Manifesto politico
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MANIFESTO POLITICO
1. Da dove partiamo
Nel mondo in cui viviamo gli eventi e le informazioni viaggiano a una velocità sorprendente e non è sempre facile orientarsi. Guerre, caduta delle quotazioni di borsa, rialzo dello spread, cambi di governo, crisi diplomatiche, riforme del mondo del lavoro, disastri naturali, immigrazione, rallentamento della produzione industriale, aumento della disoccupazione: notizie che ci giungono e spesso ci appaiono come sconnesse fra di loro, in quel caotico vortice che sembra essere il presente. Eppure crediamo che sia possibile “venirne a capo”, innanzitutto individuando alcune domande che vadano nella direzione di trovare l’interconnessione fra tutti questi fenomeni: quale è l’origine la situazione attuale? Come si è generata la crisi? Quali sono i soggetti in campo nella gestione della crisi, e per conto di chi? Che effetti provocano le loro scelte nello scenario globale e nel nostro paese? Si tratta certamente di domande che richiedono risposte articolate che non si possono risolvere in poche pagine, ma dalle quali possiamo estrapolare qualche punto fermo per orientarci se vogliamo agire in direzione di un cambiamento e di alternativa da generazione cresciuta dentro questo nuovo contesto.
1.1 Crisi
Dopo la dissoluzione dell’URSS nell’89-’91, sembrava aprirsi uno scenario privo di conflitti e di rilancio dell’economia capitalista. Eppure con gli anni 2000, e in particolare dopo il 2007, si apre un periodo di instabilità e di crisi, che è ormai patrimonio comune essere una grande crisi economica, una crisi che non riguarda soltanto qualche paese o filiera della produzione o della finanza, ma che riguarda l’intera umanità, non solo in ambito economico ma anche culturale, politica, ideologico e morale: quindi una crisi generale e sistemica. Questa crisi ha investito tutte le macro-aree, da quelli che un tempo venivano definiti “paesi avanzati”, USA e Stati europei in testa, fino alle aree emergenti, in particolare i “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che con tassi di crescita enormi sembravano lanciarsi sulla strada di un rapido sviluppo. Alla crisi corrispondono il rallentamento (se non lo stop) della crescita economica, l’aumento della speculazione finanziaria, la chiusura delle attività d’impresa e il conseguente aumento della disoccupazione, per citare solo i fenomeni più evidenti.
1.2 L’Unione Europea
Questi problemi legati alla crisi hanno posto gli Stati e le loro economie in condizioni di difficoltà e di crescente competizione sul piano globale per mantenere e accrescere le proprie posizioni, evidentemente a scapito di altri. Assistiamo così a un rinnovato protagonismo degli attori della politica internazionale, a partire dagli USA per arrivare all’Unione Europea, la Cina, la Russia. Sono proprio questa accelerata competizione internazionale e la difficoltà di competere con economie di scala sempre più grandi, la necessità di accaparrarsi risorse e mercati, che hanno dato l’impulso decisivo al consolidamento di quel soggetto politico sovranazionale chiamato Unione Europea, che tenta di integrare in un soggetto unico, prima di tutto attraverso la moneta unica, la maggior parte dei paesi europei fra cui il nostro.
Le risposte messe in atto dall’UE per affrontare la crisi le osserviamo da anni, attuate da governi di qualunque partito: la distruzione del welfare state pubblico come l’abbiamo conosciuto, privatizzando ed esternalizzando i servizi (con conseguente aumento dei prezzi) dei trasporti, della sanità, della scuola e dell’università; le “riforme” del mercato del lavoro, dai tirocini non pagati fino al Jobs Act; il taglio delle pensioni e l’aumento dell’età pensionabile. Tutti questi cambiamenti, anche per la loro forte impopolarità che riduce di conseguenza la possibilità dei governanti di appoggiarsi sul consenso della popolazione, necessitano dunque di un adattamento degli assetti generali dello Stato che rispecchi i nuovi rapporti di forza e la direzione che le classi dominanti voglio dare alla società. Assistiamo così a una progressiva chiusura degli spazi democratici, delle forme di partecipazione alla vita istituzionale e politica del paese, di cui i fenomeni più evidenti sono la modifica in senso autoritario delle leggi elettorali, la modifica delle costituzioni (specie quelle nate dalla Resistenza come compromesso fra le parti sociali) e degli spazi di rappresentanza. E sul piano internazionale? Osserviamo un sempre maggior protagonismo europeo negli interventi militari o di destabilizzazione, chiamati ironicamente “interventi umanitari” o di “peace keeping” di concerto ma non sempre con gli storici alleati dentro la NATO, cioè gli USA: dall’ex Jugoslavia, passando per l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, la Tunisia e l’Egitto delle “primavere arabe” rivelatesi poi colpi di stato militari, fino alla guerra sul proprio suolo europeo come sta avvenendo in Ucraina dove il confronto-scontro con la Russia è sfociato in guerra civile.
1.3 L’austerità in casa, la guerra alle porte
Dopo anni di questo tipo di politiche, emergono sempre più prepotentemente delle contraddizioni che ci indicano che cosa l’Unione Europea abbia prodotto e nell’interesse di chi. È chiaro infatti come le ricette di austerità “per rilanciare la crescita” dei paesi europei abbiano favorito in primis grandi gruppi multinazionali e in generale le imprese, che attraverso le acquisizioni e le fusioni si sono rinforzate e sul mercato del lavoro vanno conquistando quella “flessibilità” continuamente invocata. Hanno favorito inoltre il capitale finanziario che attraverso la moneta unica e l’integrazione dei sistemi giuridici e fiscali sposta velocemente i capitali sulle piazze finanziarie. Ma per quanto riguarda i lavoratori, a partire da quelli più giovani, le politiche di austerity si sono manifestate come disoccupazione di massa, precarietà e instabilità economico-contrattuale diffusa, aumento del costo dei servizi pubblici, dai trasporti, alla sanità; aumento della competizione per raggiungere un livello di specializzazione più spendibile, che si è tradotto in un abbassamento generale della qualità dell’istruzione, e l’introduzione di tirocini e vero e proprio lavoro non pagato, relegando la possibilità di una formazione di qualità ad alcuni poli di eccellenza che selezionano gli ingressi tramite numeri chiusi e prezzi proibitivi. Se questi sono gli effetti nelle società europee, le politiche di intervento sullo scenario geopolitico, siano esse indirette come l’appoggio dato a qualche gruppo locale fino all’aperto intervento militare, hanno prodotto una “cortina di fuoco” attorno all’UE che si estende dall’est europeo e dal confine sempre più militarizzato con la Russia fino al Medioriente e all’Africa, portando in quei paesi condizioni di devastazione tale da costringere un flusso di milioni di persone ad abbandonare le proprie case per cercare condizioni di vita migliori.
