Il passaggio dalla media alla superiore: strategie di classe e orientamento scolastico nella riproduzione delle disuguaglianze sociali

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Il passaggio dalla media alla superiore: strategie di classe e orientamento scolastico nella riproduzione delle disuguaglianze sociali

I dibattiti sulla scuola e sulle politiche scolastiche hanno invaso negli ultimi anni a più riprese il dibattito pubblico. La Buona Scuola e la legge 107, i meccanismi di reclutamento del personale docente e le sue iniquità territoriali, l’alternanza scuola-lavoro e i suoi piccoli e grandi scandali attraverso cui si sono messe in luce le forme di sfruttamento a cui sono talvolta sottoposti gli studenti, l’impianto di impronta complessivamente neoliberale di una politica scolastica che incentiva la competizione tra le scuole, tra i docenti, tra i nuovi super-dirigenti, la complessa tensione tra autonomia e accountability e, non da ultimo, i tentativi di produrre un sistema di valutazione standardizzata delle competenze, sono alcuni tra i principali terreni di dibattito che hanno generato tensioni, richieste di chiarimento e cambiamento, talvolta accese proteste da parte di chi studia, lavora, o si occupa di scuola in questo paese.

In modo strisciante e silenzioso, di giorno in giorno, di anno in anno, si ripete tuttavia un meccanismo inesorabile e scandaloso che raramente genera movimenti di indignazione, grida di protesta, richieste pressanti di cambiamento. Un meccanismo che è strettamente legato alla forma scolastica a cui siamo abituati, ai suoi riti di passaggio, alle sue fasi di transizione, e a tutto ciò che in qualche modo ci è così familiare dal non darvi troppo peso. Ogni anno il sistema scolastico italiano obbliga gli studenti che ottengono la licenza media, e che almeno fino a sedici anni saranno ancora in obbligo scolastico, a fare una delle scelte che sono tra le più cruciali per il loro futuro educativo, lavorativo, sociale e culturale. All’età di circa tredici anni, il sistema scolastico italiano chiede loro di scegliere se frequentare una scuola tecnica, una scuola professionale o un percorso liceale e, all’interno di ciascuno di questi rami, il sistema scolastico italiano chiede agli studenti quali siano le loro preferenze specifiche: alberghiero o nautico? Commerciale o turistico? Classico o scientifico? Linguistico o artistico? Le opzioni di scelta sono centinaia.

Il tipo di programma infatti non è tutto. Ogni singola scuola ha una sua specifica reputazione, ogni scuola assorbe mediamente studenti provenienti da percorsi e origini sociali differenti, ha un suo corpo insegnanti, più o meno precario, più o meno motivato, più o meno preparato. Il sistema scolastico italiano, canalizza, divide, differenzia, separa. Ma in che modo? E secondo quali logiche? Ciò che tutta la ricerca sociologica ha mostrato finora è che ciò che determina le scelte è una logica di classe(1). Una logica inesorabile, che nonostante la miriade di trasformazioni che hanno coinvolto la scuola e la società dal dopoguerra a oggi, non è mutata di una virgola; e che costituisce il fattore principale di riproduzione delle disuguaglianze educative e sociali attraverso le generazioni (2). Le grandi e piccole riforme che hanno accompagnato il sistema scolastico italiano a partire dal secondo dopoguerra, non hanno infatti avuto alcun impatto sul ruolo giocato dalle disuguaglianze sociali nelle traiettorie di istruzione. La scuola di oggi è classista come quella denunciata da Don Lorenzo Milani e dai suoi studenti della Scuola di Barbiana.
Con buona pace di tutta una schiera di commentatori che hanno argomentato sull’inattualità del messaggio del prete di Barbiana e sulle conseguenze nefaste del donmilanismo sulla preparazione culturale degli studenti.

