Bologna. Che fine ha fatto l’università?

Bologna, incontro in Università mercoledi 15 marzo ore 19.00 presso l’aula I di via Zamboni 38

CHE FINE HA FATTO L’UNIVERSITA’?
L’Erasmus fa 30 anni, ma i trentenni dove vanno?

Contro l’università d’élite.
Contro la chiusura degli spazi di democrazia.
Contro la repressione violenta del dissenso

Ne parliamo con:
Francesco Sylos Labini – redazione Roars
Luciano Vasapollo – docente università La Sapienza
Marta Fana – ricercatrice di Economia
Giorgio Cremaschi – piattaforma sociale Eurostop

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Nelle ultime settimane, a Bologna, l’escalation che ha portato all’irruzione della polizia in una biblioteca ha palesato una volta di più la direzione che sta prendendo l’Alma Mater Studiorum e, a livello più generale, la trasformazione che stanno vivendo il sistema universitario nazionale e la sua funzione sociale. Ci piace evidenziare una contraddizione su tutte, che svuota in un secondo tutta la narrazione con cui provano a raccontarci una realtà che non esiste: mentre lo 0,4% degli universitari italiani partecipa ogni anno all’ormai consolidato programma Erasmus, la disoccupazione giovanile supera ormai il 40% (dati MIUR e ISTAT).

Da anni infatti stiamo assistendo a un processo di ristrutturazione per adeguare il sistema universitario italiano alla competizione tra atenei sul piano internazionale. Non è un progetto di sviluppo futuro. È già un processo reale in atto.

In un contesto di crisi generale, che vede un’intera generazione penalizzata da precarietà diffusa, incertezza esistenziale e massacro sociale, l’accesso all’università risulta sempre più difficile: negli ultimi dieci anni si registra un calo di 66.000 iscritti, concausa di una dequalificazione complessiva del lavoro in Italia. Non c’è da stupirsi quindi se il fenomeno dell’emigrazione dei giovani verso presunti lidi felici abbia assunto dimensioni preoccupanti.

A questo si somma una ridefinizione strutturale che consiste nell’aumento delle disparità tra poli accademici di serie A e di serie B. I primi acquisiscono la capacità di essere più attrattivi, grazie alle maggiori risorse e quindi a un miglior servizio; mentre i secondi finiscono per diventare “università parcheggio” con un’offerta formativa scadente dovuta alle necessità di far quadrare i bilanci. Il tutto incasellato in un sistema di distribuzione dei fondi (sempre meno grazie alle politiche di austerità) che va a premiare gli atenei già “virtuosi”, innestando così un circolo vizioso e giustificando un intreccio sempre maggiore con partner privati che determinano le scelte strategiche.

Quello che legittima e giustifica sul piano ideologico questo modello è l’insopportabile retorica basata sulla meritocrazia e sull’auto-imprenditorialità, che assume la funzione di dare l’illusione alla maggioranza degli studenti di poter entrare a far parte di quella minoranza che riesce a sottrarsi alla precarietà. Sappiamo bene che i canali di accesso all’Alta Formazione delle future classi dirigenti sono accessibili a pochissimi privilegiati, tramite vie preferenziali estremamente esclusive. Qualcun altro – nel mare di uomini e donne in formazione – ce la farà, perché per essere convincente il sistema deve permettere un minimo di elevazione sociale, mentre per tutti gli altri esisterà solo la guerra di tutti contro tutti, la guerra tra poveri.

In questo quadro l’Unibo si candida a essere un ateneo di serie A e quindi ha bisogno anche di un restyling della sua immagine, trasformando l’università in una caserma dove non trovano più spazio nemmeno forme di socialità differenti, delle quali la Biblioteca di Scienze umanistiche in Via Zamboni 36 rappresenta storicamente un esempio. Il messaggio per il quale qualsiasi tipo di dissenso deve essere represso a ogni costo si è esplicitato con l’intervento dei reparti antisommossa dentro la biblioteca. Si tratta di un processo di normalizzazione che riguarda non solo la sfera dei movimenti studenteschi ma tutti i movimenti sociali su scala nazionale.

E’ giunto il momento di prendere posizione e di tornare ad affrontare il nodo della formazione e della realtà dell’Università post Gelmini su cui nuovamente incombe la scure di una nuova possibile “riforma”. Iniziamo confrontandoci all’Unibo tra studenti e professori, realtà organizzate e singoli che rivendicano la necessità di un’inversione di rotta. Partendo dal NO sociale diffuso con cui anche la working poor generation, il vero volto di quella che definiscono generazione Erasmus, si è già espressa nell’autunno contro l’attuale corso delle cose, è il momento di canalizzare quel rifiuto nella possibilità concreta di mettere a critica i dispositivi reali con cui questo presente è governato per negarci il futuro. Confrontiamoci contro un modello di università d’élite, contro la chiusura degli spazi di democrazia, contro la repressione violenta del dissenso.