1.4 Destra populista e neofascisti: “eurofascismo”
Il progetto europeo ha determinato nei contesti nazionali un ricompattamento nell’arco politico istituzionale, con la costituzione di un fronte europeista nel quale troviamo le tradizionali forze di centro-sinistra e di centro-destra che si alternavano al governo. Oggi la differenza fra queste forze si è assottigliata a tal punto che si trovano alleate nell’eseguire le indicazioni di Bruxelles, tanto da far definire questa alleanza dal Presidente del Consiglio come l’embrione del “Partito della nazione”. In questo contesto osserviamo, in Italia come in tutta l’Europa, un’allarmante riemergere delle destre populiste ma anche reazionarie e dichiaratamente fasciste, grazie si alla crisi, ma anche all’acutizzarsi dei suoi effetti dovuto alle politiche di austerità e di guerra portate avanti dal soggetto politico Unione Europea.
Le destre populiste come la Lega Nord nel nostro paese infatti sfoderano un nuovo slancio nella gestione del malumore diffuso in ampi strati di società, aspirando a un ruolo di governo che utilizza sì la propaganda antieuropeista, soprattutto per quanto riguarda la tematica dell’immigrazione, ma approva le riforme del mercato del lavoro e le trasformazioni strutturali che il nuovo assetto europeo porta. Forze come la Lega catalizzando intorno a sé le proteste forcaiole e l’attenzione della destra populista attualmente indebolita e schiacciata nelle alleanze del “fronte unico”, ma anche quella dei soggetti dichiaratamente fascisti. Le destre populiste e reazionarie si presentano così come unica alternativa alla macelleria sociale europea. Eppure nonostante le polemiche, è chiaro come siano proprio gli europeisti al governo a creare le condizioni sociali e politiche per la loro riproduzione: una dipendenza reciproca, che ci permette di dire che (in Italia) Renzi e Salvini sono due facce della stessa medaglia. La verifica più evidente di questo fenomeno l’abbiamo nell’enorme spazio mediatico e politico che viene riservato alle destre, alle quali vengono permesse provocazioni di ogni tipo nei quartieri popolari, contro le tradizioni antifasciste, gli immigrati e le realtà politiche e sociali della sinistra, che invece nel quotidiano vengono colpite dalla repressione e dalla chiusura degli spazi democratici. Sul piano continentale lo scenario non appare migliore: oggi tutti i paesi deboli dell’UE si trovano a subire le stesse politiche di sacrifici indipendentemente dal colore politico dei propri governi, e in tutta Europa vediamo la crescita di partiti come la Lega, Front National, ma anche dichiaratamente fascisti come Alba Dorata, l’FPO austriaco ed altri, in una versione del fascismo 3.0 che potremmo definire “eurofascismo”.
2. Le fasce giovanili
2.1 Precarietà di vita
Dopo otto anni di crisi gli effetti sulla nostra società si fanno sentire sempre più pesantemente. Disoccupazione, precarietà e ogni tipo di disagio sociale avanzano mentre la crisi si fa sistema. Per le fasce giovanili ciò è particolarmente vero: basti considerare i dati sulla disoccupazione giovanile, sul numero di giovani che hanno smesso di cercare lavoro e di studiare (i cosiddetti “neet”), sulla durata dei contratti e sulla retribuzione che percepita dai (sempre meno) impiegati nel mercato del lavoro, e non ultimo sul numero dei giovani che abbandonano i propri paesi per cercare migliori condizioni e opportunità sia formative che lavorative all’estero.
Quest’ultimo dato ci permette di fare alcune considerazioni sul diverso modo con cui la crisi si ripercuote e viene politicamente gestita nei diversi paesi dell’Unione Europea. Soprattutto a seguito del “caso greco”, si è manifestato apertamente come gli effetti della crisi non siano uniformi all’interno dell’Eurozona. La costruzione dell’Unione Europea dentro il contesto della crisi vede la definizione di due regioni distinte. Emergono infatti un Centro, capitanato dal grande capitale tedesco, fondato su politiche Neo-Mercantiliste e caratterizzato da una produzione ad alto valore aggiunto, e, dall’altro lato, una Periferia, composta dai paesi dell’area mediterranea (i cosiddetti PIIGS) ma anche dai paesi dell’est-Europa, a cui viene sostanzialmente attribuito il ruolo di “colonie interne”: sbocco per le merci e bacino di risorse, sia naturali sia (ed è questo il caso) di forza lavoro manuale e intellettuale, per i paesi del Centro.
2.2 Il discorso del padrone
Se questi sono dei dati di fatto con cui ci si scontra se si legge la realtà con occhio critico, assistiamo però a una narrazione dominante, un “discorso del padrone” secondo il quale la competizione, l’emigrazione, il lavoro non pagato sono le grandi opportunità che vengono messe a disposizione delle nuove generazioni. D’altronde nel mercato finalmente unificato che sognano le classi dirigenti europee la mobilità geografica della forza lavoro è un pre-requisito essenziale. La sussunzione e l’introiezione passiva di questa narrazione, causata dalla sconfitta dei movimenti di classe e dalla rinuncia della sinistra ad una progettualità indipendente, autonoma, ricompositiva e conflittuale, provocano una discrepanza fra le prospettive promesse o immaginate, e la realtà che poi ci si trova a vivere. Il risultato spesso è la depressione come risposta alla difficoltà di accettare se stessi in una vita sociale che, promettendo possibilità illimitate di esperienza e di consumo, fa sembrare vuota e deludente ogni singola esistenza che abbia fallito nel tentativo di ascesa proposto dal modello dominante.
2.3 Emigrazione e furto di cervelli
Quello dell’emigrazione è per noi il problema principale che attraversa le fasce giovanili oggi, in quanto è spesso una scelta obbligata che viene incentivata dalle politiche governative come da quelle comunitarie. La caratteristica più evidente di questa “nuova migrazione europea” sta nel dato che ad emigrare non sono più solo giovani lavoratori non specializzati, ma anche e soprattutto studenti e neolaureati in cerca di un lavoro che possa essere congruo al percorso di studi da loro intrapreso. La si è chiamata “fuga di cervelli”; ma più che di una fuga si dovrebbe parlare di un “furto di cervelli”. Furto in quanto le possibilità e le promesse con l’emigrazione, in particolare accademica, di associarsi all’élite tecnica e intellettuale che sorregge l’impalcatura europea, in una competizione individualista che raramente vede protagonista la tanto decantata meritocrazia, prepara per i meno fortunati il terreno all’estero come a casa di condizioni di lavoro precario, subalterno, mal retribuito, con diritti messi sistematicamente sotto attacco dalla crisi. Una selezione per cooptazione di manodopera intellettuale e manuale che sottrae enormi risorse alla designata periferia, per favorire le diseguaglianze sulle quali si basa il rilancio del continente in chiave capitalistica tramite l’Unione Europea sul piano della competizione internazionale.
