La polizia della storia contro l’immaginario del presente. A proposito del “caso Moro” e dell’Archivio Persichetti.
Il 9 maggio 1978, a bordo di un Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, venne rinvenuto il cadavere del presidente della DC Aldo Moro, giustiziato dalle Brigate Rosse dopo circa due mesi di prigionia. Da quello stesso giorno in poi, ma in realtà già a partire dai momenti successi al rapimento in via Fani del marzo precedente, la vicenda del “caso Moro” diventa terreno di battaglia nello scontro tra lo Stato e le organizzazioni delle sinistra rivoluzionaria. Scontro sul piano penale, storico e culturale che si è protratto ed alimentato per decenni fino a riverberarsi in una data come quella odierna.
Oggi leggiamo fiumi di parole sul caso Moro, sulle Brigate Rosse e sullo statista democristiano. Assistiamo, come avviene ormai da troppi anni, alla celebrazione della dietrologia e del complottismo, all’esaltazione del giustizialismo manettaro abbinato ad un uso pubblico della storia a tutto vantaggio delle strumentalizzazioni politiche. Nella migliore delle ipotesi dovremo accontentarci di una ricostruzione di quegli eventi estremamente pacificata, edulcorata dai caratteri meno adatti alla narrazione dominante, che demonizza gli esecutori e santifica la vittima, romanzando gli avvenimenti anziché spiegarceli.
Per queste ragioni proponiamo la lettura de La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, pubblicato dai tipi di DeriveApprodi nel 2022, di Paolo Persichetti. Lo scopo è quello di condividere alcune riflessioni di fondo che animano il libro e che ci sembrano estremamente interessanti.
Innanzitutto i retroscena che portano alla pubblicazione. La mattina del 8 giugno 2021, Paolo Persichetti viene prima avvicinato da una squadra della Digos e di agenti della polizia postale, poi condotto nella propria abitazione. Quella mattina la Procura di Roma, requisisce tutto il suo archivio documentario, memorialistico e bibliografico. La doverosa risposta a questo attacco repressivo e di censura ha dato vita al libro La polizia della storia. Una raccolta organica di saggi e articoli, nella quale confluiscono le riflessioni sul caso Moro prodotte in circa un ventennio di ricerca rigorosa e profonda, sia sulle fonti archivistiche istituzionali e giudiziarie, che sulle quelle orali e a stampa.
I capitoli iniziali, dedicati proprio alla ricostruzione delle vicende giudiziarie che hanno colpito il Persichetti ricercatore tra il 2019 e il 2021, offrono in maniera inequivocabile la dimensione giustizialista nella quale è confinato qualsiasi serio tentativo di storicizzazione del sequestro Moro. Più in generale, l’intervento repressivo su quella che possiamo definire una “battaglia delle idee”; l’accanimento ingiustificato verso un tentativo indipendente e alternativo di ricostruzione storica, mette in luce la difficoltà (o la mancata volontà) che c’è nel nostro paese di fare i conti davvero con il fenomeno della lotta armata e con quegli anni di altissimo conflitto sociale. Non a caso, il riflesso di questa condizione è ancora visibile nella nostra attualità, ben testimoniato dalle manie persecutorie che a distanza di oltre quarant’anni vengono riversate sugli ex-combattenti espatriati in Francia e in Sudamerica.
La carica simbolica e insieme politica che ancora oggi detiene quell’evento ha offerto terreno fertile alla montatura di un vero e proprio “affaire” attorno alle dinamiche del rapimento, sui i suoi esecutori e sulla sua vittima. Quella che il testo di Persichetti riesce a disarticolare ottimamente è una macchina della menzogna, che da differenti direzioni e con eterogenee finalità, ha ricoperto di mitologia da spystory una verità storica evidentemente scomoda. Ventisette condanne, ben quattro processi e due commissioni parlamentari d’inchiesta- al di là delle forti criticità sul piano storico e degli errori giudiziari sottolineati dall’autore a più riprese nel testo- a quanto pare, non sembrano bastare.
Sta tutta qui l’importanza del lungo lavoro storiografico raccolto nel saggio: nell’aver rimesso al centro il contesto generale entro cui si consumò quella vicenda; nell’analisi puntuale, suffragata da fonti eterogenee, delle dinamiche operative del sequestro; nell’incrociare le evidenze processuali con lo studio dei meccanismi di funzionamento dell’organizzazione armata e degli apparati repressivi dello Stato. In questo modo il libro di Persichetti fornisce gli strumenti critici in grado di decostruire, pezzo dopo pezzo, le varie mitologie complottiste nate attorno al caso Moro: dalla presunta moto Honda presente al momento dell’azione in via Fani, fino alle illazioni di opacità nei confronti di Mario Moretti; dalla presenza puramente congetturale di infiltrazioni dei servizi italiani e di mezzo mondo, al ruolo questurino effettivamente giocato dal PCI in quella primavera del 1978.
