Restare per lottare! Un contributo dal sud
Introduzione
Siamo i giovanissimi, i meno giovani, studenti, precari, quelli del lavoro sommerso, gli sfruttati, quelli dei contratti fasulli o degli stage, quelli che devono accumulare esperienza, quelli che addirittura sono costretti ad emigrare, o che vengono etichettati come neet, perché a volte anche occupazioni disagianti e spregianti di qualsiasi dignità sono complicate da trovare a casa propria. Casa propria, soggetta ad uno spopolamento lacerante, quel profondo Sud dell’Europa che strutturalmente si è deciso di mettere in ginocchio affinché possa diventare sempre più sacca di manodopera a basso costo ricattabile, disposta a spostarsi in ogni dove all’interno del polo imperialista-ordoliberista dell’UE, che come unico obiettivo ha quello di competere con altri poli nel quadro geopolitico mondiale, passando su tutti quelli che sono i diritti sociali e camuffandosi dietro l’immagine di paladina dei diritti civili, quando invece sostiene e appoggia i peggiori crimini nei confronti dell’umanità in corso.
Vittime di tutto questo, giovani, anche specializzati, scelgono di partire alla ricerca dell’illusione di una prospettiva, o di restare in una spietata lotta alla sopravvivenza in un contesto svuotato da qualsiasi opportunità, contesto in cui se soccombi la colpa è tua, e soltanto tua, perché non sei abbastanza smart, perché non sei abbastanza imprenditore di te stesso.
Il principio base di questo sistema è la competizione a tutti i livelli, tra individui, territori, comuni, province, regioni, Stati, tanto da generare aree sottosviluppate, di serie B, e di conseguenza cittadini di serie B, in tutti i settori. Fondamentale è il concetto di autonomia nelle dinamiche economiche per incentivare la competizione e la corsa di chi è già un passo avanti, lasciando sempre più indietro chi è partito svantaggiato. Autonomia che favorisce ancora di più il settore privato che scavalca il pubblico, il quale è addirittura completamente al servizio del privato; non a caso in Italia stiamo assistendo alle battaglie, sia da destra che da sinistra (a dimostrazione che abbiamo un solo unico partito liberista di cui tutti fanno parte), per i decreti di autonomia differenziata, da parte di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, che sono le regioni maggiormente sviluppate dell’Italia e che vorrebbero avvicinarsi al carrozzone franco-tedesco.
Potremmo quindi avere conseguenze ancora peggiori di quelle generate dalle politiche dell’Unione Europea di questi anni, che in particolare dopo la crisi del 2008 ha imposto l’austerità come unica strada percorribile per gli Stati membri: basti pensare alla Grecia, condotta alla completa macelleria sociale.
In tal senso, a causa dell’aumento della durata media della vita, l’Italia è diventato uno tra i paesi più “vecchi” d’Europa il che ha comportato, annualmente, un aumento delle persone che entrano in età pensionabile. L’aumento della spesa pubblica nei settori assistenzialistici ha comportato, e comporta tuttora, una riduzione della stessa negli altri settori come quello dell’istruzione o della sanità e, per via dei vari vincoli derivanti dai Trattati europei diviene impossibile fare degli investimenti in tali settori che anzi vengono sempre più frequentemente sacrificati: accordi come il Patto di Stabilità e lo stesso Trattato di Maastricht rendono in tal senso necessarie politiche di austerità e di privatizzazioni.
Dunque, da un lato il nostro paese diventa sempre più vecchio e necessita di essenziali programmi, dall’altro le politiche neoliberiste non permettono di attuare politiche espansive facendo sì che buona parte della spesa pubblica debba andare per le policy sopra enunciate, creando una spaccatura incolmabile tra la parte anziana della popolazione e la parte giovane che non ha gli strumenti adeguati per crearsi un futuro socio-economico e che quindi trova nell’emigrazione l’unico sbocco formativo ed occupazionale possibile.
Strategico in tutto questo quadro è il mondo dell’istruzione e della ricerca. Il mercato ha completamente piegato il mondo dell’istruzione e della ricerca alle sue esigenze, attraverso la richiesta di competenze che si rifanno al solo tessuto industriale e tecnologico dei territori entro cui opera. Vediamo anche negli atenei, la cui ricerca è ormai diventata settore sviluppo delle aziende, come sia stata imposta la dinamica competitiva che calpesta completamente il diritto allo studio. In questa situazione è facile immaginare, come i territori del Sud Italia, scarni di tessuto industriale, vedano i propri atenei ancor di più martoriati. Seguendo quanto detto, in questo periodo di emergenza dettata dal Covid-19, ci preme precisare alcune cose rispetto alla sanità, ed in particolare rispetto alla sanità del Sud.