Noi restiamo! La necessità che abbiamo di agire nel presente, tenendo conto degli strumenti di lettura e inquadramento della realtà che ci siamo dati, ci porta a confrontarci con il manifestarsi concreto della crisi e della formazione dell’UE di cui abbiamo parlato. È un manifestarsi “a pezzi”, in diversi aspetti della vita quotidiana delle masse, dall’impossibilità di accedere a un corso di formazione superiore, o la difficoltà nel seguirne i ritmi per la necessità di lavorare barcamenandosi nella precarietà, o l’impossibilità di trovare un lavoro, e di conseguenza l’impossibilità di rendersi autonomi a livello abitativo.
Non venire travolti dalle mille sfaccettature dei problemi quotidiani, individuarne la radice comune per costruire un’alternativa all’esistente. Mettere in campo una parola d’ordine che va in controtendenza rispetto alla moda di cercare altrove soluzioni individuali ad una crisi che, in quanto generale, necessita di risposte generali. Perciò ci siamo assunti la responsabilità di dire “Noi restiamo!”. Siamo consapevoli della valenza di questa parola d’ordine nel contesto economico e politico attuale, e della smorfia che può creare di primo acchito a chiunque si veda, con queste parole, incoraggiato a restare nella condizione avvilente del presente. Ma restare è condizione necessaria se lo vogliamo ribaltare questo presente.
3. Agire il NOI RESTIAMO
Se ci rendiamo conto che le cause dei nostri problemi, il motivo per cui affermiamo Noi Restiamo, sono la costruzione dell’Unione Europea e la crisi capitalistica, allora abbiamo già capito dove agire: in tutti quei contesti, percorsi, mobilitazioni e nella costruzione di organizzazione in grado di combattere la costruzione dell’UE e di proporre un’alternativa concreta e di immaginario all’irrazionalità del capitalismo. Utilizzare al meglio gli strumenti organizzativi, comunicativi, informativi e di mobilitazione che abbiamo per esprimere la necessità di “rompere la gabbia dell’UE” è il nostro primo compito. In questa direzione, consci del fatto di non essere autosufficienti, dobbiamo guardarci attorno e cercare le alleanze possibili per rendere davvero incisivo il nostro agire. Vediamo che nella società esistono piccoli o grandi baluardi in questo senso. Abbiamo aderito e appoggiato convintamente la piattaforma sociale Eurostop, che rappresenta nel panorama nazionale oggi al meglio quest’esigenza di mobilitazione larga, che tenga insieme organizzazioni e movimenti sociali e politici anche diversi fra loro che hanno individuato nell’opposizione all’Unione Europea un elemento primario.
Sempre in questa direzione, cogliendo il legame insito fra la guerra e la costruzione dell’UE, vanno l’antimperialismo fatto di solidarietà ai popoli che lo subiscono e di mobilitazione contro la guerra. Fondamentale in questo senso l’attività di solidarietà e informazione riguardo i conflitti della “guerra dei trent’anni” che si sta svolgendo, in special modo nel cerchio di fuoco che si crea attorno all’UE: Ucraina, Turchia e Kurdistan, Siria, Palestina, Iraq, Afghanistan, Libia, Africa… Consapevoli delle differenze storiche, ideologiche e politiche delle diverse situazioni, l’antimperialismo ci porta ad essere solidali coi combattenti del Donbass e Kurdi, ai compagni siriani e libanesi, alla storica resistenza della Palestina. Più in generale, sentiamo la necessità della ricostruzione di un solido movimento contro la guerra, e a questo obiettivo abbiamo lavorato in questi anni, come recentemente, nelle mobilitazioni contro la guerra.
Allo stesso modo, questa guerra contro i popoli che all’esterno si manifesta con bombe e soldati va di pari passo con la guerra interna ai popoli europei. È l’altra faccia della medaglia della costruzione dell’UE, ovvero le politiche di austerità, alle quali opponiamo la costruzione e l’appoggio di tutte le lotte sociali che mettano al centro gli interessi delle classi popolari: “servire il popolo” è per noi un dovere e un contributo fondamentale per ricostruire un blocco sociale cosciente, un’opposizione popolare al ricatto e all’arretramento che le classi dirigenti nazionali ed europee incarnate dal PD e dalla Troika ci vogliono imporre; il sindacalismo di base è quindi il nostro ambito privilegiato, in particolare in quelle strutture dove si organizza il soggetto nuovo, frutto della ristrutturazione capitalista e della crisi: soggetto delle aree metropolitane, precario e che ha come concreto ambito di organizzazione la lotta per l’abitare, per il lavoro e il reddito, la loro messa in connessione con le lotte del mondo del lavoro. Non a caso la campagna Noi Restiamo nasce all’interno di un’occupazione abitativa, e fin dai suoi primi giorni si è sempre trovata a fianco dei percorsi di lotta sociale. In questo senso abbiamo prodotto e messo a disposizione una ricerca e un ragionamento sul reddito minimo garantito, che fornisca un ulteriore elemento di battaglia politica e sociale. Per concludere in questo senso, essendo il contesto continentale, è importante costruire la solidarietà attiva con i casi “storici” di oppressione e resistenza che esistono anche in Europa, come i Paesi Baschi e Catalani.
Di pari passo, poiché il fascio-leghismo (il legame di interdipendenza e collaborazione fra gruppi populisti e i gruppi più dichiaratamente fascisti) potrebbe diventare sempre più l’ideologia di un ceto imprenditoriale nazionale escluso dalla spartizione di una torta a cui hanno accesso solo le multinazionali e una borghesia dal profilo europeo, poniamo l’antifascismo e la sua pratica come necessità imperiosa della nostra attività, come rafforzamento dei percorsi di lotta dei lavoratori e degli sfruttati, per respingere razzismo e xenofobia e per opporsi al discorso dominante delle classi dirigenti che ci dipingono l’Unione Europea come unica civile alternativa a un’involuzione nazionalista e reazionaria. Se le forze fasciste prendono forza dal massacro sociale perpetrato dall’UE, allora opporsi al fascismo significa smascherare il suo discorso tossico che propone la guerra fra poveri (lavoratori garantiti contro lavoratori precari, italiani contro immigrati), e indicare nella rottura dell’UE neoliberista l’unica possibilità di un futuro che tenga al centro gli interessi delle classi popolari.
Ultimo campo del nostro agire, ma non per importanza, è il mondo della formazione, da quella accademica a quella professionalizzante. E’ questo infatti un ambito che come giovani ci troviamo specificatamente ad attraversare prima, durante e dopo il “benvenuto” che ci riserva il cosiddetto mercato del lavoro. L’università in particolare è quel centro del sapere e della formazione che da sempre rappresenta la possibilità di migliorare la propria condizione lavorativa con l’acquisizione di conoscenze specifiche e approfondite. Oggi questa possibilità conquistata con decenni di lotte in tutto il mondo dopo la seconda guerra mondiale, l’università (seppur contraddittoriamente) “di massa”, volge rapidamente verso la fine, non sotto un suo movimento spontaneo, ma sotto l’incalzante attacco da parte delle classi dirigenti, che piegano l’istruzione della popolazione in funzione delle esigenze del mercato. Si configura uno scenario di università di serie A, con formazione di altissimo livello, il cui accesso è limitato dalla disponibilità economica, e dalla cooptazione per “i migliori” che da sempre la classe dirigente sa effettuare; e università di serie B, poco più che parcheggi temporanei o in qualche modo professionalizzanti, per il resto della popolazione. Su questo abbiamo avuto modo di ragionare e studiare, nonché di mobilitarci nei poli universitari delle nostre città, con le tante iniziative di approfondimento e dibattito tenute nelle aule universitarie, e recentemente presentando una nostra relazione al convegno nazionale su “Formazione, ricerca e controriforme” organizzato dalla Rdc.