È vero, il mondo attorno alla scuola è cambiato, il tasso di analfabetismo si è complessivamente ridotto, le innovazioni tecnologiche, l’accesso a un benessere materiale più diffuso, hanno complessivamente innalzato i livelli di istruzione della popolazione italiana. Anche la scuola è cambiata. Con la riforma del 1962 sono state abolite le scuole di avviamento professionale e si è costituita la scuola media unica, nel 1969 si è sancita la liberalizzazione degli accessi all’Università, nel 1977 sono state abolite le «classi speciali» e si è definito il principio di una scuola inclusiva, dagli anni Ottanta in poi centinaia di sperimentazioni, nei curriculum, nella didattica, nei programmi, l’abolizione e reintroduzione della votazione in decimi, la riforma dell’autonomia scolastica, l’introduzione di sistemi di valutazione standardizzati su scala nazionale. Un elenco che non vuole essere esaustivo ma che traccia per sommi capi alcuni tra i principali mutamenti normativi che hanno cambiato alcuni aspetti della vita scolastica italiana. Per non parlare di tutte le progettualità sperimentazioni che hanno coinvolto singole scuole o reti di scuole negli ultimi anni grazie a sistemi di incentivi nazionali ed europei (3). Tutto ciò ha sicuramente trasformato in profondità buona parte di ciò che i docenti e dirigenti scolastici sono chiamati a fare nel loro lavoro quotidiano.

In parte, hanno cambiato anche la vita scolastica degli studenti. Ma se entrassimo oggi in una classe degli anni ’50-’60 che cosa vedremmo? Banchi allineati, una lavagna, una cattedra, studenti racchiusi tra quattro pareti, tempi scanditi da una campanella che suona ogni ora circa, il rituale spiegazione compiti-a-casa interrogazione. Al di là della presenza, più o meno diffusa a seconda dei territori di dispositivi tecnologici come le lavagne LIM e al di là di alcune rare esperienze di trasformazione degli spazi e della didattica (e che erano presenti già allora e in modi forse ancora più radicali), la forma scolastica prevalente è rimasta la medesima. Prevale l’impostazione frontale e la valutazione individuale degli alunni che certifica il loro grado di apprendimento di contenuti disciplinari definiti autoritativamente dai programmi ministeriali e dall’insegnante. Prevale, non da ultimo, un’idea di scuola volta a selezionare, classificare, categorizzare, segmentare, separare, che si esprime in modo paradigmatico in una strutturazione dei cicli scolastici che risale perlomeno alla riforma «fascistissima» di Giovanni Gentile, che non è mai stata realmente messa in discussione (fatto salvo forse il tentativo dell’allora ministro Berlinguer) e che ancora oggi, in età da obbligo scolastico, divide gli allievi tra quelli orientati al lavoro operaio ed esecutivo e quelli orientati a un’istruzione universitaria. Quest’ultima non necessariamente porta a ottenere lavori ben remunerati e di tipo non esecutivo, ma, come dimostrano ampiamente le statistiche più recenti, protegge dal rischio di disoccupazione e consente di accedere a lavori meno usuranti e, nel tempo, più remunerativi (4).

In questo quadro potrebbe non stupire dunque che le dinamiche prevalenti che determinano l’interazione nelle aule scolastiche e le carriere degli studenti non siano mutate in modo sostanziale nel corso del tempo. Potrebbe non stupire che il dettato costituzionale che lega l’articolo 34 — l’istruzione è aperta a tutti e i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti di istruzione — all’articolo 3 — è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana — sia rimasto lettera morta lasciando che la scuola, spesso nell’inconsapevolezza degli attori che la popolano, svolga un ruolo complice nei processi di riproduzione delle disuguaglianze di classe.

