Tecnologia e società: Noi Restiamo entra al Politecnico di Torino.

Al Politecnico di Torino, lo scorso 26 gennaio si è tenuta, con ottima affluenza di studenti, un’iniziativa organizzata dalla campagna Noi Restiamo riguardo alle conseguenze dell’innovazione tecnologica sui paradigmi produttivi. Il progresso tecnologico in campo digitale, infatti, non ha trasformato solo i prodotti finiti e le modalità del loro consumo, ma il processo produttivo stesso, con pesanti ricadute sull’organizzazione produttiva e, quindi, sul mercato del lavoro.
È su questo aspetto in particolare che ci si è interrogati, in quanto, come segnalato da osservatori di ogni orientamento politico, l’automatizzazione sta provocando una costante riduzione di posti di lavoro, in particolare quelli basati su azioni routinarie, tanto manuali, quanto intellettuali. Simile riflessione diventa tanto più pressante in un momento storico segnato da un attacco al mondo del lavoro senza precedenti, che le giovani generazioni pagano in modo particolare, con la diffusione generalizzata di precarietà e disoccupazione anche tra soggetti già inseriti nel mondo del lavoro. Se n’è discusso con Roberto Centazzo, Juan Carlos De Martin e Francesco Piccioni.

Centazzo, esperto di innovazione nelle piccole e medie imprese, ha sottolineato, in particolare, le modalità d’introduzione della stampante 3D nella produzione industriale, e le potenzialità che ne scaturiscono. Dopo aver rilevato l’importanza di comprendere il processo produttivo in relazione al contesto sociale in cui esso d’inserisce, è passato all’esame più puntuale dell’innovazione rappresentata dalle stampanti 3D. Stampanti che potrebbero rappresentare una svolta non solo nell’organizzazione produttiva, ma persino a livello concettuale, in quanto sembrano stravolgere il modo tradizionale di produrre oggetti: per la prima volta, il materiale di lavoro viene trasformato attraverso l’aggiunta, e non la sottrazione, di materia. Questa rivoluzione concettuale porterebbe inevitabilmente, come avvenuto con l’informatica, a una rivoluzione nelle competenze tecniche e nei comportamenti dell’utenza. Utenza che già oggi si distribuisce in due fasce di mercato: quello delle stampanti 3D domestiche (prodotti di consumo), e quello delle stampanti destinate alla produzione industriale. L’analisi di Centazzo si è concentrata sul secondo filone, in cui, ha precisato, l’uso delle stampanti 3D è ancora limitato a pochi produttori e alla produzione su piccola scala: il suo futuro dipenderà dalla capacità d’implementarlo nel processo produttivo in maniera sempre più efficiente. Qualora ciò avvenisse, sono due i cambiamenti principali che quest’innovazione potrebbe schiudere: una maggiore economicità dell’accesso alla produzione industriale, e la necessaria acquisizione di nuove competenze per la sua gestione. Cambia il processo produttivo, cambiano le sue ripercussioni nel contesto sociale: sulla necessità d’una lettura e d’una risposta politica alle rivoluzioni nel campo della produzione – risposta che riguardi, in particolare, la redistribuzione del reddito – si è concluso l’intervento di Centazzo. Non esiste una mano invisibile, neppure per le nuove tecnologie.