RELAZIONE SULLA FORMAZIONE
In questa relazione presenteremo alcune delle tematiche di cui ci siamo occupati fin dall’inizio della nostra attività. A partire dal nome scelto per la nostra campagna, il fenomeno che più ci ha colpito e che ci ha spinto a reagire è l’enorme aumento del numero di emigranti (specialmente giovani) negli anni della crisi, un numero che ormai supera quello dei migranti in arrivo.
Il tema dell’emigrazione è indissolubilmente legato al disastro dell’università italiana e alle tragiche condizioni del mercato del lavoro, con il tasso di disoccupazione che è letteralmente esploso durante la crisi. Questi fenomeni non sono ovviamente avvenuti per caso, ma sono il risultato di precise scelte di politica economica implementate dai governi succedutisi negli ultimi anni sotto la spinta dell’Unione Europea. Il risultato è che l’Italia si colloca ormai nella fascia medio-bassa all’interno della divisione internazionale del lavoro, con un’economia che si specializza in settori a basso contenuto tecnologico.
Ci concentreremo quindi su questi tre aspetti principali. Primo, la condizione dell’università italiana a seguito delle politiche di austerity e le loro conseguenze diseguali in termini geografici e di classe. Secondo, la condizione del mercato del lavoro italiano a seguito delle numerose controriforme succedutesi negli ultimi anni. Terzo, il fenomeno dell’emigrazione italiana: chi emigra, dove va e a fare cosa?
1. L’università ai tempi dei PIIGS
Assistiamo da anni ad un processo di dequalificazione e avvizzimento dell’università italiana, presumibilmente accelerato dalla crisi. I dati prodotti dalla fondazione RES evidenziano un processo che ormai appariva evidente a tutti: dopo la lunga espansione e trasformazione (seppur contraddittoria) dell’università italiana in università di “massa”, negli ultimi anni la sua dimensione si è ridotta significativamente. “Rispetto al momento di massima dimensione (databile, a seconda delle variabili considerate, fra il 2004 e il 2008), al 2014-15 gli immatricolati si riducono di oltre 66 mila, passando da circa 326 mila a meno di 260 (-20%); i docenti da poco meno di 63 mila a meno di 52 mila (-17%); il personale tecnico amministrativo da 72 mila a 59 mila (-18%); i corsi di studio scendono da 5634 a 4628 (-18%). Il fondo di finanziamento ordinario delle università (FFO) diminuisce, in termini reali, del 22,5%”. C’è poi da notare che non calano solo gli immatricolati ma anche gli iscritti, ossia non solo molti giovani non si iscrivono all’università ma tanti abbandonano gli studi dopo averli intrapresi perché non vedono prospettive nel continuarli.
Tutto questo avviene in un contesto già non florido: anche nei suoi anni “migliori” l’Italia aveva un tasso di giovani (25-34 anni) laureati inferiore alla maggior parte dei paesi europei. Oggi, con un tasso del 23.9 %, è ultima in UE su 28 paesi e la penultima nei paesi OCSE.
In parte questo dipende dal fatto che le opportunità lavorative per i laureati in Italia sono molto minori del resto d’Europa: a 3 anni dalla laurea solo il 50% lavora, contro l’80% della media europea. Un risultato da ascrivere, tra le altre cose, alla brillante riforma pensionistica del governo Monti-Fornero. Per non parlare del sottoinquadramento lavorativo: un’indagine Bankitalia ha rilevato che nel periodo fra il 2009 e il 2011 un quarto cento dei giovani fra i 25 e i 34 anni ha svolto mansioni che richiedevano bassa o nessuna qualifica.
Tutto sommato però la laurea continua ad offrire opportunità maggiori rispetto al diploma: se solo la metà dei laureati lavora a 3 anni dalla laurea, per i diplomati è pure peggio, visto che solo il 30 per cento di loro lavora a 3 anni dal diploma. Inoltre, il reddito per i laureati diviene nel medio periodo maggiore di quello dei diplomati.
Il problema è che anche per chi vuole è sempre più difficile frequentare l’università. Come ricordato, la scure dell’austerità imposta dall’UE e implementata dai vari governi succedutisi negli ultimi anni si è abbattuta con particolare violenza sul sistema di formazione universitaria italiana. Gli effetti dell’austerità sono diseguali sia dal punto di vista geografico che dal punto di vista di classe. Il crollo delle iscrizioni colpisce prima di tutto le università del meridione (delle 70.000 iscrizioni in meno fra 2014 e 2015, 45.000 vengono dal solo Sud Italia) e colpisce gli studenti provenienti da famiglie meno abbienti. Sono stati infatti in maggioranza i ragazzi e le ragazze provenienti dagli istituti tecnici e professionali, che sono quelli provenienti dalle famiglie con la condizione economica peggiore, a “fuggire” dall’Università. Una situazione che peraltro comincia in precedenza nel cammino formativo, perché già la scelta delle superiori dipende dal ceto sociale: i figli di professionisti al liceo, gli altri agli istituti tecnici e professionali.
Un risultato non casuale. Il taglio dei finanziamenti alle università ha costretto gli atenei ad alzare le tasse, tant’è che ad oggi l’Italia si posiziona ai primi posti per il costo dell’istruzione di terzo livello, come certificato da uno studio della Commissione europea. Lo stesso studio evidenzia come invece l’erogazione di borse di studio sia limitata, con una progressiva riduzione dei fondi al diritto allo studio proprio durante gli anni della crisi (con una situazione peggiore, ancora una volta, per il Sud Italia). È ovvio allora che i figli della classe lavoratrice, specie quella meridionale, facciano fatica ad iscriversi all’università.
Controriforme dell’università come quella attuata dalla legge Gelmini hanno introdotto un meccanismo premiale nella concessione dei finanziamenti ai diversi atenei che ha profondamente penalizzato le università meridionali (ad esempio assegnando più fondi agli atenei che hanno meno studenti fuoricorso). Emblematico il caso dell’assegnazione dei “punti organico” (quelli, per intenderci, senza i quali le università non possono assumere docenti e ricercatori): come riportato da un articolo apparso sul sito ROARS: “quasi 700 ricercatori prelevati dagli organici delle università del Centro-Sud e trasferiti d’ufficio negli atenei del Nord-Italia nel corso di soli quattro anni”.
