ENERGIA, EMISSIONI E SCENARI FUTURI – Sandro de Cecco
Dagli Atti del Convegno “Un ossimoro si aggira per l’Europa: è l’ambientalismo capitalista” del 22 gennaio scorso
ENERGIA, EMISSIONI E SCENARI FUTURI
di Sandro De Cecco
Iniziamo da una panoramica: dove si situa e a cosa serve il nucleare nello scenario mondiale di produzione dell’energia; quali sono i suoi limiti e perché. Concluderemo sugli scenari, dalla scadenza intermedia del 2030 allo scenario di riferimento del 2050: come si arriva a questi scenari, chi li studia e costituisce; la necessità di iniziare un percorso verso la costituzione di un raggruppamento di forze ed intelligenze che un tale scenario lo costruiscano dal basso, dal momento che non è più in dubbio il fatto che bisogni tendere ad azzerare le emissioni di carbonio.
Nel mondo dell’energia lorda che si produce circa ¼ è consumata per produrre elettricità. Tutto il resto è consumata per alimentare direttamente riscaldamento domestico, trasporti (collettivi o personali), industria, agricoltura e servizi.
Quando parliamo di nucleare lo inseriamo nel quadro della produzione di energia elettrica. In particolare, sull’energia elettrica prodotta al livello mondiale, il nucleare rappresenta circa il 10%: questo vuol dire grosso modo 2.5% dell’energia totale prodotta. Questo già ci dice che se anche postulassimo che il nucleare non produce emissioni è intuitivo che per diminuire le emissioni dovremmo occuparci del restante 98% di produzione (maggioritariamente basata su combustibili fossili).
Entriamo nello specifico della sola elettricità e del caso europeo (Francia ed Italia in particolare). In Francia grossomodo la produzione di energia elettrica è sempre circa ¼, unica frazione dell’energia prodotta su cui può vantare di aver realizzato l’indipendenza energetica, cavallo di battaglia dei nuclearisti. Infatti di questo quarto circa il 70% è prodotto da energia nucleare, mentre il restante 30% si suddivide tra un 20% rinnovabile (idroelettrico e solo in minima parte fotovoltaico ed eolico – percentuale che peraltro, a differenza dell’Italia, non è cresciuta negli ultimi 20 anni) ed un 10% fossile. In Italia la situazione al 2020 è la seguente: quasi 40% di energie rinnovabili (aumentate di un fattore 2 rispetto agli anni ‘90) e 60% di fossile (nell’ambito della produzione di energia elettrica che rappresenta sempre ¼ della produzione totale di energia). Di questo fossile il gas naturale metano negli ultimi 20 anni ha sostituito quasi completamente la combustione di carbone e di petrolio.
L’Italia quindi, rispetto alla Francia, già nel 2020 ha superato gli obiettivi intermedi verso la scadenza del 2030. Questo in realtà è stato possibile perché in Italia non è più presente (e non lo è mai stata in maniera corposa) una fonte di produzione di energia elettrica molto rigida come il nucleare – un reattore, una volta acceso, non si può spegnere o modulare a seconda delle esigenze.
La Francia con i suoi 56 reattori (cira 60 GW di potenza installata) e un potenziale nazionale di produzione di energia elettrica dell’80% (anche se adesso è un po’ più basso) ha visto questo come un fattore non abilitante dell’aumento di energie rinnovabili all’interno del proprio mix energetico elettrico. Le ragioni sono due:
1) La già citata rigidità della produzione di energia elettrica. Questo ha anche un’altra conseguenza, cioè che il surplus (prodotto di notte o in periodi dell’anno in cui il quantitativo di energia richiesto è minore) viene esportato a prezzi molto bassi; contemporaneamente non riesce neanche a far fronte ai picchi di domanda, durante i quali è comunque costretta ad acquistare elettricità a caro prezzo (addirittura anche dall’Italia).
