Mini-Naja: educazione militare d’élite per tempi di guerra
Il 27 marzo la camera ha approvato quasi all’unanimità la proposta di legge sulla cosiddetta “mini naja”, un percorso formativo in ambito militare, volontario e non retribuito, della durata di sei mesi per i giovani diplomati di età compresa tra i 19 e i 22 anni.
Crediamo sia importante inquadrare correttamente questo provvedimento, sia come anticorpo contro lo schiacciamento del dibattito su posizioni campiste del tipo “guerrafondai vs pacifisti”, sia come stimolo per una riflessione più generale sulle tendenze in atto rispetto a temi come la guerra, la competizione globale e la formazione.
Iniziamo col dire che nonostante si parli di “Mini-Naja” questa non centra nulla con la Naja “originale” e quindi non si tratta della reintroduzione del servizio militare obbligatorio – come auspicato pubblicamente da Salvini quest’estate – ma di uno strumento di carattere ideologico integrato all’interno del percorso formativo per adeguare le classi dirigenti di domani al clima di competizione globale sempre più incalzante. Infatti il carattere volontario e non remunerato, il numero limitato di posti disponibili, la tipologia d’insegnamenti previsti durante i sei mesi del progetto sono elementi che già da soli delineano un target diverso da quello che si cercava ai tempi in cui l’esercito era una forza che si costruiva attraverso la massa. “I nostri militari sono e debbono essere dei professionisti” ha tuonato il ministro della Difesa Elisabetta Trenta in risposta alle dichiarazioni estive di Salvini definendole “romantiche ma non più al passo con i tempi”.
Il nodo di fondo per comprendere questo nuovo provvedimento sta proprio in questa dichiarazione. Nella narrazione comune piace a tutti pensare che l’abolizione della leva obbligatoria sia stata una conquista dei movimenti antimilitaristi, la realtà dei fatti è che (come accaduto nel mondo del lavoro) abbiamo assistito ad un superamento della dimensione di massa dell’esercito – in cui tra l’altro si inserivano mobilitazioni pacifiste o fenomeni come quelli dei “Proletari In Divisa” – dovuto sia all’innovazione tecnologica sempre più sofisticata che espelle la quantità e punta tutto sulla qualità, sia a un generale riassetto delle funzioni e quindi della composizione delle forze armate in seguito al cambiamento epocale rappresentato dalla caduta del muro di Berlino.
Ma non è oggi importante solo formare nuovi quadri in ambito prettamente militare, quanto esportare la logica militare anche in campo politico ed economico poiché è fondamentale far comprendere che l’affermazione politica ed economica del proprio mercato si lega sempre di più alla capacità di affermazione militare. Questo concezione deve diventare paradigma riconosciuto e metabolizzato durante i processi di formazione della classe dirigente di domani.
Non a caso leggendo il testo della legge scopriamo che l’addestramento durante il percorso oltre a contenere una formazione di tipo ideologico, tecnico e diplomatico – come ad esempio simulazioni di attacchi cibernetici, viaggi di studio, conoscenza dell’organizzazione e della vita delle forze armate e della NATO, apprendimento in tema di cooperazione nell’ambito della difesa europea (Pesco) – prevede anche “Incontri con diverse realtà economico-sociali del paese utili a fini di conoscenza delle diverse articolazioni del sistema produttivo nazionale”.
Bisogna anche sottolineare che non siamo di fronte a un atto inedito, data la già attuale integrazione nel sistema formativo – principalmente universitario – di esperienze in ambito di guerra. Come sempre più spesso avviene all’interno di corsi di laurea in cui l’intreccio tra i programmi di studio e la formazione militare è reale prassi da diversi anni (Leggi).
Un elemento in più che evidenzia la torsione autoritaria che vive – senza troppe resistenze – il mondo della formazione seguendo il comando delle direttive volute dall’Unione Europea.
Infine se pensiamo che questa legge sia stata approvata anche con i voti del Partito Democratico non possiamo che riconfermare che il principale partito che si propone come opposizione di sinistra in questo paese è un protagonista cosciente dell’attacco ideologico allo sviluppo democratico e progressista della società. Dunque non solo semplice “avversario” che sostiene le logiche di mercato ma “nemico” con il quale è impossibile anche solo pensare di condividere alcun tipo di spazio sopratutto sul piano dell’antifascismo e dunque della lotta contro ogni tipo di oppressione.