Il risultato, oltre alla diminuzione delle iscrizioni concentrata nel Sud Italia, è che si creano atenei di serie a e di serie b e che si incentiva un flusso di migrazioni di studenti che si spostano dal Sud al Nord per frequentare gli atenei migliori (anche se con intensità diversa a seconda delle regioni di provenienza). Flusso incentivato poi da politiche economiche che hanno innalzato il divario fra Nord e Sud anche riguardo ad altri indicatori.
Un divario che con ogni probabilità si acuirà invece che diminuire, visto che Renzi ha più volte annunciato di volersi ispirare al modello universitario statunitense, in cui convivono università per le élites e università di scarsa qualità per gli altri, auspicando (era il 2013, ma la linea è stata più volte confermata) la nascita di 5 grandi “hub per la ricerca”.
Le conseguenze di quanto delineato finora si collegano ad un ragionamento più ampio rispetto a dove si collocherà l’Italia nella struttura del capitalismo europeo. Le politiche di austerità imposte dalla UE hanno contribuito a creare una situazione di “mezzogiornificazione” dell’Europa meridionale che assegna all’Italia un ruolo basso-intermedio all’interno della divisione internazionale del lavoro. In questo senso le politiche sull’università sono assolutamente coerenti con questa posizione: in un sistema economico che punta sempre di più su tecnologie che richiedono qualifiche e competenze elevate si richiederebbero più, e non meno, laureati per mantenersi nelle posizioni alte della catena del valore. Mentre la Germania, coerentemente con il suo ruolo di paese pivot in Europa, abolisce le tasse universitarie (che comunque erano assai più basse di quelle italiane ed erano state introdotte solo nel 2007) e destina alle proprie università quasi l’1 per cento del PIL, l’Italia alza le tasse universitarie ed espelle laureati dal sistema universitario. Diminuendo il numero di laureati e semmai incrementando le competenze di una élite si va invece verso una situazione in cui, da un lato, le maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici avrà un’occupazione poco qualificata e poco pagata e dall’altro un numero ristretto andrà a costituire una classe dirigente sempre più internazionale.
2. Il mercato del (non) lavoro
Se la situazione in università è pessima, quella del lavoro è tragica. Scegliamo un titolo provocatorio perché per tantissimi nostri coetanei parlare della propria situazione lavorativa vuol dire parlare di disoccupazione. La crisi economica si è abbattuta con particolare violenza sulla componente giovanile, che ha visto aumentare il proprio tasso di disoccupazione fino a superare l’astronomica cifra del 40 per cento, per poi attestarsi al “solo” 39.1% per cento (ultimo dato ISTAT disponibile). Una cifra che sale al meridione ma anche in città “insospettabili” come Torino, dove è arrivata a toccare il 50 per cento nel corso del 2014 ed ora è comunque sopra il 44 per cento. Durante la crisi abbiamo poi tutti imparato il significato dell’acronimo NEET: sono i giovani che non studiano, non lavorano e non guardano la TV, quelli che non sono né occupati né impegnati in alcun percorso di formazione. Uno studio della “Cattolica” di Milano certifica che i giovani fra i 15 e i 29 anni in questa condizione sono due milioni e quattrocentomila e sono aumentati di 550.000 unità nel periodo della crisi, arrivando a rappresentare il 26% della propria fascia di età. In parole povere: 1 giovane su 4, un’enormità che ci porta dritti al primo posto in Europa.
Poi ci sono quelli e quelle che lavorano, ma non va loro così meglio. Grazie alle mille controriforme del lavoro (il cui punto d’arrivo attuale è il “Jobs act”), iniziate negli anni ‘90 e andate di pari passo con la costruzione dell’UE, quella giovanile è ormai per definizione una generazione precaria. Contratti di breve se non brevissima durata, con diritti risicati e licenziamento facilissimo. I dati OCSE dell’Employment Outlook del 2015 certificavano la continua crescita della percentuale di lavoratori under 25 con un contratto precario, arrivata al 56% nel 2014, con un aumento di 30 punti percentuali rispetto al 2000. Una condizione che diviene sempre più permanente, ben lungi dall’essere temporanea per “facilitare” l’ingresso nel mercato del lavoro: “solo il 55% delle persone che entrano nel mercato del lavoro cominciando con un lavoro temporaneo hanno un contratto permanente dieci anni dopo in Italia, uno dei dati più bassi nell’Ocse”. Sono invece quasi il 40% gli under 25 che mantengono il loro posto di lavoro per meno di 12 mesi, con un’incidenza particolarmente elevata tra le ragazze (43,7%).
Dicevamo del Jobs Act. I ricercatori Cirillo, Guarascio e Fana lo riassumono efficacemente in 3 punti:
l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale a ‘tempo indeterminato’, pensata per divenire la forma prevalente nel sistema italiano, che elimina ogni obbligo di reintegro del lavoratore nel caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo oggettivo (tranne nei casi di dimostrata discriminazione o di licenziamento comunicato oralmente);
l’introduzione della videosorveglianza per mezzo di dispositivi elettronici – misura che ha dato adito a forti polemiche circa la violazione della privacy e delle libertà individuali;
la completa liberalizzazione dell’uso dei contratti atipici, in particolare:
per i contratti a termine viene meno per i lavoratori il diritto all’assunzione a tempo indeterminato e al risarcimento monetario nel caso di superamento da parte dell’azienda del limite del 20% del totale dell’organico a tempo indeterminato.
aumentato il tetto al reddito percepibile tramite lavoro accessorio, incentivando di fatto l’uso dei voucher – rapporti di lavoro senza alcuna garanzia e tutela per i lavoratori – da parte delle imprese.
Se i risultati in termini di aumento dell’occupazione sono stati risibili (lo studio citato dimostra come la gran parte dell’incremento dell’occupazione nell’ultimo anno sia stato determinato da contratti a tempo determinato) quelli per il padronato sono stati ottimi, grazie ai generosi sgravi fiscali elargiti dal governo per far sì che le imprese assumessero con i nuovi contratti “permanenti” (per modo di dire). In più i “prenditori” italiani si ritrovano ad aver ancora più facilità di licenziare, liberatisi finalmente di orpelli novecenteschi come l’articolo 18. Un risultato niente male, in attesa della prossima riforma, quella sul “lavoro agile” che promette di eliminare altri orpelli, come il contratto nazionale.