2) Gli investimenti. Infatti il parco nucleare francese è molto vecchio (installato fra fine anni ‘70 ed inizio anni ‘80), quindi le centrali arriveranno a scadenza nell’arco dei prossimi 10 anni (nonostante i lavori di adeguamento che ne hanno prolungato la vita a caro prezzo – 2 miliardi a reattore – soprattutto a seguito dell’incidente di Fukushima). Queste spese (circa 100 miliardi a fronte del 18% di energia prodotta al livello nazionale) vanno considerate anche al netto di un depauperamento generale dell’economia e di una drastica diminuzione delle competenze tecniche che garantiscano lavori di adeguamento di qualità.
Da questo deriva un’altra considerazione: il nucleare è un sistema complesso che è figlio di tempi in cui lo Stato direttamente faceva una politica industriale con un indotto (anche privato ma essenzialmente pubblico) anche culturale e di formazione. Oggi in Europa il livello tecnico e scientifico globalmente si sta abbassando molto e formare tecnici e genio nucleare per i prossimi 30 anni in Francia (secondo le stime di EDF) vuol dire dover assumere ai fini del mantenimento della potenza installata 4000 ingegneri e tecnici l’anno nei prossimi 10 anni.
Rispetto ai nuovi reattori (EPR, generazione III, III+) in costruzione a Flamenville (Francia) ed in Finlandia: dovevano costare 3-4 miliardi ognuno ed essere costruiti in meno di 6-7 anni. In realtà sono più di 15 anni che si aspetta, e stanno costando circa 14 miliardi l’uno (19 miliardi se si contano gli interessi). Di fronte a questi fatti si risponde che sono i primi modelli (non proprio, dal momento che ce n’è uno già operativo in Cina e già fermato per un guasto) e che i prossimi verranno a costare solo 7 miliardi. Questo vuol comunque dire che per 6 EPR (quelli che Macron sta promettendo in campagna elettorale per rimpiazzare quelli che “andranno in pensione” entro il 2050) il costo stimato è di circa 45 miliardi di euro (dimezzando le stime rispetto ai dati attuali).
Il peso di questi costi è cruciale per introdurre il discorso sulla tassonomia cioè capire perché il nucleare è rientrato in gioco e perché proprio con investimenti sulle centrali attuali da approvare fino al 2050 ed investimenti per centrali future fino al 2045. Infatti oggi in Europa nessuno stato può emettere debito, quindi deve finanziarsi sui mercati: questi 150 miliardi di cui la Francia ha bisogno possono essere reperiti sul mercato, e sicuramente è più facile finanziare una tecnologia che abbia la “green label” della tassonomia.
Ovviamente il problema non è solo finanziario, ma anche energetico, scientifico, tecnico, di sicurezza ed ambientale. Perché ad esempio non abbiamo voce in capitolo su ciò che farà la Francia con i suoi reattori? Dovremmo, dal momento che siamo un Paese confinante ed un incidente di gravi dimensioni riguarderebbe tutti almeno al livello continentale. Ci riguarda tutti anche perché una presenza importante e fissa di produzione di energia elettrica nucleare sul Continente vuol dire una capacità minore di sviluppare alternative “carbon-free”.
A proposito delle emissioni di carbonio, un po’ di numeri.
A parte che nell’Europa dell’Est, il carbone è stato praticamente dimenticato nel resto del Continente. L’emissione di CO2 derivante dalla produzione di energia elettrica bruciando carbone è circa 800 g/kW, mentre per il gas metano si aggira tra i 400 ed i 500 g/kW.
Rispetto al gas, invece bisogna distinguere a seconda del ciclo di vita (corto o breve): c’è differenza di impatto tra il gas fossile e quello prodotto dalla metanizzazione ad esempio dei rifiuti alimentari urbani o agricoli, più facile da ri-fissare a breve termine nei terreni agricoli e forestali.
In sostanza non è che non ci sia emissione di CO2, ma il bilancio totale nell’aria a fine ciclo è prossimo allo zero. Ad esempio bruciando biogas in una stessa centrale a metano si ottengono emissioni di carbonio di circa 10 g/kW.