Come si produce la disuguaglianza nella transizione verso la scuola superiore

Per esplorare in profondità i meccanismi che contribuiscono a riprodurre le disuguaglianze sociali nelle traiettorie di istruzione e che, dunque, contribuiscono a spiegare il perdurare dei privilegi di classe che ancor oggi si esprimono in dinamiche relazionali di dominio di tipo non solo economico, ma anche simbolico e culturale, ho scelto di mettere da parte un lavoro di oggettivazione statistica — la ricerca sociale su questo ha già prodotto una robusta base conoscitiva e risultati poco controversi — per immergermi nella quotidianità scolastica provando a dar voce agli attori scolastici (studenti, docenti, formatori): osservare le loro pratiche quotidiane e per interpretarle alla luce di un quadro teorico capace di andare al di là della loro dimensione fenomenologica individuandone le determinanti di tipo strutturale. Il tentativo è stato quello di dar conto dei processi che, a livello micro-sociale, possono dar conto delle regolarità oggettive messe in luce dalla ricerca quantitativa e statistica precedente.

Si è scelto un punto di biforcazione cruciale — il più cruciale — nella determinazione delle carriere scolastiche degli studenti, ovvero il passaggio dalla scuola media alla scuola superiore, e lo si è esplorato attraverso il metodo etnografico ‘seguendo’ per circa un anno i processi di scelta di un campione di studenti milanesi e osservando per circa due anni la vita scolastica e le pratiche più o meno formalizzate di orientamento condotte all’interno di due scuole medie. Uno studio di caso, dunque, i cui risultati sono generalizzabili per via analogica e nella misura in cui possono contribuire a spiegare i processi che sottendono le regolarità statistiche che ci sono note (5). Gli spunti di riflessione offerti da questo lavoro di ricerca e su cui vorrei soffermarmi sono due. Il primo può essere espresso attraverso la metafora bourdieusiana del campo (6): attorno al passaggio dalla scuola media alla scuola superiore si consuma, talvolta in modo nemmeno troppo silente, una competizione, una lotta per la realizzazione di pratiche di chiusura sociale e, dunque, di mantenimento del privilegio sociale attraverso la monopolizzazione della filiera liceale, in particolare dei licei classici e scientifici, da parte delle famiglie di classe media e alta.

Il secondo punto che occorre segnalare è il ruolo spesso inconsapevolmente complice degli attori scolastici, dei docenti della scuola media in particolare, nella riproduzione di questo meccanismo di chiusura sociale. L’espansione del sistema scolastico e universitario, soprattutto in un paese come l’Italia in cui la domanda di lavoratori ad elevata qualificazione è piuttosto ridotta, ha generato un acuto processo di inflazione dei titoli scolastici per cui, al di là dell’accesso al capitale economico e sociale familiare, diventa sempre più centrale un’attenta costruzione di carriere scolastiche di valore (7). Le pratiche genitoriali delle famiglie istruite appaiono sempre più strategicamente orientate a conseguire questo risultato già a partire dalla prima infanzia. I processi competitivi e la lotta per l’accaparramento delle posizioni sociali più prestigiose e remunerative, esacerbati dalle dinamiche contemporanee del capitalismo globalizzato, cominciano nella culla (8). Nel passaggio dalla scuola media alla scuola superiore, tali dinamiche sono ulteriormente rafforzate poiché la scelta di indirizzo nella scuola superiore determina non solo il tipo di preparazione culturale ricevuta, ma anche il tipo di relazioni e amicizie a cui si potrà avere accesso. Le famiglie di classe media e alta conoscono bene il sistema scolastico anche solo per esserne dei prodotti di relativo successo. Hanno avuto esperienze scolastiche più lunghe e fanno parte di cerchie sociali in cui questo tipo di esperienze sono comuni. La scelta liceale è per queste famiglie una non-scelta, una tappa data per scontata all’interno di una biografia «normale», è inoltre una scelta che marca una distinzione sociale da ciò che «non è per quelli come noi» e da cui con ogni sforzo ci si allontana poiché in grado di minare le dinamiche essenziali di riproduzione culturale, sociale e dunque di classe (9).

