MA QUALE RIFORMA DELL’UNIVERSITA’: È TEMPO DI CAMBIARE ROTTA!
Un nuovo anno accademico è alle porte e migliaia di studenti si immatricoleranno nelle università ed entreranno a far parte di un mondo in cui trovare casa, accaparrarsi il posto in aula, avere accesso a tutti i materiali didattici, tenere i ritmi delle sessioni, fare ore e ore di spostamenti, costruirsi una prospettiva di vita dignitosa per il futuro, riuscire a pagare tutto tra spesa, tasse, mensa, casa eccetera: tutto sarà difficile per moltissimi. L’alto tasso di rinuncia agli studi, l’enorme quantità di studenti che devono lavorare per poter pagare le spese, la perdita della funzione di emancipazione che aveva portare avanti il percorso di studi, la scelta di fare della ricerca una fabbrica di conoscenza non per il progresso collettivo, ma per l’industria militare e per le aziende che sfruttano e inquinano, l’assenza dell’università come laboratorio per il dibattito culturale e politico, sono tutte caratteristiche che fanno di questo modello universitario un sistema da rompere e scardinare: a questa università non serve una riforma, ma serve una rivoluzione. Verso un nuovo anno di mobilitazioni e lotta: è tempo di Cambiare Rotta.
L’anno che gli atenei del paese si sono lasciati alle spalle è stato scosso da forti mobilitazioni in solidarietà con la resistenza palestinese e di denuncia verso il genocidio in corso. Un anno dove, per la prima volta dopo tanto tempo, i nostri atenei hanno conosciuto nuove forme di lotta – dalle occupazioni alle tende, dagli scioperi della fame alle petizioni nei vari senati accademici – per far pressioni sulle governance universitarie, creando un dibattito politico che ha squarciato il velo di silenzio che, nel nostro paese e in Occidente, volevano mettere sulla questione palestinese. La mobilitazione degli studenti universitari ha messo in luce il ruolo strategico delle nostre università indicandone le responsabilità e le connivenze con i vari accordi che intrattengono con Israele e la filiera bellica e il loro ruolo più complessivo: non solo un tassello materiale della filiera produttiva bellica, ma anche una risorsa strategica per il nostro imperialismo nella competizione internazionale e nella guerra. Le nostre università, come più in generale il mondo della formazione, si sono dimostrate quindi un campo di battaglia dove una visione del mondo basata sulla pace, il diritto dei popoli all’autodeterminazione, i bisogni degli studenti e i fini dei nostri studi e della ricerca entrava in diretta collisione con la direzione che le classi dirigenti occidentali provano a dare questi apparati.
Se il tema della Palestina ha fatto capire a noi studenti, insieme al personale amministrativo e ai docenti, quanto si possa ottenere con la mobilitazione e con la lotta – grazie agli importanti risultati ottenuti sul piano del boicottaggio a partire dal Bando MAECI – dall’altro lato ha acceso i riflettori proprio sul mondo dell’università anche da parte della ministra Bernini e del governo. Come primo dato da rilevare, la prima conseguenza di queste attenzioni è sicuramente un aumento della repressione e della restrizione dell’agibilità democratica nei nostri atenei, come diversi episodi di questo ultimo anno sono testimoni. Ci sono poi le riforme dell’Università in preparazione: in continuità con i piani del precedente governo Draghi e della ristrutturazione economica impostata con il PNRR, quest’anno si apre una stagione di profonda riforma dell’Università sulle stesse linee direttive che, dal processo di Bologna in avanti, abbiamo sempre contestato. Oltre alla riforma delle classi di laurea e ai percorsi professionalizzanti che avvicineranno ancora di più i nostri atenei alle necessità del tessuto produttivo, questo nuovo anno accademico si è aperto proprio con un nuovo taglio al FFO (fondo di finanziamento ordinario) di ben mezzo miliardo di euro, che sta ad indicare una nuova stagione dove i fondi saranno sempre meno e ritornerà la spada di Damocle dell’austerità. Di fronte alle proteste che, in questi anni, ci sono state per il caroaffitti, la costruzione ex novo e la messa a disposizione di maggiori studentati pubblici, la richiesta di finanziare tutta una serie di manovre – dalle tasse alle borse di studio – che garantissero il diritto allo studio, il governo mette in chiaro la linea fino ad ora perseguita e mostra quali piani ci sono in mente per l’università. Con il PNRR, narrato come panacea a tutti i mali del sistema universitario, non si fa altro che consolidare il ruolo dei privati nella formazione e nella ricerca universitaria, lasciando al pubblico sempre meno margini di manovra. A questo si collega la riforma del mondo della ricerca, mirante a precarizzare ulteriormente il settore dei ricercatori e dei dottorandi dell’università: di fronte ad una categoria che ha dimostrato una forte sensibilità etica sull’orientamento della ricerca, soprattutto quando a fini bellici, e che ha alzato la testa per rivendicare una ricerca pubblica, il ministero prepara questa riforma che porta questa categoria in una condizione di ulteriore ricattabilità, favorendone la frammentazione e l’aspra competizione interna. Ma il progetto sul sistema universitario, che in questi ultimi trent’anni ha assunto una forma ben precisa, ha bisogno di un importante consolidamento in vista dei profondi stravolgimenti che attendono il nostro mondo e dell’aumento della competizione internazionale: il governo ha tra le mani una riforma più complessiva dell’università che mira a consolidare e a rilanciare in avanti il ruolo di questo modello universitario e di renderlo ancora più efficiente rispetto alle necessità del presente. Dentro questo quadro anche l’iter per l’avvio dell’autonomia differenziata porterà ulteriore disequilibrio nel sistema universitario fra poli di eccellenza e non, aumentando ulteriormente l’asservimento al tessuto imprenditoriale del territorio.