C’è poi da considerare il fatto, evidenziato da Cirillo, Guarascio e Fana, che il Jobs Act ha favorito uno spostamento occupazionale “verso il settore dei servizi a scarso contenuto tecnologico (magazzinaggio, ristorazione e turismo), senza nessun incremento occupazionale nell’industria”. L’ennesimo scivolamento verso il basso nella catena del valore transazionale
Fallimentare anche il programma Garanzia Giovani, lanciato dal governo Letta (e poi preso in carico dal governo Renzi) per risolvere il problema dei NEET under 30. Un rapporto dell’ISFOL (ente che peraltro dipende dal Ministero del Lavoro) certifica che, a fronte del milione di giovani che speranzosamente s’è iscritto al programma, solo 32 mila hanno trovato un lavoro vero e proprio. A leggere i numeri si capiscono meglio le dimensioni del flop: degli 865 mila giovani che a Marzo si risultavano iscritti al programma, più di 200 mila non sono semplicemente stati presi in carico dai locali centri per l’impiego. I giovani presi in carico (ossia a cui è stato offerto un semplice colloquio) sono stati 642 mila. Quelli per cui è seguita una misura concreta però sono ancora meno: circa 227 mila. Fra questi troviamo i 32 mila vincitori della lotteria cui è stato offerto un posto di lavoro, poi un gran numero di persone che hanno svolto tirocini (138 mila) o corsi di formazione (52 mila), oltre a 5 mila giovani che hanno svolto il servizio civile. La morale della favola è che ciascun nuovo contratto di lavoro è costato 36 mila euro: un’enormità. L’ennesima boccata d’ossigeno per il capitalismo straccione all’italiana, che è riuscito ad intascarsi altri fondi.
C’è poi chi lavora ma un contratto non ce l’ha. Il lavoro nero è riemerso come problema questa estate dopo le morti per fatica nelle campagne del sud Italia, ma è un fenomeno italiano di lunghissimo corso. I dati disponibili sul sito ISTAT (che purtroppo arrivano solo fino al 2010, e quindi non ci danno informazioni complete sull’impatto della crisi) stimano in 2.959.000 le unità di lavoro irregolari totali nel 2010. Un dato in diminuzione rispetto ai primi anni duemila ma comunque assai elevato. Il peso delle unità di lavoro irregolari sul totale delle attività (regolari e non) è del 12.3 per cento. Sempre l’ISTAT certifica che tassi più alti di incidenza del lavoro nero possono essere trovati fra le donne, i cittadini stranieri e i giovani. I settori più colpiti dal fenomeno sono l’agricoltura, le costruzioni, gli hotel e i ristoranti e il lavoro domestico.
Un risultato facilitato anche da invenzioni come i voucher, che erano nati per far emergere il lavoro nero ma che rischiano invece di essere la foglia di fico in presenza di controlli dell’ispettorato del lavoro: in pratica ti pago un’ora con il voucher e così facendo mi metto “in regola”, il resto in contanti.
Proprio l’utilizzo dei voucher è letteralmente esploso durante la crisi: se nel 2008 erano 24.437 i lavoratori che avevano ricevuto almeno una volta un voucher come forma di pagamento, quest’anno il numero è arrivato ad 1 milione e quattrocentomila persone. Il timore è che i buoni, nati con l’idea di remunerare prestazioni occasionali non assimilabili a veri e propri rapporti di lavoro, stiano pian piano divenendo la forma contrattuale del precariato, andando a sostituire alcuni tipi di contratti (come quelli a chiamata o quelli part-time) che offrivano alcune (seppur poche) garanzie in più. Eh sì, perché il pagamento a voucher non garantisce diritti alla malattia o ferie, e offre un pagamento di contributi previdenziali così basso che perfino il presidente dell’INPS Boeri si è detto preoccupato per le possibili ripercussioni sui futuri pensionati. Sempre ammesso che una pensione ce l’avranno, ovviamente.
C’è infine chi lavora ma non viene nemmeno pagato. Il tema del lavoro gratuito è emerso prepotentemente durante il periodo dell’EXPO 2015 a Milano, dove un esercito di volontari ha lavorato per ore gratis ricevendo in cambio solo una riga da aggiungere al curriculum, con la complicità dei sindacati confederali.
Ma il tema del lavoro gratis non si limita ad EXPO: è una realtà per moltissimi settori come l’accademia o l’editoria, dove “si fa gavetta” (naturalmente gratis) aspettando di emergere. Ci sono poi i tirocini formativi all’interno dei percorsi universitari (che non necessitano di essere pagati) e c’è l’alternanza scuola-lavoro introdotta dall’ultima riforma della scuola targata Renzi.
Un vero e proprio capolavoro per il capitale italiano: dopo aver creato a colpi di riforme un contesto lavorativo disastroso si portano i nuovi lavoratori ad accettare di lavorare gratis con la speranza di ottenere in un futuro nebuloso un lavoro, qualsiasi, pagato.
La tentazione potrebbe essere allora di lanciarsi nell’auto-imprenditoria e aprire una start-up. Purtroppo la realtà va oltre gli slogan e la propaganda al riguardo. Qualche tempo fa scrivevamo :
“Mentre il premier continua a parlare di ripresa, manipolando i dati in una maniera così banale da non risultare evidente solo ai gonzi e ai pennivendoli dei giornali filogovernativi, gli ideologi hanno trovato un nuovo velo di Maya col quale stordirci e nascondere la realtà: l’invito all’imprenditorialità, che oggi subisce un restyling sotto il titolo Start Up! Eppure dall’inizio della crisi nel 2008 sono fallite in Italia 82.000 imprese con la perdita di 1 milione di posti di lavoro. E’ quanto emerge dai dati raccolti dal Cerved che calcola nel 2015 un picco di fallimenti, oltre 15.000. Con le procedure concorsuali non fallimentari e le liquidazione volontarie il dato sale a 104.000 l’anno scorso. E le start up, potranno risollevare le sorti di questo mercato? Ogni risposta ai seguenti dati (da uno studio di CB Insights): dopo il primo round di finanziamento, il 54% ottengono un secondo round; il 9% delle società ottiene almeno 5 round di finanziamenti; il 75% delle start up fallisce e sono lasciate morire; il 21% ottengono un exit attraverso una vendita o fusione (non sempre remunerativa). E il rimanente 4%? Beh, parliamo delle vere “rising star”.
L’analisi della situazione del mercato del (non) lavoro italiano ci mostra una situazione coerente con quanto sta accadendo in università. Come scrivevamo nella nostra analisi delle ragioni per opporsi all’EXPO: “la divisione internazionale del lavoro assegna oggi al Sud del Mediterraneo la possibilità di accaparrarsi uno spazio nella competizione globale giocata nella cornice imposta dalle istituzioni comunitarie solo se saprà specializzarsi nella produzione di merci a basso valore aggiunto, da esportare, e per i quali è strutturalmente necessario un contorno di vasta manodopera dei servizi sempre più precaria e non particolarmente istruita, aldilà dei pochi destinati a rafforzare le fila dei “possessori di know-how avanzato”.