I risultati scolastici, che generalmente premiano i figli delle famiglie istruite attraverso meccanismi noti e che qui non vi è spazio per richiamare (10), contano fino a un certo punto. Se sono buoni, rappresentano il marchio di legittimità di una preferenza sociale. Se sono scarsi, vengono ignorati ed imputati a elementi contingenti che nulla hanno a che fare con le presunte inclinazioni profonde degli studenti che, al contrario, meriterebbero di essere valorizzate all’interno di un percorso liceale. Le famiglie istruite hanno poi tutti i mezzi culturali, linguistici, simbolici e sociali per esercitare una scelta oculata più specifica all’interno del ramo liceale. Una più elevata capacità di rapportarsi in modo paritario con il corpo docente, di comprendere e lasciarsi comprendere nella relazione con gli attori delle istituzioni scolastiche sia del primo che del secondo ciclo della scuola secondaria, consentono loro di raccogliere informazioni accurate, pertinenti e maggiormente in grado di rispondere alle necessità di lettura del campo scolastico (11).

Essere immersi in un contesto sociale in cui l’istruzione liceale è un percorso comune consente loro di raccogliere informazioni dirette tra amici e figli d’amici che riguardano non solo i programmi e le prospettive di carriera, ma anche esperienze dirette in grado di raccontare qualcosa su specifiche scuole, sul loro corpo docenti, sulle differenze tra le singole sezioni e così via. Tutto ciò segna una differenza siderale con il modo attraverso cui viene esperito il passaggio alla scuola superiore da parte di famiglie poco istruite o di origine non italiana. Qui sono i figli i più «esperti» in famiglia di cose scolastiche. Qui mancano tutte le risorse necessarie per mettere in campo strategie scolastiche capaci di mettere in discussione la riproduzione del dominio di classe attraverso i percorsi di istruzione. Qui, in modo ancora più evidente, i processi di distinzione, ciò che fa dire «non è per quelli come noi», rappresenta l’interiorizzazione del divieto di sognare l’impossibile e fa sì che il ramo liceale venga percepito in modo nebuloso come un tipo di istruzione per la quale non si è all’altezza e per la quale non si dispongono dei tempi e delle risorse economiche e culturali necessarie per affrontarla con successo.

Non stupisce dunque che se, interrogati all’inizio della terza media sui loro interessi e sulle loro aspirazioni educative, gli studenti esprimano in modo prevalente orizzonti di scelta coerenti con i mondi sociali e culturali delle proprie famiglie e restituiscano in modo plastico un habitus che è interiorizzazione delle strutture di opportunità a cui possono avere accesso in virtù della loro appartenenza sociale.

L’orientamento scolastico di fronte alle strategie di classe

Di fronte a queste dinamiche che, è bene richiamarlo, riproducono disuguaglianze di classe ma anche di genere e di origine nazionale, e che il processo scolastico almeno fino all’inizio della terza media non è stata in grado di scardinare, la scuola può giocare un ruolo centrale, in particolare attraverso le attività più o meno formalizzate di orientamento scolastico. Tutti gli studenti italiani ricevono un consiglio di orientamento che esprime il tipo di istruzione secondaria che il corpo docente ritiene più adatto a ciascuno studente e, più o meno in tutte le classi, i docenti rappresentano o possono rappresentare un punto di riferimento cruciale per le scelte di indirizzo nella scuola superiore.

Soprattutto per studenti di classe operaia, con genitori poco istruiti o per le famiglie di origine immigrata, l’orientamento può infatti contribuire a veicolare informazioni e conoscenze a cui non hanno generalmente accesso nelle loro cerchie sociali di riferimento e a costruire orizzonti di scelta meno vincolati alle posizioni sociali occupate. L’osservazione delle pratiche orientative mostra tuttavia una realtà ben diversa. L’orientamento scolastico appare come uno spazio in cui si esercita una violenza di classe condotta con armi di tipo simbolico-culturale: con la parola, il consiglio, il parere, e con l’uso di tassonomie legate a principi di realismo che inchiodano i soggetti al posto che è stato loro assegnato per nascita (12). Vi sono naturalmente eccezioni. Docenti che si oppongono, anche nelle pratiche di orientamento, alla riproduzione dello status-quo e che hanno bene in mente nella loro quotidiana attività lavorativa quale sia il dettato costituzionale che legittima, tra le altre cose, il prelievo fiscale (sempre meno progressivo) per finanziare una scuola pubblica. Ma il consiglio di classe è un luogo in cui sono necessarie mediazioni e negoziazioni che spesso rendono difficile a posizioni minoritarie di influenzare i caratteri generali della «cultura orientativa» prevalente (13). E così, nelle aule, nei corridoi, nei consigli di classe, nelle interazioni con i genitori e con gli studenti, il discorso orientativo prodotto dai docenti si incardina su di un regime di verità secondo cui il liceale ideale, colui o colei che presenta le qualità ritenute necessarie per portare a termine quel tipo di percorso, non è altro che il liceale tipo.