Nel mentre, il PNRR si avvia a prossima scadenza, mentre provvedimenti strutturali su tante materie richieste non sono state presi, e i privati nel mentre hanno gonfiato le loro tasche: se tante promesse sono state fatte sulla spesa e sul carattere illimitato di questi fondi – soprattutto mentre in decine di atenei del paese gli studenti si accampavano davanti ai rettorati – in realtà vediamo piuttosto che la situazione è il contrario di quella raccontata. Sicuramente una delle prime questioni che già con questa ripartenza dell’anno si è ripresentata, è il tema della casa: a fronte dei 60 mila posti promessi – ancora completamente insufficienti – solo il 50% per cento è in dirittura d’arrivo per l’anno prossimo e la maggior parte prevede ancora il finanziamento di studentati o enti privati che si occupano di edilizia universitaria. A questo si lega un aumento vertiginoso dei costi dell’istruzione pubblica universitaria, fra tasse, borse di studio insufficienti nell’ammontare e nel numero di borse erogate, e più in generale del costo della vita nelle città universitarie che non vedrà che peggiorare la condizioni delle comunità studentesche del paese.
Di fronte a questo panorama, è chiaro come ci sia un progetto ben definito pronto a mettere mano al sistema universitario, adattandolo alle esigenze di cui le classi dirigenti del nostro paese, e più in generale a livello europeo, hanno bisogno, in continuità con il modello fin qui costruito nonostante si dimostri chiaramente il suo fallimento. Questo passaggio avviene in un contesto in cui le società occidentali, a fronte di un peggioramento generalizzato delle condizioni di vita, vivono delle tensioni sempre più forti verso la tendenza al coinvolgimento bellico e all’espansione imperialista: dall’Ucraina fino al sostegno indiscusso ad Israele, dove questi contesti vengono utilizzati per rilanciare un’economia orientata alla produzione di armamenti e guerra con un ritorno netto verso l’austerità e le politiche economiche restrittive nei campi del welfare – compreso il mondo della formazione. A partire dall’anno appena passato, abbiamo visto come il nostro sistema universitario rifletta e amplifichi le profonde contraddizioni che stanno scuotendo la nostra società: questo avviene perché è impossibile pensare le nostre università come compartimenti stagni rispetto al mondo che ci circonda. Per questo motivo non solo è necessario guardare a come i problemi della nostra università abbiano radici più complessive, ma puntare anche ad un cambiamento generale della società sotto solo il quale potrà esserci un cambiamento di rottura del modello universitario.
Per questi motivi l’università si conferma un campo di battaglia centrale per gli studenti di questo paese, dove non solo costruire un’università a misura dei bisogni degli studenti, ma anche una diversa visione del mondo. Dal boicottaggio accademico da costruire nei dipartimenti fino alla lotta per la casa, dalle borse di studio fino alla lotta contro i 60 cfu alla condanna di ogni forma di ricatto, molestie e competizione, dalle mobilitazioni per lo spazio democratico nei nostri atenei fino alle alleanze con professori-ricercatori-personale amministrativo, dalle elezioni universitarie nei nostri atenei fino alle elezioni nazionali per il CNSU che si terranno alla fine di quest’anno, tante sono le possibilità che si aprono per le mobilitazioni studentesche per dare battaglia contro questo modello universitario. Dalle reazioni di totale chiusura da parte del governo, della ministra Bernini e dei rettori delle nostre università, abbiamo visto che non c’è nessuna disponibilità al dialogo, ma che solo la mobilitazione studentesca, in tutte le forme in cui si può declinare, dovrà essere la risposta da costruire su tutti questi temi che stanno aprendo delle crepe sempre più aperte nel modello universitario. Con la convinzione che le battaglia universitarie non possono fermarsi al ristretto orizzonte della formazione ma devono portare con sé, come ci hanno dimostrato le proteste per la Palestina, una visione di società diversa, rilanciamo questo autunno di lotta: anche in Università è tempo di Cambiare Rotta!
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