraddizioni in seno alla COP ed altri ambiti intergovernativi ha fatto sì che il problema dello “svilupppo ineguale” e quindi di una “transizione giusta” venissero sollevati da Paesi che rivendicano in maniera sempre più insistente un peso politico proporzionato al peso demografico che tutti insieme hanno, oltre che quello economico che sempre più sta aumentando.

A queste rivendicazioni i Paesi occidentali rispondono con la propaganda, archiviando i crimini commessi in decenni di politiche imperialiste ed ecocide e proponendosi come risolutori di una crisi che loro stessi hanno creato. Mentre gli Stati Uniti lottano per mantenere invariati gli assetti politici ed economici che li hanno favoriti per più di vent’anni, l’Unione Europea cerca di ritagliarsi il proprio spazio in questa competizione, condividendo tuttavia con loro l’aspirazione di continuare a relegare il resto del mondo ad un ruolo politico secondario nonostante specialmente i BRICS siano ormai il principale attore economico mondiale.

Questi propositi si rispecchiano anche nelle scelte in materia di “transizione ecologica” quando si affronta il nodo dell’energia ma non solo.

Le relazioni tossiche dell’UE: gas e nucleare nell’evoluzione normativa

A questo proposito esaminiamo più da vicino il caso dell’Unione Europea, che è il polo all’interno del quale ci troviamo ad agire anche sul fronte ambientale.

È da anni che l’UE si occupa di costruire un quadro normativo, azioni e programmi incentrati sullo sviluppo di fonti di energia e tecnologie “sostenibili”.

Il Green Deal, la Tassonomia, il RepowerEU, sono alcuni dei principali tasselli di questa strategia che, attraversando fasi sempre più critiche della sua capacità di costituirsi come super-stato, si è progressivamente svelata per quello che è: un percorso funzionale all’aumento dei livelli di profitto dei “campioni europei” e della competitività del continente – prerogative rispetto agli urgenti obiettivi che il collasso ambientale impone.

Partendo proprio dal Green Deal, l’obiettivo dichiarato è quello di zero emissioni nette entro il 2050. Il piano industriale di cui si è dotata prevede obiettivi di rilevanza strategica per il consolidamento dell’Unione: implementazione della rete ed indipendenza energetica, rafforzamento ed accorciamento delle catene di approvvigionamento delle materie prime critiche.

Tuttavia mentre gli obiettivi economici prendono pian piano forma, quelli climatici si allontantano sempre più, soprattutto a seguito dello scoppio della guerra.

La cosiddetta “tassonomia verde” (atto delegato nel quadro dei principi ESG -Ambientali, Sociali, di Governance) già prevedeva infatti, sotto le spoglie di una transizione fuori dal carbone, dei compromessi politici che guardassero alla stabilità franco-tedesca piuttosto che alla riduzione delle emissioni. Per considerare gas naturale e nucleare fonti “di transizione” è stata effettuata un’operazione di “spacchettamento” che non ha considerato le attività a monte e a valle del ciclo dell’uranio, quelle di estrazione del gas e della costruzione del gasdotto, guardando all’ambizione tedesca di diventare l’hub di smistamento europeo del gas e alla necessità francese di non colare a picco dopo le operazioni di manutenzione e il decommissioning a venire dell’attuale parco nucleare.

Mentre inizialmente la battaglia europea per il nucleare era stata sposata qui in Italia solamente dalle forze cosiddette “conservatrici”, vediamo anche il PD all’ultima plenaria del Parlamento Europeo allinearsi a queste posizioni.

Ed è proprio il nucleare il grande protagonista anche nella recente COP28 negli Emirati Arabi, che sigilla una tendenza già in atto a partire dallo scoppio della guerra in Ucraina, quando è stato formulato, nei mesi immediatamente successivi al febbraio 2022, il piano denominato RepowerEU, che fornisce le linee guida per ottenere “maggiore indipendenza energetica” (sottinteso, dai nemici dell’Alleanza Atlantica, incarnati in primis da Russia, Cina e alleati) e per mantenere la competitività nonostante il pesante colpo autoinfertosi con il blocco delle importazioni di gas dalla Russia.

