Fioramonti, Azzolina e Manfredi. Un gioco che sta alle regole del disegno europeo su scuola e università.
Con una tempistica da record abbiamo assistito in questi ultimi giorni alle dimissioni (largamente annunciate) di Fioramonti e alla risposta del governo, con lo spacchettamento del ministero in Scuola e Università, mettendo a capo rispettivamente Lucia Azzolina e Gaetano Manfredi.
Manfredi è nome noto in ambito accademico, presidente della CRUI dal 2015, grande sostenitore dei valori della competizione, dell’eccellenza e della concorrenza tra atenei. Azzolina, già sottosegretaria all’Istruzione, è un chiaro segnale di continuità delle politiche che da decenni stanno stravolgendo l’istruzione pubblica in questo paese, basti pensare al recente sostegno per la simulazione dell’attività imprenditoriale tra i banchi di scuola permessa dal «sillabo per l’educazione all’imprenditorialità», lo stesso portato ideologico che ha generato – per ultima – la riforma della “buona scuola” targata Renzi.
La direzione confermata e mai messa in discussione rimane dunque la stessa, lo stesso Fioramonti d’altronde oltre a parlare di fondi non ha mai posto a critica radicale le scelte dei governi precedenti.
È importante allora precisare alcune questioni che non possono essere ignorate per analizzare correttamente l’evoluzione dell’università e del mondo della formazione nel suo complesso in questi ultimi anni.
Nel nostro paese abbiamo visto come le riforme che hanno investito il mondo della formazione, e quella universitaria in modo particolare, negli ultimi trent’anni si sono incastrate perfettamente a formare un puzzle comune (non ancora terminato), indipendentemente dai governi di centro-destra o centro-sinistra che le hanno varate. Questo puzzle è quello disegnato dall’Unione Europea che da decenni ha individuato nella formazione, in particolare quella universitaria, e nella ricerca un settore strategico per il suo sviluppo e per ritagliarsi uno spazio sempre maggiore all’interno della crescente competizione globale. La direzione verso cui si muove il progetto europeo è quella di un’università che sappia essere funzionale alle mutevoli necessità del capitale e che sia strumento utile al processo di integrazione europea basato su un modello di polarizzazione centro-periferia.
In Italia questa necessità europea di trasformazione del sistema universitario è proceduta grazie al solito “pilota automatico” (per usare un’espressione cara a Mario Draghi che però ben rappresenta la situazione) che ha guidato tutte quelle riforme della “controrivoluzione” che hanno progressivamente distrutto le conquiste in termini di stato sociale per cui intere generazioni avevano lottato.
Dall’autonomia degli atenei, all’istituzione del cosiddetto sistema “3+2” e di criteri quantitativi per la valutazione della didattica e della ricerca con i CFU e la creazione dell’ANVUR; passando poi per la riduzione dei finanziamenti pubblici agli atenei, l’istituzione di quote premiali e la possibilità di reperimento dei fondi necessari da soggetti privati aumentandone progressivamente il potere decisionale e di indirizzo.
Tutto ciò ha determinato oggi un sistema elitario e classista basato sulla competizione sfrenata fra studenti così come fra atenei provocando, non solo al livello continentale ma anche nazionale, quell’evidente processo di polarizzazione fra atenei di serie A e di serie B, a seconda del grado di integrazione con il tessuto produttivo circostante e della posizione che questo occupa all’interno della catena della produzione globale del valore. Più in generale, in Italia, come in tutta l’UE, le università sono oggi private del loro ruolo che tradizionalmente hanno ricoperto, trasformate invece in luoghi di riproduzione dell’ideologia dominante e con lo scopo di formare i lavoratori secondo le precise esigenze del mercato.
Fioramonti, dimessosi pochi giorni fa ”per amore dell’istruzione”, nel suo j’accuse ha denunciato solamente una generica mancanza di fondi stanziati per l’istruzione. Eppure l’FFO stanziato per il prossimo anno è tornato ai livelli del 2008 e sulla scuola secondaria sono stanziati due miliardi. Lungi da noi tessere le lodi di questo governo, stiamo soltanto riportando dei dati per mostrare quanto sia insufficiente e strumentale la critica dell’ex ministro. Perché se da un lato ha ragione a denunciare la mancanza strutturale di fondi verso l’istruzione (l’italia spende il 3.6% del PIL contro una media OCSE del 5%), dall’altro tace completamente sul modo in cui i soldi vengono spesi. Non una parola sul modello che negli ultimi decenni si è voluto dare al mondo della formazione, sul modello secondo il quale sono ripartiti i fondi stanziati e quali sono gli obiettivi che si vanno a perseguire. Chiedere genericamente più fondi senza mettere in discussione il modello di funzionamento significa solo andare a dare ulteriore linfa ad un modello sbagliato che produce disuguaglianze.
Fioramonti non ha mosso queste critiche perché queste critiche non gli appartengono, perché al di là delle parole il suo modello ideale è perfettamente compatibile con quello in essere e lo ha dimostrato, sul fronte dell’istruzione secondaria, accettando senza fiatare l’imposizione del PD sui test Invalsi e l’alternanza scuola-lavoro come requisiti di accesso agli esami di maturità.
Il rapido susseguirsi degli eventi sembra poi confermare quanto abbiamo già detto: queste dimissioni e lo sbandieramento del delicato tema dei finanziamenti all’istruzione, più che un atto di coraggio e di coerenza sembrano una calcolata manovra politica anche in vista di una possibile crisi di governo.
Infatti i nodi politici che potrebbero mettere a dura prova questo governo, sempre sull’orlo della crisi, non mancano: dalle imminenti elezioni in Emilia-Romagna e Calabria al referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari, solo per citare due fra i temi più scottanti. Inoltre, i frequenti contatti di queste ore con i delusi del M5S, ma anche con LeU, oltre al fermento che le sue dimissioni e dichiarazioni hanno provocato in alcuni ambienti della sinistra – più o meno istituzionale – ci fanno pensare che presto assisteremo di nuovo al tentativo di ricompattarsi di tutto quel mondo compatibilista a sinistra del PD, che non ha nessuna intenzione di criticare e modificare gli assetti politici e economici dominanti.
Il mondo della formazione oggi è un terreno di battaglia politica e ideologica di primaria importanza. Come organizzazione giovanile pensiamo sia necessario portare avanti questa battaglia in un settore che è strategico per il nostro nemico di classe e dove possiamo agire sulla nostra generazione, fra le principali vittime della ristrutturazione che sta avvenendo al livello continentale. Per questo riteniamo che sia cruciale analizzare correttamente e secondo una prospettiva di classe il quadro generale entro cui si inserisce il mondo della formazione e, scendendo nel particolare, ciò che si muove nel nostro paese intorno a questi temi. Non possiamo gioire per le parole di chi fino a ieri si rendeva complice di questo sistema e oggi ne denuncia – parzialmente – le storture per il proprio tornaconto personale. Non possiamo aspettarci niente di buono da chi rappresentava e continuerà a rappresentare interessi perfettamente integrati nell’attuale assetto di potere. Il cambiamento necessario potrà arrivare soltanto dall’analisi concreta della condizione generale e dalla presa di coscienza della necessità di un cambiamento radicale di paradigma.