3. L’emigrazione italiana
Data la desolante situazione sia del mercato del lavoro che dell’istruzione in Italia, sempre più persone scelgono la via dell’emigrazione. I dati in questo senso sono chiarissimi, e appare evidente che la situazione sta progressivamente aggravandosi. Nel complesso, negli ultimi dieci anni il numero di persone iscritte all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) è aumentato del 49%, e questo è un dato riduttivo, dato che non tutti coloro che lasciano il paese si iscrivono a questa anagrafe. Dall’inizio della crisi (2008) l’Italia ha subito un deflusso netto (inteso come differenza fra i cittadini italiani che si trasferiscono all’estero e quelli che ritornano in Italia) di quasi 150.000 persone, ma solo nel 2013 (anno per il quale esistono dati aggiornati) questo deflusso è stato di 54.000 persone (un aumento del 40% rispetto al 2012). Sottolineiamo ancora una volta, questi dati con tutta probabilità sottovalutano il fenomeno reale: comparando i dati italiani con quelli dei paesi di arrivo, ad esempio, si trovano spesso delle incongruenze. I dati degli ultimi due anni non sono ancora disponibili, ma dato che le ragioni strutturali che sono causa di questo processo non si sono affatto modificate, non c’è ragione di pensare che la situazione stia migliorando.
Non è la prima volta che in Italia si osservano migrazioni di massa: si individuano due grandi cicli di migrazione precedenti, uno tra il 1870 e il 1920, ed uno tra il 1946 e il 1973. La causa principale per emigrare rimane la stessa: la mancanza di lavoro. Tuttavia ci sono sostanziali differenze con le precedenti migrazioni. Per prima cosa, il più alto livello di scolarizzazione di chi parte: il 31% dei nuovi emigranti possiede una laurea, una percentuale estremamente maggiore rispetto ai casi precedenti. E’ importante notare che i laureati sono il 22.4% della popolazione italiana, quindi si trovano sovra-rappresentati tra gli emigranti. Inoltre è un valore in aumento: nel 2011 solo l’11% degli emigranti era laureato. Allo stesso tempo non bisogna dare per scontato, come vedremo meglio dopo, che i lavoratori “qualificati” vadano a fare lavori “qualificati”. In seconda istanza, aumenta il numero di emigranti provenienti dalle regioni del nord. Sebbene la percentuale di emigranti dal sud rimanga leggermente al di sopra della metà (54%), negli ultimi 10 anni le regioni che hanno visto un maggior aumento delle partenze verso l’estero sono quasi tutte settentrionali: Piemonte (+71%), Liguria (+66,8%), Lombardia (+66,3%). Questo a controprova che in Italia, oltre ad una “questione meridionale” esiste e si sente anche una preoccupante “questione settentrionale”, che vede il modello basato sulla piccola e medio-impresa e sulla produzione di semilavorati a basso valore aggiunto non reggere l’impatto della competizione internazionale e soprattutto della crisi economica. Altro elemento di novità è l’alto numero di donne emigranti, che sebbene non siano ancora la maggioranza (43%) sono presenti in percentuale estremamente più elevate rispetto al passato (quando erano rappresentate con un 20-30%). Un’ultima, sostanziale differenza sono le prospettive di chi parte: l’emigrazione degli anni 50-60 era sostanzialmente finalizzata al ritorno in patria, e infatti il 90% di chi è emigrato in quel periodo è tornato nella regione d’origine. Oggi la disillusione nei confronti di una ripresa è molto maggiore: tra gli intervistati da AlmaLaurea (quindi laureati emigranti) solo l’11% reputa probabile tornare in Italia nei prossimi 5 anni, e nessuno lo da come una certezza. In analogia con le emigrazioni passate abbiamo una prevalenza dei giovani tra gli emigranti, ma non con percentuali schiaccianti: sono infatti il 59% gli emigranti tra i 18 e i 34 anni, una percentuale che comunque sta crescendo. È inoltre in aumento il numero di anziani che, non potendo permettersi una vita dignitosa in Italia con la pensione percepita, si trasferiscono in un paese più economico.
Abbiamo quindi una emigrazione che veramente si può definire di “massa”: vanno via tutti, dai giovani agli anziani, dai lavoratori non qualificati a quelli qualificati, da chi va a studiare all’estero a chi scappa dalla disoccupazione. Ma dove vanno, e che situazione trovano una volta che arrivano?
La maggior parte di chi parte rimane in Europa. Nel 2014 è stata la Germania la meta più quotata, con 14.270 trasferiti, a seguire il Regno Unito (13.425), la Svizzera (11.092) e la Francia (9.020).
Anche limitandoci a coloro che si trasferiscono all’estero per studiare vediamo che la maggior parte decide di restare nel Vecchio Continente, e addirittura quasi il 70% del totale studia nell’Europa del Nord (intesa come Germania e satelliti, Francia, UK e Scandinavia).
La situazione trovata da chi cerca lavoro all’estero non può sicuramente dirsi rosea. Se in molti casi comunque ci si trova di fronte ad un miglioramento, data la tragica situazione dell’occupazione in Italia, non dimentichiamoci che tutti i paesi dell’Unione Europea sono ancora, in un modo o nell’altro, impantanati nella crisi, e che le situazioni per i lavoratori immigrati sono sempre peggiori che per i locali. Delle migliaia di italiani che vanno a studiare a Londra (o a studiare e quindi a lavorare per potersi permettere le costosissime tasse universitarie) la maggior parte si trova a fare lavori poco qualificati, spesso pagati al salario minimo. Molti dei giovani “creativi” che si sono trasferiti a Berlino attirati dalla facile accessibilità ai mercati dell’arte e del design non finiscono in realtà a fare il lavoro per cui sono partiti, e campano con qualche lavoretto o con il sussidio di disoccupazione. In Svizzera la percentuale di italiani che occupa posizioni di dirigenti o quadri è significativamente inferiore a quella di tedeschi o francesi con la stessa qualifica (25% contro 38%). Se in generale si può dire che i laureati italiani all’estero guadagnano, a cinque anni dalla laurea, uno stipendio mensile medio decisamente superiore che in Italia (2.146 contro 1.298 euro) bisogna tenere conto anche del diverso costo della vita nei paesi di destinazione, cosa che riduce significativamente questa differenza. Alcuni studi mostrano addirittura un risultato paradossale: le rimesse degli emigrati alla famiglia non sono particolarmente consistenti, anzi esiste un flusso di “rimesse alla rovescia”, ovvero le famiglie che sostengono il tentativo dei figli di “far fortuna” all’estero.