Juan Carlos De Martin, docente presso il Dipartimento di Automatica e Ingegneria (DAUIN) del Politecnico che studia, in particolare, il rapporto tra internet e società (di estremo interesse, al riguardo, è la sua attività nell’ambito del centro di ricerca NEXA), ha sottolineato come l’Italia sia ancora molto arretrata riguardo alle competenze digitali, e stia dunque subendo passivamente la rivoluzione produttiva dei nostri tempi. Tre sono i motivi principali dell’arretratezza italiana: il divario infrastrutturale rispetto ai Paesi più avanzati; il divario economico, principale causa delle difficoltà, per larghe fasce di cittadinanza, e in particolare per quelle più deboli, ad accedere agli strumenti digitali; il ritardo culturale, che riguarda le stesse competenze cognitive di base. Da quest’ultimo punto di vista, il professor De Martin ha denunciato l’attacco portato avanti, in Italia, contro scuola e università, sempre più distruttivo, in particolare, a partire dal 2008. Riguardo agli effetti della rivoluzione tecnologica sull’occupazione, De Martin ha poi ricordato come l’assunto per cui la nuova tecnologia distrugge tanti posti di lavoro quanti ne crea, non sia affatto una legge di natura, e sembri, nelle condizioni attuali, a forte rischio di smentita. Ciò, in particolare, per due elementi di discontinuità presentati dalla rivoluzione digitale rispetto alle precedenti: un primo cambiamento, d’ordine “ontologico” è il mutamento nel materiale prodotto: le precedenti rivoluzioni produttive riguardavano la costruzione di oggetti fisici; quella digitale, invece, produce bit. Secondo elemento di novità è lo sviluppo dell’intelligenza artificiale in grado di minacciare, per la prima volta, alcune forme di lavoro umano intellettuale. De Martin stima che i posti di lavoro a rischio siano circa il 10% del totale. Ha auspicato, come direzioni concrete di azione: da un lato, l’elaborazione di ricerche che riguardino l’Italia nel contesto della rivoluzione digitale; e, dall’altro, riflessioni teoriche di carattere più generale, che sappiano inserire tali analisi in un quadro complessivo che comprenda anche la dimensione e le ripercussioni politiche e sociali della tecnologia.

L’intervento si è concluso con la citazione di uno studio di Paolo Sylos Labini (“Valore e distribuzione in un’economia robotizzata”, 1985), in cui l’economista affrontava l’ipotesi che l’intero processo produttivo fosse condotto attraverso robot. In tale caso limite, chi sarebbe in grado di acquistare merci? In polemica con Benedetto Croce che riproponeva la classica soluzione liberale (inevitabile miseria per i lavoratori, e loro dipendenza dalla carità delle classi superiori), Sylos Labini propugnava l’intervento statale nella redistribuzione del reddito, come risposta a un’esigenza di razionalità, secondo il criterio: “a ciascuno secondo i suoi bisogni”.

Francesco Piccioni, giornalista di Contropiano, ha preso le mosse proprio dall’assunto, già criticato da De Martin, e continuamente riproposto dalla retorica dominante del “non preoccupatevi, si cadrà in piedi” (ossia: “qualche lavoro lo troverete”). Piccioni ha analizzato un’ampia mole di dati, tra cui il rapporto su “Il futuro del lavoro”, presentato nei giorni scorsi al World Economic Forum di Davos, che stima in 5,1 milioni il saldo negativo dei posti di lavoro nel quinquennio 2015-2020. Tutto il lavoro seriale, di routine, sia esso materiale o intellettuale, operaio o impiegatizio, è ad alto rischio di scomparsa. In crescita risultano, invece, i posti di lavoro ‘creativi’ e quelli del mondo degli affari: giornalisti, architetti, ingegneri, operatori finanziari, attori.
La questione chiave, secondo Piccioni, è: quanti sono questi nuovi posti di lavoro? Più degli attuali? La risposta sembra negativa. Ogni rivoluzione industriale sviluppa il capitale fisso e riduce quello variabile (il lavoro umano) e, dato l’attuale contesto politico ed economico di feroce competizione globale, una redistribuzione del reddito che contrasti simile tendenza è assolutamente inverosimile. Il trend non può essere invertito finché la molla del sistema economico rimarrà il profitto, e non la soddisfazione dei bisogni dei lavoratori.
L’aula piena di studenti, le loro domande e un’attiva partecipazione al dibattito hanno segnato questa nostra prima iniziativa al Politecnico di Torino. La necessità d’inserire le competenze acquisite all’università in una comprensione più ampia delle dinamiche sociali che ci circondano, da cui nessun tipo di formazione scientifica e nessuna categoria professionale possono prescindere; la voglia di essere parte attiva in questo mondo “grande e terribile”: due punti che vogliamo portare al Politecnico e in ogni ambito universitario in cui ci troviamo ad agire. La campagna Noi Restiamo apre un nuovo fronte!