La contraddizione negli obiettivi di “sovranità energetica” europei si manifesta anche nell’importazione del GNL statunitense, come nel consolidamento degli scambi con il “cortile di casa europeo” – il Nord Africa – per l’importazione di energia elettrica da solare ed eolico, di idrogeno e del “tradizionale” gas naturale. Su questo, tre delle pipelines di gas naturale ancora attive passano per l’Italia (Transmed, Greenstream e TAP), mentre per l’approvvigionamento di idrogeno al core europeo si punta al progetto del “South H2 Corridor”, che conferma la centralità dell’Italia nei piani di “transizione ecologica” (riassetto energetico) europei.
Insomma, la “riaccensione” europea sarà più che mai dipendente dal gas (oltre che dal carbone, di cui si è ri-intensificato l’impiego per il bene della produttività) ma soprattutto dai Paesi esteri, tramite dinamiche di servilismo come nel caso dell’importazione per nulla conveniente dagli Stati Uniti o di imperialismo (come nel caso della produzione intensiva in Nord Africa volta al soddisfacimento delle necessità europee). Non solo dipendente dal gas naturale ma anche dall’uranio, che lungi dall’essere la chiave di volta per il raggiungimento della sovranità energetica è una materia prima nelle mani dei competitors dell’Europa o un’altra delle risorse di cui rapinare il continente africano (come la Francia già estesamente fa).

Rispetto ai progetti per ora attivi ricordiamo i principali attori coinvolti. Troviamo le italianissime Snam e Italgas che hanno colto l’occasione per aumentare i loro profitti a discapito delle popolazioni che vivono nel territorio del Nord Africa (ad esempio il parco eolico concesso dal Marocco ad ENEL nel Sahara Occidentale), e guadagnare anche sulla CO2 prodotta. Infatti l’altro progetto strategico per l’Europa, il ‘Callisto Mediterranean CO2 network’ , riguarda la cattura dell’anidride carbonica e vede coinvolti sempre gli stessi attori che oggi sono i maggiori investitori e produttori del fossile in Italia e nel mondo (ENI e SNAM).

E se vogliamo un’ulteriore conferma di quanto siano grandi gli interessi che muove l’estrattivismo pensiamo alla compiacenza dei governi occidentali con il genocidio che si sta compiendo in Palestina, e le concessioni petrolifere che Israele sta assegnando a 12 società (tra cui proprio l’italiana ENI) nei territori illegittimamente occupati.

Questi sono gli interessi che la classe dirigente non solo nazionale, ma anche continentale, difende strenuamente nonostante le dichiarazioni che si sono sprecate in questi giorni di conferenza mondiale sul clima. Nei giorni che l’hanno preceduta, Ursula Von der Leyen ha dichiarato che “l’Europa sta mantenendo le sue promesse”. Sicuramente, quelle a cui più sta tenendo fede sono quelle belliche: “La guerra in Ucraina dimostra che dobbiamo produrre di più. Sia per soddisfare le esigenze dell’Ucraina, sia per garantire la nostra deterrenza e difesa”.

COP28: il fallimento di un sistema messo a sistema

Questi sono i presupposti con cui si è arrivati alla COP28 negli Emirati Arabi, tra lo scetticismo per l’esito di conferenze che non hanno prodotto finora nessun risultato, la contraddizione di essere ospitata da uno dei principali esportatori di petrolio e uno scenario internazionale in bilico, con l’aspettativa rispetto ad un maggior ruolo del Sud del mondo.

Le conclusioni a cui si è giunti sono la fotografia che cristallizza questo scenario. Chi ci ha voluto vedere del buono, si è concentrato sul primo “riconoscimento ufficiale” della necessità di abbandonare i combustibili fossili.