È cioè uno studente o una studentessa che deve mostrare di possedere quel particolare tipo di risorse culturali che ci si aspetta normalmente da chi frequenta quel tipo di scuola e che sono l’esito di un particolare tipo di socializzazione familiare: quella tipica delle classi medie e alte, istruite e italiane. Un tipo di risorse culturali che la scuola, rinunciando implicitamente ad insegnarle, si limita a valutare come segno di elezione, come marchio di legittimità per l’accesso a percorsi scolastici ritenuti più prestigiosi. Non solo. I docenti sono testimoni di un decennale processo di progressivo definanziamento del sistema di istruzione pubblico, dei tagli al diritto allo studio e ai servizi capaci di favorire l’inclusione scolastica degli alunni privi di mezzi. Così, la violenza di classe si realizza surrettiziamente e in modo generalmente inconsapevole anche attraverso l’atteggiamento paternalista di chi incoraggia gli studenti provenienti da famiglie economicamente vulnerabili a intraprendere percorsi scolastici di cui si presume — molto spesso erroneamente — la maggiore «spendibilità» sul mercato del lavoro. Proprio perché gli insegnanti sono il prodotto di una scolarizzazione ben riuscita, proprio perché conoscono particolarmente bene le «regole del gioco» e dunque i processi di selezione che gli studenti incontreranno sul loro cammino, possono oggettivamente penalizzare alcune categorie sociali nella convinzione di non far altro che una corretta operazione di abbinamento.

Si ratta però di una forma di discriminazione sottile, che si annida nella profondità del senso comune, in ciò che nella quotidianità scolastica viene dato per scontato e in ciò che molto spesso non trova spazi per essere discusso, dibattuto, esplicitato. Si tratta della messa in atto di un meccanismo di chiusura sociale, dunque di mantenimento dei privilegi di classe, che è invisibile proprio perché è connaturato alla forma scolastica prevalente che tutti noi abbiamo sotto gli occhi e da cui è possibile prendere le distanze solo all’interno di un percorso sociale e politico di costruzione di modelli alternativi capaci di metterla in discussione radicalmente. Pratiche orientative come quelle osservate nel corso della ricerca sono perfettamente coerenti con i criteri e gli assunti più o meno impliciti che determinano i criteri di valutazione e selezione della cultura scolastica più generale. Gli stessi principi che consentono l’operazione di abbinamento/ordinamento nelle pratiche di orientamento — ovvero la separazione tra corsi di studio pratici/teorici, corti/lunghi, orientati al lavoro/orientati ad una formazione culturale di tipo generale — sono il risultato di ciò a cui la scuola sceglie di dar valore e dunque di un’operazione di gerarchizzazione che privilegia i valori e la cultura dei ceti dominanti.