Il Sistema Sanitario Nazionale e le conseguenze dell’austerità
Partendo dalla base, è necessario spiegare a grandi linee l’organizzazione del SSN e del rapporto Stato-Regioni-Asl per poter stilare un’analisi il quanto più completa e dettagliata. Tra le varie riforme susseguitesi, lo Stato ha il compito di predisporre un Piano Sanitario Nazionale, un piano triennale dove stabilire gli obiettivi sanitari, i Livelli Essenziali di Assistenza che devono essere erogati universalmente e gratuitamente e le risorse finanziarie destinate al SSN per garantire questi ultimi. Dopodiché la Regione deve convertire questo piano su base regionale, tenendo conto delle caratteristiche territoriali, permettendo il pagamento delle prestazioni sanitarie erogate dalle Aziende Ospedaliere e versando una quota capitaria alle ASL, il cui compito è quello di garantire i distretti sanitari di base, la medicina preventiva e i presidi ospedalieri non organizzati in aziende.
Se da un lato questo dovrebbe garantire sia uno standard statale elevato di prestazioni sanitarie, sia un “adattamento” di questi alle esigenze territoriali, la riforma del titolo V avvenuta nel 2001 ha messo in discussione questo equilibrio. Delegando sempre più ai territori la gestione sanitaria, si è persa del tutto la complementarietà Stato-Regione, creando da un lato 21 sanità diverse e concorrenti tra loro, dall’altro uno Stato che può intervenire nella malagestione con soli Piani di Rientro, limitando la spesa sanitaria su un piano prettamente economico (gestito dal Ministero dell’Economia e non da quello della Salute) senza garantire a tutti i cittadini una prestazione sanitaria di qualità elevata.
Analizzando i dati fornitici dalla Corte dei Conti in merito a questo controllo finanziario, il quadro che si è delineato negli ultimi anni è a dir poco sconcertante. Dal 2009 infatti gli investimenti fatti in sanità pubblica sono notevolmente diminuiti, attestandoci ad una spesa pari al 6,6% del Pil (2018), molto al di sotto dei nostri ormai parametri di riferimento Francia (9,5%) e Germania (9.6%). Paradossale pensare che, per attenerci a questi standard contenuti e allo stesso tempo usufruire in ambito ospedaliero di farmaci sempre più specifici e costosi, abbiamo dovuto attuare un taglio a livello del personale sanitario, perdendo dal 2009 “37.000 unità in valore assoluto” di cui oltre 8mila medici e 13mila infermieri.
La situazione ha creato non solo carenza di personale assistenziale, ma un imbuto formativo in cui rimangono sempre più medici laureati che non possono poi accedere alle borse di specializzazione e completare così la loro formazione.
Il numero di persone che possono, tramite il superamento del test, accedere alla laurea in medicina e chirurgia sono espressione della richiesta di personale sanitario a livello regionale cosicché, ogni anno, circa 9mila studenti possano laurearsi e abilitarsi alla pratica medica.
Analizzando lo studio Anaao, dal 2015 al 2018 i posti per le borse di specializzazioni si attestavano a numeri al di sotto delle 7mila unità, e solo dal 2019/2020 il piano nazionale ha aumentato il numero delle borse a 7.100 che, sommati ai posti ottenuti con altri aiuti regionali, dovrebbero portare 8000 neolaureati ad avere la possibilità di proseguire la propria carriera.
Cosa ha portato questa discrepanza tra l’esigenza regionale di medici e il numero di medici che effettivamente possono operare in ambito specialistico? Secondo le stime, nel 2018 sono 8090 i medici laureati che non sono rientrati nel concorso, numero che negli anni aumenterà sempre più. Pertanto, i giovani laureati saranno sempre più costretti ad emigrare all’estero per completare la propria formazione, per non restare né sottomessi alle logiche di lavoro precario, né preclusi alla possibilità di accedere ai vari concorsi. Inutile dunque aumentare il numero di iscritti all’università, come molte fazioni politiche propagandano, in quanto il numero di laureati è sufficiente a colmare le lacune che in questa emergenza sono sempre più palesi. Anzi, questa proposta porterà ad una forbice sempre più alta di giovani medici precari che non troveranno posto nel SSN e che quindi non potrà lavorare nel nostro territorio. Sarebbe più opportuno promulgare un aumento delle scuole di specializzazione, permettendo a tutti i neolaureati di poter agire e operare nel nostro sistema sanitario e permettere una maggiore qualità nella cura dei pazienti, ma questo implicherebbe una politica sanitaria basata non solo sul rientro dei conti.
Europa e cattiva amministrazione in Campania: l’importanza di Noi Restiamo al Sud
L’emergenza derivante dal Coronavirus non ha fatto altro che mettere in risalto le condizioni in cui versa il Sistema Nazionale Sanitario. In Campania si è reduci da un commissariamento durato 10 anni, dal 2009 al 2019, che è stato un vero e proprio bagno di sangue.
Il commissariamento da parte dello Stato centrale fu conseguenza non di scelte coraggiose nell’investire in sanità pubblica da parte delle giunte precedenti, bensì dalla propensione clientelare storica, accentuata dalla riforma del titolo V della Costituzione, la quale, portando all’aumento continuo e artefatto dei prezzi delle forniture, alla lottizzazione delle cariche dirigenziali e quant’altro, aveva come conseguenza l’accumulo di centinaia di milioni di euro di debiti l’anno.