Inoltre, grazie allo studio filologico sulle carte del famoso “Memoriale Moro”, al confronto di queste ultime con le esternazioni pubbliche e private dell’ex ministro e presidente del consiglio, Persichetti ci ha riconsegnato un’immagine di Aldo Moro assai diversa da quella che la vulgata del “mistero” propone, tanto nei giorni di prigionia, in cui il presidente della DC venne- e viene tutt’ora- ritenuto non cosciente di sé e delle proprie dichiarazioni, quanto sulla precedente carriera politica. Una narrazione che ha significato la reinterpretazione post-mortem della figura politica, forse anche umana, di Moro. L’autore dimostra approfonditamente tutta la complessità della vicenda storica che chiamiamo “Compromesso Storico” e di cui il presidente della DC fu protagonista, sottolineando le ritrosie, le prudenze, le scelte strategiche ed opportunistiche che mossero la sua azione e quella del suo partito. Interpretazioni su cui, del resto, la letteratura accademica, che pure Persichetti utilizza, ha già scritto molto.
D’altro canto, anche il protagonismo del PCI e di Berlinguer in tutta la vicenda (prima, durante e dopo il 9 maggio 1978) sono abbondantemente documentate nel libro. Ciò che va messo in evidenza è la complicità materiale che il “partito della classe operaia” offrì sia alla repressione fornendo delatori, canali di contatto, giurati condizionati ed esche; sia al progressivo propagarsi delle tesi complottiste su quegli eventi, funzionale alla tattica comunista per combattere qualsiasi cosa si muovesse alla sua sinistra e, allo stesso tempo, per accreditarsi agli occhi dello Stato e della destra come forza “sinceramente democratica”.
La paura che sta dietro il sequestro dell’archivio Persichetti, allora, non è altro che la paura di veder crollare i pilastri che sorreggono un uso pubblico della storia estremamente fazioso e/o revisionista, con immediate finalità politiche ed editoriali.
Ammettere che un’organizzazione di operai, studenti e “contadini nella metropoli”, che a torto o ragione pensavano di avanzare verso una rottura rivoluzionaria, potesse aver autonomamente sperimentato quel grado di conflittualità politica, faceva e fa ancora paura. Una paura forte, che impedisce la legittimazione dell’avversario in quanto tale fino al punto di demonizzarlo, mentre al contempo, cancella il contesto storico generale, nazionale ed internazionale, entro cui si produsse l’esperienza della lotta armata.
Le acquisizioni documentali e le riflessioni storiografiche finite sotto il mirino dalla Digos romana inquietano il potere non solo, e non tanto, perché minano la costruzione di una memoria collettiva pacificata e di comodo sulle vicende degli anni Settanta, ma ancor di più perché mettono ipoteticamente a rischio una vulgata che sorregge il presente. Accendono un riflettore su temi che sembravano destinati all’oblio ma che rimangono comunque potenzialmente attuali, come la questione del rapporto tra azione politica e violenza, o quella della stratificazione delle leggi eccezionali e di emergenza in campo repressivo, quindi fuori dall’alveo costituzionale, che ha portato alla loro normalizzazione e persistenza nell’ordinamento repubblicano.
L’opportunità che in quanto giovani e comunisti ci offre questo libro, non è quella della sola conoscenza storica, ma quella forse ancora più importante della consapevolezza sia dell’enorme portato politico e culturale di quella stagione, sia delle conseguenze pratiche che ne sono derivate.
Al di là dei giudizi di merito e di valore su quello specifico episodio, e più in generale sulle esperienze lottarmatiste, La polizia della storia ci è utile per definire gli spazi entro cui si trovarono ad agire coloro i quali pensavo di avviare un processo rivoluzionario nell’Italia di allora. Ci fornisce le chiavi di lettura per poter individuare le ricadute delle risposte miopi e immobilizzanti date dalle classi dirigenti italiane alle necessità di radicale cambiamento espresse dalla società. Non c’è CIA, KGB, P2 o diavolo che tenga, quella storia non è altro che il prodotto dell’altissimo livello di contraddizioni sociali, politiche e culturali raggiunte in quegli anni.
In conclusione, quindi, possiamo dire che la polizia della storia non è solo quella che oscura e rimaneggia il passato, ma quella che lo fa per uccidere la coscienza e l’immaginario del presente, dove non c’è e non ci può essere spazio per sognare una rivoluzione.