Ricapitolando, abbiamo quindi visto come vi sia un massiccio trasferimento di persone dall’Italia (ma in realtà da tutti i paesi mediterranei) verso i paesi del Centro-Nord. Il centro produttivo dell’Unione Europea trae vantaggio da questa situazione in due modi: da un lato ha a disposizione una forza lavoro non qualificata, meno integrata nella struttura sociale e quindi più ricattabile, abituata a salari decisamente inferiori (il tradizionale vantaggio che il capitalismo trae dall’immigrazione); dall’altro assorbe una parte significativa delle “menti migliori” prodotte dal sistema educativo italiano, in un fenomeno che denominiamo “furto di cervelli” (piuttosto che “fuga dei cervelli”). Se infatti, come abbiamo visto, non tutti trovano un lavoro all’altezza delle loro qualifiche, c’è una piccola parte che, per merito o per privilegio, viene ammessa a pieno titolo nella classe dirigente europea. È significativo che dai dati di Alma Laurea risulti che a partire siano in particolare gli studenti migliori, in termini di voti e regolarità dello studi. Per quanto riguarda gli studenti che decidono di fare un dottorato, la situazione è angosciante. A causa anche di una significativa pressione ideologica (ma non solo), la stragrande maggioranza degli intervistati ritiene che sarebbe meglio effettuare il programma di dottorato all’estero (81% per le Scienze di Base, 78% per ingegneria, 72% pere le Scienze Umane, 58% per le Scienze Economico-Giuridiche). Anche tra i ricercatori la situazione è tragica: l’Italia “esporta” 30.000 ricercatori all’anno e ne “importa” solo 3.000. Importante notare che la maggior parte dei dottori che lavorano all’estero ad un anno dal titolo sono uomini e provengono dai contesti sociali più abbienti.
Non siamo gli unici a preoccuparci di questa emorragia di persone che non accenna a fermarsi. Anche la stampa e gli istituti di ricerca borghesi commentano preoccupati l’enorme deflusso di risorse a favore degli altri paesi. L’ottica che viene assunta da questi interventi è solitamente quella della perdita di “capitale umano”, triste espressione in cui la formazione di una persona viene monetizzata attraverso il calcolo dei costi che sono stati necessari per fornirgli tale educazione. Secondo questa deplorevole logica (la stessa per cui anche la salute o il diritto ad una vecchiaia di qualcuno sono considerati solo come costi in un bilancio) sarebbero quasi 23 i miliardi che l’Italia ha perso nei confronti dell’estero dall’inizio della crisi (2008). Sempre all’interno dell’ottica padronale, troviamo ogni tanto la questione affrontata attraverso le lenti del più becero nazionalismo, in cui in questo processo le principali vittime sono le “radici della patria”.
Questo non è assolutamente il punto di vista che abbiamo intenzione di adottare. Secondo noi infatti non è possibile analizzare i processi di aggiustamento macro-regionale (come va considerato un trasferimento di persone di questa portata) senza considerare allo stesso tempo i processi di ristrutturazione del sistema produttivo e sociale che vengono portati avanti all’interno dei singoli paesi. Non possiamo infatti prescindere dall’analisi di classe, e in particolare delle ridefinizioni dei rapporti di forza tra le classi in atto nei paesi membri della UE. Ormai i programmi di qualsiasi partito “istituzionale” sostanzialmente coincidono nell’imporre tutta una serie di controriforme antipopolari mirate a smantellare quello che si era guadagnato con le lotte nei cinquanta anni passati. Questi processi sono spesso più violenti in quell’area dell’Unione Europea a cui è stato assegnato il ruolo di colonia interna (area mediterranea), ma sono presenti anche nei paesi del Centro. Non dimentichiamo che pochi anni fa le già alte rette universitarie inglesi sono state triplicate in un colpo solo (da 3.000 a 9.000 sterline di media!), e che la Germania è anche la terra degli otto milioni di mini-jobs. Nel capitalismo, d’altronde, il successo di un paese è sempre sulle spalle di qualcuno, spesso proprio la classe lavoratrice locale.
La situazione in Italia è quella che abbiamo già illustrato prima: un mercato del lavoro precarizzato, una proletarizzazione crescente nella società, un sistema formativo che punta alla creazione di un’élite sempre più qualificata escludendo una fetta sempre maggiore della popolazione
Vi sono quindi due dimensioni da considerare allo stesso tempo: una che possiamo dire avere risvolti “geografici”, uno spostamento fisico di persone; ed una “interna” in cui sempre più persone sono escluse dalle ricchezze prodotte dal sistema, più direttamente classista. Ovviamente le due dimensioni sono in rapporto dialettico fra loro e sono entrambe funzionali e legate alla formazione dell’UE come un polo imperialistico compiuto.
È importante notare la presenza delle due dimensioni, in quanto il cercare di cogliere entrambe è quello che ci differenzia, da un lato, dalla maggior parte dei movimenti di sinistra in Italia (studenteschi o di lavoratori) che colgono l’aumento delle diseguaglianze e della precarizzazione ma non si interessano degli aggiustamenti macro-regionali, e dall’altro dal fascioleghismo alla Salvini, che arriva al massimo ad uno scontro tra stati nazionali, in cui la cattiva Germania ci ruba i giovani.
L’ideologia borghese si è sempre fondata su una idealizzazione del merito, una selezione darwiniana dei migliori. Come marxisti sappiamo che questo è un velo per nascondere la necessità strutturale dello sfruttamento da parte del capitale della maggior parte della popolazione, ma è innegabile che processi di selezione avvengano, e siano parte fondante della costituzione, per l’appartenenza alla classe dirigente. Osserviamo adesso un processo di selezione regionale in cui le “menti” si spostano al nord e che si specchia in un processo di selezione nazionale in cui sempre più persone sono espulse dalla possibilità di un lavoro soddisfacente e dignitoso.
È interessante notare come un processo simile a questo, finora analizzato per la classe lavoratrice, avvenga anche all’interno della controparte, nella classe dirigente. Abbiamo quindi, attraverso la crisi ma anche a causa di ponderate politiche economiche, un disfacimento del telaio produttivo dei paesi mediterranei, e acquisizioni massicce (dirette o di mercati) da parte dei capitali del nord. Allo stesso tempo abbiamo il tentativo anche nei paesi mediterranei della creazione di una “borghesia europea”, che sappia reggere la competizione internazionale ed integrata nello spazio europeo.
Questo non deve stupire, trovandoci noi schiacciati negli ingranaggi della costruzione di un polo imperialistico che, casomai andasse a buon fine, dovrà produrre una classe dirigente europea, un capitale europeo, una massa proletaria europea da muovere dove conviene. Attenzione che questo non significa assolutamente che in questo ipotetico super-stato europeo non permarranno differenze regionali significative, come l’esempio del Meridione all’interno dello stato Italiano sta a dimostrare.
È per queste ragioni che la nostra risposta al fenomeno di emigrazione di massa non è solamente, ovviamente, Noi Restiamo, ma un Noi Restiamo e Resistiamo. Noi Restiamo e lottiamo insieme ai movimenti sociali e politici di classe con cui abbiamo relazione contro tutti questi processi anti-popolari. Noi Restiamo e studiamo, cerchiamo di capire dove siamo e dove stiamo andando, sempre insieme alle realtà politiche e intellettuali con cui condividiamo il punto di vista. Noi Restiamo e costruiamo, costruiamo un’ideologia ed un paradigma culturale che sia alternativo a quello che ci viene presentato quotidianamente, che sappia mostrare e svelare che questo non è l’unico mondo possibile e che lottando insieme possiamo cambiare le cose.