I dieci anni di commissariamento, come dicevamo, sono stati un bagno di sangue per la sanità: basti pensare che vi sono impiegati più di 13mila dipendenti in meno (quasi 1/3 dei tagli complessivi nazionali). Le varie giunte regionali che si sono susseguite in questo periodo (Bassolino, Caldoro, De Luca), pertanto, hanno proceduto a dei tagli lineari talmente violenti che ad un certo punto si profilava la possibilità che rimasse aperto un solo pronto soccorso per l’intera città di Napoli (più di un milione di abitanti reali). Nel mentre, le strutture private convenzionate, le quali garantiscono la maggior parte delle prestazioni ambulatoriali a causa delle liste di attesa letali degli ospedali pubblici, spesso già nel mese di settembre terminano i tetti di spesa annuali elargiti dalla Regione, bloccando le prestazioni. Ulteriore fattore di sottofinanziamento è costituito dal riparto del fondo sanitario nazionale fra le regioni che, basandosi largamente sul criterio della spesa storica, penalizza la Campania (fino a circa 200 euro pro capite in meno rispetto all’Emilia-Romagna).
Dunque, per via dello spreco degli anni precedenti al commissariamento e del sottofinanziamento, da cui scaturisce un’insufficienza pesante del servizio, la Campania è stata per anni proposta come esempio massimo del fatto che il pubblico è di per sé inefficiente e corrotto, mentre il privato, basandosi sull’incentivo della libera concorrenza, ne eliminerebbe gli sprechi e le inefficienze, e, pertanto, sarebbe obbligato sostituirvisi.
In effetti, con la crisi del 2008, le pessime dimostrazioni date dalle amministrazioni nella gestione della sanità e delle aziende partecipate in generale, unite al prosciugarsi delle risorse pubbliche, in parte redistribuite ai pochi fortunati a fini clientelari e, anche, in minima parte strappate con i denti dalle lotte dei disoccupati, hanno determinato il discredito del ruolo dell’intervento dello Stato in economia agli occhi di grandi masse di popolazione.
Da allora, l’economia informale ha inghiottito strati di classi popolari che in precedenza avrebbero potuto aspirare ad elevare la propria condizione sociale, mentre è cominciato un esodo di porzioni bibliche di giovani e giovanissimi verso il nord del paese e verso l’estero: secondo l’Istat, dal 2009 al 2019 sono emigrati circa 100mila giovani, di cui la metà altamente scolarizzati. Quella che era la regione più giovane d’Italia per età media sta diventando fra le più anziane e potrebbe perdere circa la metà della popolazione in 30 anni se questo trend non si dovesse invertire.
Tale esodo, dettato in larga parte da necessità oggettive dato il 60% di disoccupazione giovanile, è stato alimentato e accompagnato da una grancassa ideologica e mediatica, entrata nelle teste di molti giovani, secondo la quale, emigrando dal Sud, si sarebbe usciti dal sottosviluppo e si sarebbe “entrati in Europa”; in tal senso, chi non aspira a trasferirsi “in Europa” è passibile di colpevolizzazione per scarsa ambizione o provincialismo. L’ideologia europeista, pertanto, ha agito in maniera particolarmente rapace nell’espoliazione delle energie giovani dalla nostra società.
In questo senso, la parola d’ordine “Noi Restiamo” assume un valore ancora più controcorrente al sud e va a contrapporsi in maniera netta all’ideologia dominante che viene propinata alla nostra generazione.
E’ necessario, pertanto, rimettere al centro delle nostre rivendicazioni il ruolo dello stato nell’economia; un ruolo che, però, si discosti dalla funzione di “socialismo per i ricchi” propugnata da Confindustria (ovvero un intervento dello stato avente come scopo quello di garantire i crediti bancari alle aziende in difficoltà oppure quello di nazionalizzare per breve tempo alcune aziende, in maniera tale da socializzare le loro perdite, prima di svenderle di nuovo ai privati) oppure da quella clientelare di massa, che abbiamo conosciuto per decenni al sud, la quale porta ad uno spreco di risorse in senso meramente assistenziale e offre terreno fertile a successive privatizzazioni.
E’ la pianificazione statale orientata al soddisfacimento dei bisogni delle classi popolari quella che rivendichiamo. E gli esiti di questa fase della crisi pandemica in corso, che vedono una risposta nettamente migliore da parte dei paesi in cui vi è il primato della pianificazione centrale sull’economia di mercato, sono lì a confermare che le attuali politiche economiche imposte agli ordini di un sistema ordoliberista non solo non sono senza alternative (come da vecchio slogan thatcheriano), bensì sono in fase discendente sul piano mondiale e soccombono di fronte ad altri sistemi impostati sul primato dei valori collettivi piuttosto che sul profitto privato.