Ma l’orientamento scolastico oltre a scoraggiare dall’intraprendere i percorsi liceali proprio gli studenti che, attraverso quel tipo di istruzione, potrebbero oltrepassare i confini determinati dalla loro posizione sociale, e dunque produrre cambiamento sociale, svolge una seconda funzione che potremmo definire di tipo mistificatorio. Attraverso la costruzione di un discorso universalista, meritocratico e psicologizzante — supportato sempre più dall’utilizzo di tecnologie orientative costituite da assemblaggi di saperi esperti di vario tipo (percorsi di orientamento formativo, test-psicoattitudinali, counselling, ecc.) — le pratiche orientative rafforzano negli studenti la convinzione che gli orizzonti di scelta con cui si confrontano, e che sono dettati dalle opportunità e dalle risorse di cui sono dotati in virtù della loro appartenenza sociale, sono in realtà il prodotto di determinanti tutte individuali: il talento, l’impegno, le attitudini, gli interessi. Un’operazione che finisce con il naturalizzare le cause sociali dei processi di selezione scolastica e che contribuisce a produrre una depoliticizzazione dei problemi legati alle disuguaglianze nelle transizioni scolastiche. Poco è cambiato nelle dinamiche di base attraverso cui si produce il classismo dell’istituzione scolastica (14).

Lo mostrano ampiamente le statistiche e lo mostrano in modo ancora più vivido le osservazioni che è possibile condurre all’interno delle aule scolastiche specie se focalizzate sui momenti di transizione più cruciali per i futuri destini sociali degli studenti. Sono cambiate invece le tecniche attraverso cui si producono e si riproducono le disuguaglianze e che sempre più imbrigliano gli studenti e le famiglie in un discorso individualizzante. Questo discorso costruisce attorno a soggetti in divenire i confini entro cui immaginare il proprio futuro, ma al contempo li esorta ad attivarsi, a responsabilizzarsi, per costruire e riprodurre, come piccoli imprenditori che investono il proprio «capitale umano »— cioè quelle risorse e competenze che l’istituzione scolastica ritiene importanti e certificabili, quei rapporti di subordinazione e dominio che permeano la società e il sistema scolastico nel suo insieme (15).15 Si pensi a titolo esemplificativo al proliferare dei ranking che, con la piattaforma Scuola in Chiaro e soprattutto con Eduscopio della Fondazione Giovanni Agnelli, si propongono come sistemi di offerta di informazioni attraverso cui studenti e famiglie possono scegliere in modo consapevole e razionale la scuola dentro cui investire i successivi anni di studio. Da un lato, tali dispositivi non riducono le disuguaglianze tra studenti, ma al contrario le rafforzano, tra filiere formative e tra scuole poiché la loro fruizione è condizionata da una ‘disposizione alla scelta’ e da risorse culturali e linguistiche che si distribuiscono in modo diseguale tra le classi sociali e tra genitori italiani e non italiani.

Dall’altro, contribuiscono a produrre un discorso che responsabilizza (e colpevolizza) le famiglie e gli studenti di fronte alle scelte educative e ai loro esiti in un quadro in cui, come si è visto, queste ultime rimangono in definitiva determinate dalle appartenenze sociali. Si tratta di dispositivi che producono e riproducono un’ideologia in cui la scelta diventa un momento di investimento nel proprio capitale umano — i cui ritorni, come per il portale Eduscopio sono ad dirittura quantificabili in termini di probabilità di accesso e di successo nel mondo universitario e nel mondo del lavoro — e che mascherano la dimensione sociale e politica dei meccanismi selettivi che strutturano le carriere di istruzione e successivamente lavorative. I processi di classe che producono le traiettorie individuali svaniscono nella retorica del mercato. L’ideologia del capitale umano che costruisce soggetti imprenditori del sé maschera i differenti privilegi sociali che sostengono i loro investimenti.

Nel 1973 venne trasmesso dalla Rai un documentario in quattro puntate girato da Vittorio De Seta e intitolato Diario di un maestro. Il documentario ebbe 12 milioni di spettatori e raccontava di alcuni mesi di un maestro in una scuola elementare in una periferia romana. Un maestro che provava a fare i conti con la complessità sociale e con i fini costituzionali della scuola
pubblica sperimentando alternative radicali alla forma scolastica dominante. Questo maestro non aveva un metodo lineare, sperimentava, imparava: «mentre disegnavano ho cominciato a prendere appunti, non sapevo ancora come affrontare l’argomento, come trasformarlo in occasione di studio, di ricerca…» (16). Credo che questo sia l’approccio che ha contraddistinto l’esperienza
di quella stagione importante di innovazioni pedagogiche che, pur senza essere riuscite a scalfire la forma scolastica prevalente, hanno fornito elementi centrali per criticarla e per cercare alternative capaci di costituire la scuola come un agente in grado di trasformare la società a partire da principi di giustizia sociale.