Altra questione portata dai proponenti del nucleare è quella dei costi. Oggi il costo dell’energia è circa di 45-50 euro/MW/h: per seguire il trend, il nucleare sta cercando di abbassare i costi per rendersi competitivo (fatto che ha suscitato il dissenso dei lavoratori di EDF). Invece, per quanto riguarda solare ed eolico, i costi stanno scendendo dai 100 euro/MW/h a 50 euro/MW/h o meno, minimizzando quindi le differenze anche in questo frangente.
Rispetto alle emissioni di CO2 del nucleare, invece, si nasconde lo scheletro nell’armadio: se è vero che l’emissione di CO2 è nulla nella fissione del nucleo di Uranio235 e che dalla costruzione al funzionamento della centrale il bilancio è tutto sommato positivo (c’è una fase di costruzione della centrale che comprende cemento, siderurgia e trasporti, mentre durante il periodo di vita contando i servizi si arriva ad un’emissione di 20-30 g/kW), dobbiamo considerare anche non solo il decommissioning della centrale ma anche il ciclo del combustibile.
Il problema del nucleare oggi, che da questo emerge, è che non abbiamo chiarezza sui numeri. Il ciclo del combustibile ha innanzitutto un processo di estrazione (l’Uranio è presente per una parte su 1000 nei minerali uraniferi) che dal punto di vista chimico sono particolarmente energivori e lo diventeranno ancora di più con il progressivo abbassarsi della concentrazione di uranio nelle miniere. Questa fase a monte del processo, in Francia, è diventata segreto militare, quindi non abbiamo contezza del bilancio CO2 completo. Segue il processo di smaltimento, di cui poi si parlerà più avanti. In totale arriviamo quindi ad un ciclo (per un reattore EPR, di cui si sta discutendo adesso) che comprende 60 anni di vita della centrale, quasi 20 di preparazione, 20 di costituzione del combustibile e 40-50 anni di ecommissioning, rendendolo un ciclo che copre circa un secolo.
Concludiamo con gli scenari al 2050.
Non basta rendere “carbon-free” il 25% di produzione di energia elettrica. C’è un 75% che non possiamo ignorare. Quindi nessuno scenario ragionevole (e per questo invito a guardare gli scenari dell’associazione francese Negawatt) può esimersi da: un elemento di sobrietà energetica (riduzione del consumo totale di energia – circa del 30% – elemento imprescindibile per avere una qualche speranza di far fronte alla crisi ambientale); un’elettrificazione massiccia di produzioni basate principalmente su idrocarburi fossili. Questo vuol dire che complessivamente si dovrà produrre più elettricità che adesso, oltre a trasformare le attuali quote fossili di elettricità in rinnovabili.
Da questo punto di vista la restante percentuale di energia necessaria (calore diretto) dovrà essere garantita da biomassa o da fonti a ciclo corto. Tuttavia lo sviluppo di fonti intrinsecamente fluttuanti come il vento comporta la necessità di sviluppare due elementi:
1) l’interconnessione di una rete al livello continentale in modo che, considerando una regione più grande, le fluttuazioni siano in media trascurabili.
2) implementare lo stoccaggio a cui ricorrere nei picchi di produzione. Da questo punto di vista, si parla molto del così detto idrogeno green, nonostante anche su questo punto ci sia molta confusione. In generale, lavorare a meccanismi ad alta efficienza che permettano di non degradare la qualità dell’energia elettrica prodotta.
Rispetto alla tassonomia, c’è anche il nodo del gas. Mentre sul nucleare le relazioni da parte del gruppo TEG (contrarie) sono già state pubblicate, sul gas si applicano vincoli abbastanza stringenti: le emissioni devono essere sotto i 270 g/kW entro il 2030, le quote di emissione del carburante devono passare al 55% di biogas entro il 2030 e dopo il 2030 la quota di emissione deve passare a meno di 100 g/kW.
Questo vuol dire che mentre la proposta del nucleare ha lo scopo di salvare i francesi dalla speculazione finanziaria, quella del gas è messa lì semplicemente per registrare una situazione di fatto: i Paesi dell’Est Europa attualmente legati al carbone non riuscirebbero a rientrare negli obiettivi concordati.