Arrivati a questo punto, ci sembra però più opportuno chiederci come mai ci siano voluti quasi 30 anni per arrivare a quest’affermazione (“transitioning away from fossil fuels”), tra l’altro non supportata da nessun obiettivo dichiarato con scadenze temporali o percentuali di riduzione, e soprattutto senza prevedere alcuna distinzione in impegno e responsabilità tra i Paesi con diversi livelli di industrializzazione. Anche il tanto decantato “Loss and Damage Fund”, per cui gli Emirati hanno promesso 100 milioni così come la Germania e che anche altri Paesi occidentali si sono impegnati a finanziare, ha avuto precedenti analoghi come il Fondo Verde per il Clima pensato nel 2009 a Copenhagen e poi naufragato perché mai finanziato dal “Primo Mondo”. Inoltre siamo consapevoli che contribuire economicamente ad alleviare le conseguenze dei danni che il cambiamento climatico crea soprattutto in alcune parti del mondo non può essere considerata una vittoria, ma solo un modo di provare a pulirsi la coscienza dalle responsabilità storiche senza prendere effettivamente nessun provvedimento concreto.

A coprire i pesanti limiti politici di questo ambito, si sbandierano proposte che ignorano totalmente la radice sistemica del problema: l’obiettivo di triplicare le rinnovabili entro il 2030 e, entro il 2050, triplicare lo share di energia nucleare, nuovamente annoverata tra quelle “sostenibili”.

La fissione si conferma infatti essere il coniglio da tirare fuori dal cilindro quando si vuole provare a far quadrare per forza i conti. La superficialità delle sparate si evince anche solo dal fatto che un tipo di generazione così poco flessibile e presente in maniera così disomogenea all’interno dei mix energetici dei vari Paesi non può essere incrementata a piacimento. Guardiamo il caso della Francia, che ha già uno share altissimo di generazione elettrica da nucleare, ed in cui gli scenari di transizione al 2050 formulati dalla stessa RTE prevedono l’eliminazione o la forte riduzione del nucleare nel mix energetico. Si continua ovviamente ad omettere il carattere non rinnovabile di questa fonte minerale e la sua non “circolarità”, dato che produce scorie che, al momento, non possono essere smaltite ma per forza stoccate. Già attualmente solo la Finlandia possiede siti adeguati allo stoccaggio a lungo termine, ed in particolare in Italia dopo anni di versamenti pubblici volti allo smantellamento delle centrali nucleari e allo stoccaggio delle scorie, il lavoro intrapreso da Sogin nel 1999 è ancora in alto mare, mentre si avvicina inesorabile la data (2025) in cui dovremo riprenderci le 235 tonnellate di rifiuti atomici al alta e media intensità che ha stoccato in Francia senza avere ancora un’alternativa.

E mentre si prende alla leggera la messa in sicurezza delle scorie già prodotte e di quelle che inevitabilmente verranno prodotte da applicazioni mediche e di ricerca, il Governo già pensa a portare avanti la realizzazione degli SMR di Ansaldo, ignorando il recente fallimento statunitense nel tentativo di installare questi tanto celebrati reattori modulari che ha di fatto ancora sottoscritto l’insostenibilità economica (oltre che ambientale) di una tecnologia che non ha nulla di sostanzialmente nuovo.

Come non è nuovo il tentativo di propagandare soluzioni “tecniche” e di sussumere la lotta ambientalista voltando la faccia ai problemi dello sviluppo ineguale e del consumo energetico irrazionale insiti nel modo di produzione capitalistico.

Ci avviciniamo ormai alla prossima scadenza internazionale, il G7, che sarà ospitato proprio dall’Italia ed avrà com’è ormai d’obbligo un tavolo riservato alla questione ambientale in Aprile.

Abbiamo ormai capito che le dinamiche ancora vigenti in questi consessi internazionali impediscono di prendere atto della realtà: la volontà dell’Occidente di mantenere intatti (e se possibilie incrementare) i privilegi acquisisti in anni di imperialismo e sfruttamento realizzati con l’imposizione militare ed il ricatto economico, oltre che ovviamnete preservare gli attuali rapporti di produzione.

Guardiamo quindi ai prossimi vertici consapevoli che senza la rottura di questo paradigma ogni tentativo di transizione si tradurrà in una cristallizazione delle disuguaglianze economiche e sociali nel mondo, risultando per questo parziale ed inefficace nel combattere le sfide dell’umanità intera.