Oggi, di fronte a una crescente complessità dei processi e delle tecnologie che più o meno surrettiziamente contribuiscono a produrre disuguaglianze sociali e di fronte a politiche scolastiche che vanno imponendo un’idea di scuola plasmata sul modello del mercato, occorre forse recuperare questa spinta alla ricerca e alla sperimentazione incardinandola però all’interno di una cornice filosofico-politico-pedagogica capace di interpretare e attualizzare la dimensione relazionale e conflittuale dei rapporti sociali e di classe. Si tratta di tornare a demistificare l’ideologia del merito dentro la scuola per immaginare un percorso collettivo di critica radicale alla forma scolastica prevalente e per ridisegnarne i fini ultimi dentro un sistema sociale ed economico che sotto la spinta delle attuali politiche neoliberali sta producendo crescenti disuguaglianze, disastri ambientali, ed esclusioni sociali.

[Di Marco RomitoRicercatore al Dipartimento di Studi Politici e Sociali all’Università Statale di Milano, ha pubblicato nel 2016 «Una scuola di classe. Orientamento e diseguaglianza nelle transizioni scolastiche», indagine etnografica sulle modalità di orientamento scolastico in due scuole milanesi tra 2011 e 2013 e sulle ricadute riguardo alla mobilità sociale Ricercatore al Dipartimento di Studi Politici e Sociali all’Università Statale di Milano, ha pubblicato nel 2016 «Una scuola di classe. Orientamento e diseguaglianza nelle transizioni scolastiche», indagine etnografica sulle modalità di orientamento scolastico in due scuole milanesi tra 2011 e 2013 e sulle ricadute riguardo alla mobilità sociale]

Note

(1) Questo contributo raccoglie alcuni appunti e spunti di discussione che partono da una ricerca da me condotta nel corso di un dottorato di ricerca in sociologia presso l’Università degli Studi di Milano. Il lavoro di ricerca è stato pubblicato in alcuni articoli scientifici e in un volume, Romito M. (2016) Una scuola di classe. Orientamento e disuguaglianza nelle transizioni scolastiche edito da Guerini e Associati, che raccoglie nei primi capitoli e in modo più sistematico di quanto sia possibile fare in questa sede, i principali risultati prodotti dalla ricerca sociologica in Italia e la letteratura internazionale più rilevante per dar conto dei meccanismi di riproduzione delle disuguaglianze sociali nelle transizioni scolastiche.
(2) Ballarino & Panichella, 2016.
(3) Si vedano: Dei, 1993; Tocci.
(4) Si vedano tutti i rapporti pubblicati da AlmaLaurea o i più recenti rapporti dell’Ocse Education at Glance per un confronto internazionale.
(5) Tutti i dettagli metodologici sono descritti nel primo capitolo del volume su cui si basa il presente contributo. 6 Bourdieu, 1994.
(6) Bourdieu, 1994.
(7) Duru-Bellat, 2006. 8 A. Lareau, 2003; Reay, 1998.
(8) A. Lareau, 2003; Reay, 1998.
(9) Van Zanten, 2009.
(10) Bourdieu & Passeron, 1970. 11 Annette Lareau, 2015.
(11) Annette Lareau, 2015.
(12) Boone & Van Houtte, 2013. 13 Tarabini, Curran, & Fontdevila, 2016.
(13) Tarabini, Curran, & Fontdevila, 2016.
(14) Ne ho messo in luce alcuni aspetti partendo da un quadro teorico foucaultiano in questo articolo (Romito, 2017).
(15) Dardot & Laval, 2009.
(16) La citazione è presa da Raimo 2017, Tutti i banchi sono uguali. La scuola e l’uguaglianza che non c’è, Einaudi, Torino.

Riferimenti bibliografici

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